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Partita fiscale
Perché fare la riforma fiscale in deficit è pura folliadi Davide Giacalone - 14 giugno 2011
Pensare di fare la riforma fiscale in deficit è pura follia. Su questo ha ragione Giulio Tremonti. Un passo in quella direzione porterebbe ad un aumento del tasso d’interesse sul debito, divenuto meno affidabile, che, da solo, ciuccerebbe via ogni beneficio. Ma pensare di non farla, di restare fermi e limitarsi a spremere il contribuente spremuto, non è meno folle. Diciamo che sono due sezioni dello stesso manicomio.
A far la riforma ci penso da un anno, ha detto Tremonti. Noi speravamo ci pensassero da diciassette. Forse bisognerebbe dirlo in modo diverso: la facciamo subito e la rendiamo operativa entro un anno. Mi pare l’unica risposta politica possibile, considerato che l’umore negativo, nei confronti del governo e di chi lo guida, si gonfia in modo così determinato da non lasciare illusioni: ci vuole sostanza, non apparenza. E’ un problema di contenuto, mica di comunicazione. Come fare? Leggo anticipazioni che mettono i brividi. Si potrebbe, suggeriscono, tagliare di un punto l’Irap. Ma l’Irap è una tassa sbagliata e odiosa al 100%. Se per ragioni di cassa non si riesce a fare la cosa giusta, cancellarla, non ha senso darle un’inutile limatina, che serve solo a ricordare l’incapacità di fare il bene.
Anche le aliquote Irpef non ha senso sbeccarle di un punto, salvo aumentare di altrettanto l’Iva, perché i soldi miei son sempre gli stessi e se me ne lasciate qualcuno in più in tasca e poi aumentate il carico fiscale sui consumi c’è il rischio che quei pochi talleri vadano al mercato senza fattura e senza scontrino, di cui è piena l’Italia, per ogni dove. Formulo alcuni suggerimenti, certamente non esaustivi, ma utili a comprendere quale direzione sarebbe opportuno imboccare.
1. I signori di Equitalia e di Agenzia delle Entrate sono i principali propagandisti della rivolta fiscale, nonché il più alto prezzo politico che il governo sta pagando. Che si debba combattere l’evasione fiscale è obiettivo condiviso, che si possa farlo esercitando violenza e arroganza sui contribuenti, assai spesso quelli onesti, è intollerabile. Quindi, un primo indirizzo: non ha nessuna importanza entro quanti giorni devo pagare la cartella esattoriale e non serve a nulla prorogare l’agonia, serve sapere se debbo farlo prima o dopo che un giudice abbia stabilito chi ha ragione. Nel primo caso è giusto che i cittadini s’arrabbino.
2. Sappiamo tutti benissimo che non sono i costi della politica a mandare a picco le casse, ma sappiamo anche che tagliarli servirebbe a far digerire meglio il resto. A parte le province, che si volevano abolire e che sono ancora lì, a imperituro memento dell’immanenza burocratica, il cittadino paga per il foraggiamento di 120.490 consiglieri comunali, 3.246 consiglieri provinciali, 36.112 assessori, fra comunali e provinciali, 1.117 consiglieri regionali e non ho fatto il conto dei circoscrizionali e dei mini-municipi. Tutto questo non è solo un costo in sé (con assai dubbi benefici circa la rappresentanza), ma genera una spesa pubblica mostruosa, fatta di tante aziende che orbitano attorno alla capacità d’influenzare le decisioni di tutti questi signori. Se si vuole, e si deve, tagliare, una bella falce da queste parti non guasterebbe punto.
3. E’ inutile prendersela con Tremonti per i tagli lineari, giacché quel sistema, che i fighetti di qualche tempo fa chiamavano “dottrina Gordon Brown”, è l’unico che funziona. I tagli mirati sono belli da dirsi, ma difficili da farsi, per due ragioni: a. nessuno conosce veramente il bilancio pubblico e la composizione della spesa; b. nessuno ha la forza d’imporli agli interessi che li subiscono. La politica è debole, troppo (anche per colpa, naturalmente). Allora si deve agire diversamente, riqualificando la spesa: lo Stato non comperi dal mercato, a spizzichi e bocconi (e qualcuno va di traverso), ma consegni al mercato le risorse e la responsabilità della gestione. Basterebbe imporre la regola della diminuzione percentuale annua della spesa e il vincolo della qualità. Lo so, dirlo dopo il disastro immondo del referendum sull’acqua sembra eresia, ma se non si è capaci di governare si può anche andare ai giardinetti.
4. Decentrare la spesa è un errore, se non si decentra la raccolta dei quattrini. Nel campo sanitario si risparmierebbe, e molto, sia centralizzando gli acquisti che privatizzando le gestioni. Forse è il caso di farlo, prima che qualcuno s’accorga che la riforma del 1999 servì a nascondere il debito sotto il tappeto delle regioni.
In poco tempo può essere fatto molto, ma solo a patto di cambiare paradigma, di ragionare in modo diverso. Se, invece, si resta nel recinto dell’immutabile, se si aprono dibattiti surreali fra “rigoristi” e “lassisti”, disputando di qualche zero virgola, allora si può perdere molto tempo e fare poco. Salvo un dato: il tempo s’avvia a scadere.
Pubblicato da Libero
A far la riforma ci penso da un anno, ha detto Tremonti. Noi speravamo ci pensassero da diciassette. Forse bisognerebbe dirlo in modo diverso: la facciamo subito e la rendiamo operativa entro un anno. Mi pare l’unica risposta politica possibile, considerato che l’umore negativo, nei confronti del governo e di chi lo guida, si gonfia in modo così determinato da non lasciare illusioni: ci vuole sostanza, non apparenza. E’ un problema di contenuto, mica di comunicazione. Come fare? Leggo anticipazioni che mettono i brividi. Si potrebbe, suggeriscono, tagliare di un punto l’Irap. Ma l’Irap è una tassa sbagliata e odiosa al 100%. Se per ragioni di cassa non si riesce a fare la cosa giusta, cancellarla, non ha senso darle un’inutile limatina, che serve solo a ricordare l’incapacità di fare il bene.
Anche le aliquote Irpef non ha senso sbeccarle di un punto, salvo aumentare di altrettanto l’Iva, perché i soldi miei son sempre gli stessi e se me ne lasciate qualcuno in più in tasca e poi aumentate il carico fiscale sui consumi c’è il rischio che quei pochi talleri vadano al mercato senza fattura e senza scontrino, di cui è piena l’Italia, per ogni dove. Formulo alcuni suggerimenti, certamente non esaustivi, ma utili a comprendere quale direzione sarebbe opportuno imboccare.
1. I signori di Equitalia e di Agenzia delle Entrate sono i principali propagandisti della rivolta fiscale, nonché il più alto prezzo politico che il governo sta pagando. Che si debba combattere l’evasione fiscale è obiettivo condiviso, che si possa farlo esercitando violenza e arroganza sui contribuenti, assai spesso quelli onesti, è intollerabile. Quindi, un primo indirizzo: non ha nessuna importanza entro quanti giorni devo pagare la cartella esattoriale e non serve a nulla prorogare l’agonia, serve sapere se debbo farlo prima o dopo che un giudice abbia stabilito chi ha ragione. Nel primo caso è giusto che i cittadini s’arrabbino.
2. Sappiamo tutti benissimo che non sono i costi della politica a mandare a picco le casse, ma sappiamo anche che tagliarli servirebbe a far digerire meglio il resto. A parte le province, che si volevano abolire e che sono ancora lì, a imperituro memento dell’immanenza burocratica, il cittadino paga per il foraggiamento di 120.490 consiglieri comunali, 3.246 consiglieri provinciali, 36.112 assessori, fra comunali e provinciali, 1.117 consiglieri regionali e non ho fatto il conto dei circoscrizionali e dei mini-municipi. Tutto questo non è solo un costo in sé (con assai dubbi benefici circa la rappresentanza), ma genera una spesa pubblica mostruosa, fatta di tante aziende che orbitano attorno alla capacità d’influenzare le decisioni di tutti questi signori. Se si vuole, e si deve, tagliare, una bella falce da queste parti non guasterebbe punto.
3. E’ inutile prendersela con Tremonti per i tagli lineari, giacché quel sistema, che i fighetti di qualche tempo fa chiamavano “dottrina Gordon Brown”, è l’unico che funziona. I tagli mirati sono belli da dirsi, ma difficili da farsi, per due ragioni: a. nessuno conosce veramente il bilancio pubblico e la composizione della spesa; b. nessuno ha la forza d’imporli agli interessi che li subiscono. La politica è debole, troppo (anche per colpa, naturalmente). Allora si deve agire diversamente, riqualificando la spesa: lo Stato non comperi dal mercato, a spizzichi e bocconi (e qualcuno va di traverso), ma consegni al mercato le risorse e la responsabilità della gestione. Basterebbe imporre la regola della diminuzione percentuale annua della spesa e il vincolo della qualità. Lo so, dirlo dopo il disastro immondo del referendum sull’acqua sembra eresia, ma se non si è capaci di governare si può anche andare ai giardinetti.
4. Decentrare la spesa è un errore, se non si decentra la raccolta dei quattrini. Nel campo sanitario si risparmierebbe, e molto, sia centralizzando gli acquisti che privatizzando le gestioni. Forse è il caso di farlo, prima che qualcuno s’accorga che la riforma del 1999 servì a nascondere il debito sotto il tappeto delle regioni.
In poco tempo può essere fatto molto, ma solo a patto di cambiare paradigma, di ragionare in modo diverso. Se, invece, si resta nel recinto dell’immutabile, se si aprono dibattiti surreali fra “rigoristi” e “lassisti”, disputando di qualche zero virgola, allora si può perdere molto tempo e fare poco. Salvo un dato: il tempo s’avvia a scadere.
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.