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I debiti della Pubblica Amministrazione

Pago e pretendo

Il problema vero delle imprese non è il decreto, ma l'assenza di vere riforme

di Enrico Cisnetto - 05 aprile 2013

Ha voglia, il presidente della Repubblica, di dire che “un governo c’è”. Capisco, e condivido, le ragioni di questa affermazione, ma purtroppo il governo Monti non c’è più da tempo, come dimostra la “vicenda marò” e nonostante qualche sprazzo di intelligenza e buona volontà, come la meritoria riattivazione del Sistri decisa dal ministro Clini. E non è una questione di natura istituzionale – la partita tra chi sottolinea che “si è dimesso” e chi ricorda che “non è mai stato sfiduciato” – bensì tutta politica. E il caso del “decreto paga-debiti” lo dimostra in modo, ahime, inequivocabile.

Il braccio di ferro – l’ennesimo, e dunque insopportabile non fosse altro che per questa ragione – tra il Tesoro e il resto dell’esecutivo, ministro Passera in testa, e con palazzo Chigi come sempre silente (a parte il solito impegno di Catricalà), che ha portato allo slittamento del consiglio dei ministri che doveva varare il provvedimento, è la certificazione che nello stallo assoluto in cui è caduta la politica non si può (purtroppo) considerare il governo Monti come punto di riferimento, seppur minimo. Il “senso di disperazione” espresso a tal proposito dal presidente di Confindustria, Squinzi, rende l’idea di come le imprese guardino con sgomento non tanto al mancato pagamento dei loro crediti quanto, soprattutto, all’assoluta impotenza cui sono costrette ad assistere. In fondo 90 miliardi sono sì una bella cifra, che metterebbe qualche goccia di benzina in un motore fermo da tempo, ma a ben vedere rappresentano solo il 6% del pil, e molto probabilmente quei soldi finirebbero in mano alle banche che hanno scontato le fatture inviate alle pubbliche amministrazioni. Inoltre, in molti casi il motore delle imprese è grippato e non sarà questo filo di carburante – ammesso che arrivi – a farle ripartire. Ma proprio per questo l’effetto del provvedimento “burla”, che avrebbe dovuto già essere esecutivo dalla metà del 2012, è ancora più deprimente: “se non si riesce neppure a fare questo, figuriamoci le riforme strutturali”, pensano non solo i nostri scoraggiati imprenditori ma anche tutti quelli che, nel mondo, avrebbero possibilità e interesse a investire in Italia.

Si dice: ma il rinvio è “colpa” del pressing di Squinzi e Sangalli, che si sono battuti per modificare il decreto. Vero. Ed è bene che sia andata così, perché altrimenti dalle ultime versioni del provvedimento (uso il plurale perché il testo è cambiato cento volte) sarebbe uscito un aborto, con risorse insufficienti e non chiaramente individuate, e con procedure complicatissime (erano previsti dieci decreti attuativi) che avrebbero paralizzato ancor di più le amministrazioni debitrici. Inoltre, nel testo non c’era neppure l’ombra del provvedimento più logico e giusto, quello della compensazione che le imprese potrebbero fare tra i crediti che devono esigere e i debiti (tasse) che hanno da pagare. Dunque, quello delle associazioni degli imprenditori è un merito, non una colpa. Rimane il fatto, per dirla renzianamente, che si sta perdendo tempo. Un tempo maledettamente prezioso, visto che tutto questo (non) accade mentre la crisi economica continua – è di ieri il dato di Confcommercio sui consumi, che a febbraio sono scesi di un altro 3,6% su base annua, proseguendo nella tendenza avviatasi a settembre 2011 – e mentre l’Europa preme per farci mantenere il rapporto deficit-pil sotto il 3%, il che con tutta probabilità, nonostante le smentite di Monti, comporterà di dover fare presto una manovra correttiva di bilancio e di non poter rinunciare al programmato (e disconosciuto in campagna elettorale) aumento dell’Iva.

Eppure l’accordo, per quanto temporaneo e privo di implicazioni politiche di valore strategico, i partiti continuano a non costruirlo. Si può dubitare quanto si vuole, nel metodo e nel merito, sull’iniziativa di Napolitano dei cosiddetti “saggi”, ma è evidente che essa è figlia dell’impasse prodotta da Bersani e dall’incapacità del Pdl di offrire spazi di manovra alternativi. Stallo a cui non si può replicare a cuor leggero “allora si vada alle elezioni”, sapendo che tornare subito alle urne, giugno-luglio o settembre poco importa, e per di più con la stessa legge elettorale che produce ingovernabilità pur regalando un assurdo premio di maggioranza, finirebbe per premiare il voto di protesta più di quanto non sia già avvenuto. La Seconda Repubblica sta trasformando l’incapacità di prendere atto del suo fallimento e conseguentemente di avviare una nuova stagione politica, in una tragedia per tutti. Osservare che, in questa fase, si stia caricando di maggiore responsabilità la sinistra non assolve certo la destra. Certo, la colpa della sinistra è verissima, e affonda le radici nell’assurda idea del Pd, nata in occasione delle primarie, di riproporre la contrapposizione bipolare sulla base della presunzione, rivelatasi errata, di avere già la vittoria in tasca e che Berlusconi fosse out. Follia che si completa, dopo le elezioni, con la pazzoide ostinazione di Bersani a voler andare a palazzo Chigi con la benedizione di qualche grillino dissidente. Ma questo non cancella, anzi aggrava, la responsabilità del “non governo” berlusconiano dal 2001 in poi e della fragilità politica della sua “rimonta” elettorale. Ora resta solo una speranza (flebile): che chi capisce e non è d’accordo, dall’una come dall’altra parte, esca allo scoperto. Costi quel che costi.

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