Standard&Poor's stanga Hollande
Parigi declassata si ribella. Ma il segnale è per tutti
I governi europei non hanno ancora affrontato i problemi strutturali interni. La Bce compra tempo, ma serve una svoltadi Davide Giacalone - 11 novembre 2013
Il declassamento del debito francese, operato da Standard and Poor’s, è un monito per tutti. Il segnale che i governi europei non hanno ancora affrontato i problemi strutturali che la moneta unica si porta appresso.
Le istituzioni francesi hanno reagito in modo stizzito e nervoso. Il loro rivoltarsi contro la legittimità, assennatezza e libertà da altri interessi delle agenzie di rating è fondato, ma ricorda quel che noi italiani abbiamo vissuto a cavallo fra il 2010 e il 2011. Reazione comprensibile, ma inutile. Il messaggio è, nella sostanza, chiarissimo: la Banca centrale è l’unica istituzione europea funzionante, ma può solo comprare tempo; mentre i francesi scontano l’errore commesso da Nicolas Sarkozy e continuato da François Hollande, ovvero supporre che mettersi al fianco dei tedeschi ripari dalla tempesta. Cui la Francia, oggi, è esposta fin più dell’Italia.
Intendiamoci, l’outlook (la previsione) passa, per loro, da negativo a stabile. Mentre per noi resta negativo. Ma lascia il tempo che trova, perché il declassamento, il taglio del rating (da AA+ ad AA, certo assai meglio dell’Italia, che quella prima lettera dell’alfabeto l’ha persa), si basa sulla previsione d’insufficiente sviluppo. Senza crescita del prodotto interno il debito non è sostenibile. E’ vero che la Francia ha subito una recessione molto meno severa della nostra, ma questo dato va valutato anche alla luce del fatto che, fra il 2008 e il 2013, il nostro debito pubblico è cresciuto del 23%, il loro del 45. Il nostro debito pubblico posseduto da non residenti è (dato del 2012) di 698 miliardi, in crescita di 24 dal 2008, il loro è di 1.022 miliardi, in crescita di 297 (più alto e in maggiore crescita nel finanziamento dall’estero quello tedesco).
Noi abbiamo la colpa d’essere entrati nella bufera appesantiti da un debito pubblico troppo alto, ma dopo cinque anni il nostro svantaggio relativo si è accorciato. Noi abbiamo finanziato il nostro debito per metà con avanzi primari, loro interamente accendendo nuovi debiti. Il nostro debito aggregato (pubblico + imprese + famiglie), in rapporto al patrimonio, è inferiore al loro. A questo si aggiunga, come tante volte ricordato, che il nostro deficit rispetta i parametri europei, mentre il loro li sfora abbondantemente, sicché la loro condizione peggiora. Numeri che metto in fila perché si abbia la percezione della realtà, senza nulla concedere all’autolesionismo imperante, ma neanche al supporre che sia una gara fra noi e loro. Il problema vero lo abbiamo in comune: senza sviluppo quel debito non si regge. Noi abbiamo già versato sangue, loro hanno creduto di poterlo evitare. Si sono sbagliati.
Con questa politica europea, con questa subordinazione della produzione ai parametri monetari, lo sviluppo non c’è. Possono anche reagire con rabbia, come in passato facemmo noi, ma, a ben vedere, il declassamento di S&P è fin generoso. Abbassando i tassi d’interesse la Bce favorisce un deprezzamento dell’euro, dando respiro alle esportazioni, ma non rimedia, né può rimediare, ai guasti del mercato interno (che è pur sempre il più ricco mercato interno del mondo). Il credito costa meno, ma continua a non esserci, perché bloccato dalle regole europee. E anche in questo i francesi (le loro banche) sono messi peggio di noi. Né il taglio dei tassi modifica il vantaggio competitivo dello Stato e delle aziende tedesche, che accedono al credito pagandolo meno di francesi e italiani (in questo il nostro svantaggio è maggiore del loro). Non solo alla lunga, ma anche alla breve non regge. Non può reggere.
Parigi è una capitale devastata. Il suo scivolare verso l’impoverimento, il disordine (sia per traffico che per divisioni etniche dei quartieri) e verso la sporcizia sono visibili a occhio nudo. Fior di europeisti, cresciuti alla scuola di Robert Schuman e Jean Monnet, moltiplicano i loro scritti desolati, lanciando allarmi sull’Europa reale, così lontana dal sogno. La grandeur è messa a dura prova, l’asse franco-tedesco si dimostra un guinzaglio, la sacra laicità trema davanti al velo islamico. La crisi francese raccoglie tutti quanti i drammi di un’Europa smarrita nella sua identità.
Uscirne si può, senza per questo distruggere quel che si è costruito. Nel board della Bce i tedeschi sono stati messi in minoranza. Deve avvenire anche nelle altre istituzioni dell’Unione. Non per sciocco e repellente spirito anti-tedesco, ma perché la politica di Angela Merkel rischia di distruggere una costruzione avviata dal dopo guerra. Non dimentichiamo mai che i tedeschi sono un ottimo esempio di quel che è il dovere dei governi (per la verità quello di Gerard Schröder): fare riforme interne senza le quali non si regge la moneta unica, ma neanche la globalizzazione dei mercati. Altrimenti si declina fino al degrado. Riforme fin qui sconosciute alle “balls of steel” di Enrico Letta, e semmai vagheggiate nelle “space balls” che lui e Fabrizio Saccomanni vanno raccontando.
Le istituzioni francesi hanno reagito in modo stizzito e nervoso. Il loro rivoltarsi contro la legittimità, assennatezza e libertà da altri interessi delle agenzie di rating è fondato, ma ricorda quel che noi italiani abbiamo vissuto a cavallo fra il 2010 e il 2011. Reazione comprensibile, ma inutile. Il messaggio è, nella sostanza, chiarissimo: la Banca centrale è l’unica istituzione europea funzionante, ma può solo comprare tempo; mentre i francesi scontano l’errore commesso da Nicolas Sarkozy e continuato da François Hollande, ovvero supporre che mettersi al fianco dei tedeschi ripari dalla tempesta. Cui la Francia, oggi, è esposta fin più dell’Italia.
Intendiamoci, l’outlook (la previsione) passa, per loro, da negativo a stabile. Mentre per noi resta negativo. Ma lascia il tempo che trova, perché il declassamento, il taglio del rating (da AA+ ad AA, certo assai meglio dell’Italia, che quella prima lettera dell’alfabeto l’ha persa), si basa sulla previsione d’insufficiente sviluppo. Senza crescita del prodotto interno il debito non è sostenibile. E’ vero che la Francia ha subito una recessione molto meno severa della nostra, ma questo dato va valutato anche alla luce del fatto che, fra il 2008 e il 2013, il nostro debito pubblico è cresciuto del 23%, il loro del 45. Il nostro debito pubblico posseduto da non residenti è (dato del 2012) di 698 miliardi, in crescita di 24 dal 2008, il loro è di 1.022 miliardi, in crescita di 297 (più alto e in maggiore crescita nel finanziamento dall’estero quello tedesco).
Noi abbiamo la colpa d’essere entrati nella bufera appesantiti da un debito pubblico troppo alto, ma dopo cinque anni il nostro svantaggio relativo si è accorciato. Noi abbiamo finanziato il nostro debito per metà con avanzi primari, loro interamente accendendo nuovi debiti. Il nostro debito aggregato (pubblico + imprese + famiglie), in rapporto al patrimonio, è inferiore al loro. A questo si aggiunga, come tante volte ricordato, che il nostro deficit rispetta i parametri europei, mentre il loro li sfora abbondantemente, sicché la loro condizione peggiora. Numeri che metto in fila perché si abbia la percezione della realtà, senza nulla concedere all’autolesionismo imperante, ma neanche al supporre che sia una gara fra noi e loro. Il problema vero lo abbiamo in comune: senza sviluppo quel debito non si regge. Noi abbiamo già versato sangue, loro hanno creduto di poterlo evitare. Si sono sbagliati.
Con questa politica europea, con questa subordinazione della produzione ai parametri monetari, lo sviluppo non c’è. Possono anche reagire con rabbia, come in passato facemmo noi, ma, a ben vedere, il declassamento di S&P è fin generoso. Abbassando i tassi d’interesse la Bce favorisce un deprezzamento dell’euro, dando respiro alle esportazioni, ma non rimedia, né può rimediare, ai guasti del mercato interno (che è pur sempre il più ricco mercato interno del mondo). Il credito costa meno, ma continua a non esserci, perché bloccato dalle regole europee. E anche in questo i francesi (le loro banche) sono messi peggio di noi. Né il taglio dei tassi modifica il vantaggio competitivo dello Stato e delle aziende tedesche, che accedono al credito pagandolo meno di francesi e italiani (in questo il nostro svantaggio è maggiore del loro). Non solo alla lunga, ma anche alla breve non regge. Non può reggere.
Parigi è una capitale devastata. Il suo scivolare verso l’impoverimento, il disordine (sia per traffico che per divisioni etniche dei quartieri) e verso la sporcizia sono visibili a occhio nudo. Fior di europeisti, cresciuti alla scuola di Robert Schuman e Jean Monnet, moltiplicano i loro scritti desolati, lanciando allarmi sull’Europa reale, così lontana dal sogno. La grandeur è messa a dura prova, l’asse franco-tedesco si dimostra un guinzaglio, la sacra laicità trema davanti al velo islamico. La crisi francese raccoglie tutti quanti i drammi di un’Europa smarrita nella sua identità.
Uscirne si può, senza per questo distruggere quel che si è costruito. Nel board della Bce i tedeschi sono stati messi in minoranza. Deve avvenire anche nelle altre istituzioni dell’Unione. Non per sciocco e repellente spirito anti-tedesco, ma perché la politica di Angela Merkel rischia di distruggere una costruzione avviata dal dopo guerra. Non dimentichiamo mai che i tedeschi sono un ottimo esempio di quel che è il dovere dei governi (per la verità quello di Gerard Schröder): fare riforme interne senza le quali non si regge la moneta unica, ma neanche la globalizzazione dei mercati. Altrimenti si declina fino al degrado. Riforme fin qui sconosciute alle “balls of steel” di Enrico Letta, e semmai vagheggiate nelle “space balls” che lui e Fabrizio Saccomanni vanno raccontando.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.