La favola della giustizia sociale
Paga chi ha pagato
Sono sempre gli stessi quelli che paganodi Davide Giacalone - 04 dicembre 2011
Tanti saluti all’idea che si doveva far pagare quelli che non avevano pagato. Pagheranno quelli che hanno sempre pagato, per giunta di più, vale a dire le fasce alte delle aliquote Irpef. Non è un colpo di scena, ce lo aspettavamo. Credere che fosse possibile il contrario è un po’ credere nelle favole, e noi non ci crediamo. Però c’è un aspetto fastidioso, un elemento culturale che segnaliamo ai professori al governo, talché lo mettano nel conto di reazioni negative: sostenere che questo sia un atto di giustizia sociale, perché così pagano i “ricchi”, è una tesi intollerabile. Primo, perché così pagano solo le persone oneste.
Secondo, perché immaginare come “ricchi” i redditi che superano i 55mila euro può farlo solo chi preferisce coltivare pregiudizi sociali al far di conto. Il ceto medio e professionale subisce una spazzolata fiscale senza veder modificare, anche nel senso di maggiore apertura alla concorrenza, le regole del proprio lavoro. Peccato, perché le riforme avrebbero favorito la crescita, mentre i prelievi favoriscono solo la depressione. A questo si aggiunga che rimane in predicato un possibile innalzamento dell’Iva, già cresciuta di un punto, il che ulteriormente colpisce i consumi, già in recessione da mesi.
Ma che volete? diranno quelli del governo: siamo in un momento terribile, abbiamo ereditato una situazione difficilissima e non potevamo fare altro. E’ vero, avrebbero ragione a dirlo. Ma è anche drammatico perché, se ci si limita a quel che si mormora e annuncia, vuol dire che siamo finiti in un vicolo cieco. Dove i primi ad essere bendati, però, sono gli stessi che dovrebbero tirarcene fuori. Perché, per dirne una, non sento parlare di vendite e privatizzazioni? Anche con quelle si farebbe cassa, ma senza incrudelire la recessione e senza lasciare in bocca il sapore sgradevole della vendetta sociale (inaccettabile, visto che non c’è un accidente da vendicare). Conosco l’obiezione: ci vuole tempo e i soldi servono subito. Ma con tante belle menti a disposizione si possono trovare soluzioni tecniche capaci di produrre liquidità.
Ad esempio si possono mettere i beni pubblici dentro un contenitore immediatamente valorizzabile, quindi immediatamente capace di trasformarsi in moneta sonante. Si può anche immaginare di portare verso quel veicolo, anche forzosamente, i quattrini degli italiani che si trovano ad avere liquidità, di modo che quei soldi verrebbero comunque schierati nella trincea del debito pubblico, ma senza essere ufficialmente sequestrati da un inasprimento fiscale, bensì speranzosamente riposti sul Piave, in attesa che Vittorio Veneto getti nel passato Caporetto.
Una proposta di questo tipo è stata già descritta da Enrico Cisnetto, meriterebbe che ci si spiegasse perché non preferirla al torchio dell’erario (oltre tutto egli è genovese, quindi spontaneamente portato alla micragna, sicché dovrebbe trovare ascolto in un governo ufficialmente nato per far venire il braccino corto alla spesa pubblica, non per allungare le mani nelle tasche delle persone per bene, dei benemeriti che non nascondono i guadagni).
Non essendo mai stato in cattedra, dall’ultimo banco vorrei segnalare un problema, a tanti illustri docenti: se l’unica cosa che si riesce a fare, vale a dire tassare, è la medesima che chiunque altro sarebbe stato in grado di concepire, se l’attesa dei provvedimenti si corona con la presentazione dei più scontati, esclusa l’incompetenza degli autori prende corpo la disperazione dei cittadini. Insomma, vuol dire che siamo alla frutta e che le idee scarseggiano più dei talleri. E’ per questo, non certo per amore degli equilibrismi politici, che speriamo (veramente) si sappia aggiungere alle misure di cassa anche non meno concreti provvedimenti per lo sviluppo.
Nel primo semestre dell’anno in corso i distretti italiani hanno segnato una crescita delle esprotazioni più alta dei tedeschi. La migliore in Europa. Se si interseca il dato regionale (l’area più forte è stata il Nord-Est) con quello merceologico si scopre che l’area più debole, ovvero il Sud, ha elementi d’eccellenza, che la pongono all’avanguardia, laddove si parla di tecnologia avanzata. Cito questo dato per dire che l’Italia produttiva c’è, quella che rischia, che studia e che inventa, è presente. A quest’Italia non si deve raccontare la storia triste dei ricchi da punire, specialmente se l’asticella della ricchezza viene collocata così in basso.
Guai a stroncare le gambe di chi vuol correre, guai a distruggere il morale di chi ha l’ambizione di vincere, perché così facendo poi ci ritroviamo solo con l’Italia che campa di trasferimenti pubblici, ovvero gli stessi che si dovrebbero comprimere. A quel punto ci troveremmo a verificare la conferma di una dannazione: il consenso elettorale raccolto proprio grazie a una spesa che condanna l’Italia a scivolare indietro, lasciando senza degna rappresentanza gli italiani che incarnano l’unica seria alternativa alla rassegnazione declinante.
Il governo Monti aveva ed ha la possibilità di ridare fiducia e dignità a questa Italia. Stia attento, per assenza di coraggio e fantasia, a non accartocciarsi nella retorica del sacrificio e della sofferenza, quasi fossero lussurie e non malanni. Ricordi che siamo una delle gradi potenze economiche del mondo. Che certamente necessita di rimettere ordine nei propri conti pubblici, che sicuramente, nel farlo, si possono rompere privilegi e tabù, ma non si può e non si deve farlo fracassando le ossa all’Italia dei privati produttivi, assai meno indebitati, quindi più virtuosi, dei loro simili nel resto d’Europa.
Secondo, perché immaginare come “ricchi” i redditi che superano i 55mila euro può farlo solo chi preferisce coltivare pregiudizi sociali al far di conto. Il ceto medio e professionale subisce una spazzolata fiscale senza veder modificare, anche nel senso di maggiore apertura alla concorrenza, le regole del proprio lavoro. Peccato, perché le riforme avrebbero favorito la crescita, mentre i prelievi favoriscono solo la depressione. A questo si aggiunga che rimane in predicato un possibile innalzamento dell’Iva, già cresciuta di un punto, il che ulteriormente colpisce i consumi, già in recessione da mesi.
Ma che volete? diranno quelli del governo: siamo in un momento terribile, abbiamo ereditato una situazione difficilissima e non potevamo fare altro. E’ vero, avrebbero ragione a dirlo. Ma è anche drammatico perché, se ci si limita a quel che si mormora e annuncia, vuol dire che siamo finiti in un vicolo cieco. Dove i primi ad essere bendati, però, sono gli stessi che dovrebbero tirarcene fuori. Perché, per dirne una, non sento parlare di vendite e privatizzazioni? Anche con quelle si farebbe cassa, ma senza incrudelire la recessione e senza lasciare in bocca il sapore sgradevole della vendetta sociale (inaccettabile, visto che non c’è un accidente da vendicare). Conosco l’obiezione: ci vuole tempo e i soldi servono subito. Ma con tante belle menti a disposizione si possono trovare soluzioni tecniche capaci di produrre liquidità.
Ad esempio si possono mettere i beni pubblici dentro un contenitore immediatamente valorizzabile, quindi immediatamente capace di trasformarsi in moneta sonante. Si può anche immaginare di portare verso quel veicolo, anche forzosamente, i quattrini degli italiani che si trovano ad avere liquidità, di modo che quei soldi verrebbero comunque schierati nella trincea del debito pubblico, ma senza essere ufficialmente sequestrati da un inasprimento fiscale, bensì speranzosamente riposti sul Piave, in attesa che Vittorio Veneto getti nel passato Caporetto.
Una proposta di questo tipo è stata già descritta da Enrico Cisnetto, meriterebbe che ci si spiegasse perché non preferirla al torchio dell’erario (oltre tutto egli è genovese, quindi spontaneamente portato alla micragna, sicché dovrebbe trovare ascolto in un governo ufficialmente nato per far venire il braccino corto alla spesa pubblica, non per allungare le mani nelle tasche delle persone per bene, dei benemeriti che non nascondono i guadagni).
Non essendo mai stato in cattedra, dall’ultimo banco vorrei segnalare un problema, a tanti illustri docenti: se l’unica cosa che si riesce a fare, vale a dire tassare, è la medesima che chiunque altro sarebbe stato in grado di concepire, se l’attesa dei provvedimenti si corona con la presentazione dei più scontati, esclusa l’incompetenza degli autori prende corpo la disperazione dei cittadini. Insomma, vuol dire che siamo alla frutta e che le idee scarseggiano più dei talleri. E’ per questo, non certo per amore degli equilibrismi politici, che speriamo (veramente) si sappia aggiungere alle misure di cassa anche non meno concreti provvedimenti per lo sviluppo.
Nel primo semestre dell’anno in corso i distretti italiani hanno segnato una crescita delle esprotazioni più alta dei tedeschi. La migliore in Europa. Se si interseca il dato regionale (l’area più forte è stata il Nord-Est) con quello merceologico si scopre che l’area più debole, ovvero il Sud, ha elementi d’eccellenza, che la pongono all’avanguardia, laddove si parla di tecnologia avanzata. Cito questo dato per dire che l’Italia produttiva c’è, quella che rischia, che studia e che inventa, è presente. A quest’Italia non si deve raccontare la storia triste dei ricchi da punire, specialmente se l’asticella della ricchezza viene collocata così in basso.
Guai a stroncare le gambe di chi vuol correre, guai a distruggere il morale di chi ha l’ambizione di vincere, perché così facendo poi ci ritroviamo solo con l’Italia che campa di trasferimenti pubblici, ovvero gli stessi che si dovrebbero comprimere. A quel punto ci troveremmo a verificare la conferma di una dannazione: il consenso elettorale raccolto proprio grazie a una spesa che condanna l’Italia a scivolare indietro, lasciando senza degna rappresentanza gli italiani che incarnano l’unica seria alternativa alla rassegnazione declinante.
Il governo Monti aveva ed ha la possibilità di ridare fiducia e dignità a questa Italia. Stia attento, per assenza di coraggio e fantasia, a non accartocciarsi nella retorica del sacrificio e della sofferenza, quasi fossero lussurie e non malanni. Ricordi che siamo una delle gradi potenze economiche del mondo. Che certamente necessita di rimettere ordine nei propri conti pubblici, che sicuramente, nel farlo, si possono rompere privilegi e tabù, ma non si può e non si deve farlo fracassando le ossa all’Italia dei privati produttivi, assai meno indebitati, quindi più virtuosi, dei loro simili nel resto d’Europa.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.