Terza Repubblica, modello tedesco
Oltre il fallimento
Il compito è arduo, i tempi sono stretti. Ma ora o mai piùdi Enrico Cisnetto - 13 settembre 2010
Caro Direttore,
l’impegno profuso per realizzare “Cortina InConTra” mi ha impedito per 50 giorni di scrivere su Liberal con la consueta cadenza settimanale. Non ti nascondo che, a parte le motivazioni cogenti, la cosa non mi è costata troppo, anzi. Non per Liberal, naturalmente, che ho continuato a seguire ed apprezzare, bensì per gli argomenti sui quali avrei dovuto dire la mia. Mai come in questi ultimi due mesi, infatti, la politica italiana, che pure non si era certo risparmiata, ha dato prova di avere toccato il fondo.
Il dibattito (si fa per dire) ha raggiunto livelli così infimi da creare repellenza, e francamente seguirlo per dovere di cronaca rischia di abbassare a quel livello di indecenza anche chi di solito vola più alto. Ma non è solo una questione di “stomaco”. Qui il problema è che andando dietro agli stop and go di Berlusconi, alla furbizie tattiche di Fini o a quelle di Bossi, si rischia di perdere di vista il nocciolo della questione, che va ben al di là della pur ricca quotidianità che riguarda questa o quella situazione. E il tema di fondo è il fallimento, definitivo e completo, di quella stagione politica apertasi nel 1994 che abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica. Lo so, caro Direttore, che lo abbiamo detto e scritto tante volte – figurati che io l’ho pronosticato prima che accadesse, purtroppo inascoltato per anni – ma vale la pena ribadirlo oggi, per evitare di cadere nella trappola di credere che quella cui stiamo assistendo sia una partita alla quale sia utile partecipare. E vale a maggior ragione la pena di dirlo mentre è in corso l’appuntamento di Chianciano, dove si spera che l’ex (?) Udc sappia finalmente trovare la strada verso quel Partito della Nazione finora più evocato che costruito.
Dunque, rifuggiamo dalla tentazione di attribuire torti e ragioni a Fini, e specularmente a Berlusconi. Non facciamoci prendere dalla voglia di stabilire se la Lega sta facendo il gioco del Cavaliere perché si sono divisi i compiti o al contrario se sta facendo il doppio gioco, e sarà quella la mano assassina che butterà a mare il governo, e dunque dalla voglia di partecipare al grande concorso a premi “a chi rimane in mano il cerino?” nella corsa verso le elezioni anticipate. Chiamiamoci fuori, chiamatevi fuori amici riuniti a Chianciano. Intanto, perché in casi come questi vale sempre la regola che alla fine non rimane vivo nessuno. E poi perché gli italiani non perdoneranno coloro che si attardano a regolare i conti della Seconda Repubblica senza minimamente pensare a come costruire la Terza, mostrando di non comprendere che da questo drammatico default politico-istituzionale, ben peggiore di quello che portò con Tangentopoli alla fine della Prima Repubblica, nessuno potrà chiamarsi fuori. Ci ha già lasciato le penne il centro-sinistra – e la contestazione squadrista prima a Schifani e poi a Bonanni lo certifica, semmai ce ne fosse stato bisogno, e punisce la presunzione del Pd di non lasciarsi nessuno a sinistra per coltivare l’ambizione iper-maggioritaria del bipartitismo – ora ce le sta lasciando il centro-destra.
Per questo, ci sono quattro cose su cui bisogna lavorare. Primo: spiegare agli italiani che la crisi, irreversibile, non è di questo o quello, ma del sistema politico nel suo insieme. Derivante dalla pretesa di applicare all’Italia, peraltro senza averne minimamente la necessaria cultura, uno schema politico che non gli è proprio, quello del maggioritario. Secondo: di conseguenza, occorre avanzare subito – proprio mentre è più fragoroso il rumore del crollo della credibilità della politica – una proposta che indichi il nuovo metodo di voto, l’impianto istituzionale e il sistema politico. Per quanto mi riguarda la scelta è fatta da tempo: copiare la Germania, tanto per la legge elettorale quanto per l’assetto istituzionale, e la Grande Coalizione (con esclusione delle forze estreme, giustizialiste e secessioniste) come schema politico per almeno una legislatura. Affidando la revisione della Costituzione ad un’Assemblea Costituente. Tutto questo non va semplicemente evocato, ma deve tradursi in una proposta esplicita su cui chiamare ad esprimersi le forze politiche e sociali e la società civile. Terzo: radiografare senza indulgenze all’ottimismo di maniera o al pessimismo disfattista, la condizione di salute della nostra economia e indicare le riforme strutturali necessarie per restituirle la competitività perduta e quindi la capacità di svilupparsi.
Anche qui soccorre quanto detto da tempo e in tempi non sospetti. Analisi: stiamo faticosamente recuperando quanto abbiamo lasciato sul terreno nel terribile biennio scorso, lavoro nel quale siamo comunque solo a metà dell’opera, ma questo recupero non cancella, anzi in certi casi accentua come nel confronto con la Germania, il gap preesistente alla Grande Crisi rispetto alla capacità di crescita del pil europeo e mondiale; dunque, abbiamo da affrontare e risolvere in un colpo solo tre problemi che si vanno drammaticamente sommando, e cioè colmare le distanze competitive che abbiamo accumulato nel periodo 1992-2007, recuperare le quote di reddito e di produzione perse nel 2008-2009, evitare di perdere punti nel nuovo quadro geo-politico-economico mondiale che si sta determinando nella globalizzazione post-crisi. Proposta: si faccia subito la riforma delle pensioni, portando l’età pensionabile a 67 anni, quella della sanità, riportando le competenze in capo allo Stato, quella della semplificazione dei diversi livelli amministrativi (abolendo le Province, diminuendo a metà il numero dei Comuni, accorpando le Regioni più piccole a quelle maggiori e cancellando molti enti minori tipo le Comunità montane), quella della liberalizzazione di molti dei servizi pubblici e privati, con annessa privatizzazione delle municipalizzate. In più si metta mano una tantum al debito pubblico mettendo sul mercato attraverso una società veicolo da quotare in Borsa i beni mobili e immobili dello Stato e degli enti locali.
Quarto: chi lavora a favore dei primi tre punti, smetta di parlare di “terzo polo”. Ho già spiegato qui, e l’ho ribadito a Labro intervenendo alla festa dell’Api di Rutelli e Tabacci, che la necessità di costruire una nuova forza politica – che è maledettamente in ritardo – oggi non coincide più con la necessità, ahimè terminata con le elezioni del 2006, che essa sia “terza”. Terza di che? Se la sinistra è morta da tempo e per ridarsi una prospettiva ha bisogno di una trasfigurazione totale, una rinascita che presuppone la preventiva certificazione del trapasso di quella esistente, e se il centro-destra è nel pieno di una crisi esistenziale nonostante sia stato elettoralmente padrone del campo – o forse proprio per questo, non avere sufficiente opposizione comporta inevitabilmente l’esplosione delle opposizioni interne – insomma, se il bipolarismo ha perso entrambe i poli su cui si regge, non ha più nessun significato immaginare la creazione di una “forza terza”. Al contrario, adesso serve costruire una “prima forza”, sostitutiva dell’esistente, il quale è ancora “vivo” solo formalmente, in attesa che il “morto” – la Seconda Repubblica – venga definitivamente dichiarato tale e seppellito. Quello che viene chiamato il “dopo Berlusconi” altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano.
Ma la condizione è la stessa. E come a Berlusconi non venne l’idea di fare una “terza forza”, necessariamente subordinata per quanto consistente, così oggi il tema è quello di una forza primaria che sappia ricostruire un nuovo sistema politico. Quello di cui al punto secondo di questo schema di ragionamento. Quello della nascente Terza Repubblica. Il compito è arduo, i tempi sono stretti. Ma ora o mai più.
Il dibattito (si fa per dire) ha raggiunto livelli così infimi da creare repellenza, e francamente seguirlo per dovere di cronaca rischia di abbassare a quel livello di indecenza anche chi di solito vola più alto. Ma non è solo una questione di “stomaco”. Qui il problema è che andando dietro agli stop and go di Berlusconi, alla furbizie tattiche di Fini o a quelle di Bossi, si rischia di perdere di vista il nocciolo della questione, che va ben al di là della pur ricca quotidianità che riguarda questa o quella situazione. E il tema di fondo è il fallimento, definitivo e completo, di quella stagione politica apertasi nel 1994 che abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica. Lo so, caro Direttore, che lo abbiamo detto e scritto tante volte – figurati che io l’ho pronosticato prima che accadesse, purtroppo inascoltato per anni – ma vale la pena ribadirlo oggi, per evitare di cadere nella trappola di credere che quella cui stiamo assistendo sia una partita alla quale sia utile partecipare. E vale a maggior ragione la pena di dirlo mentre è in corso l’appuntamento di Chianciano, dove si spera che l’ex (?) Udc sappia finalmente trovare la strada verso quel Partito della Nazione finora più evocato che costruito.
Dunque, rifuggiamo dalla tentazione di attribuire torti e ragioni a Fini, e specularmente a Berlusconi. Non facciamoci prendere dalla voglia di stabilire se la Lega sta facendo il gioco del Cavaliere perché si sono divisi i compiti o al contrario se sta facendo il doppio gioco, e sarà quella la mano assassina che butterà a mare il governo, e dunque dalla voglia di partecipare al grande concorso a premi “a chi rimane in mano il cerino?” nella corsa verso le elezioni anticipate. Chiamiamoci fuori, chiamatevi fuori amici riuniti a Chianciano. Intanto, perché in casi come questi vale sempre la regola che alla fine non rimane vivo nessuno. E poi perché gli italiani non perdoneranno coloro che si attardano a regolare i conti della Seconda Repubblica senza minimamente pensare a come costruire la Terza, mostrando di non comprendere che da questo drammatico default politico-istituzionale, ben peggiore di quello che portò con Tangentopoli alla fine della Prima Repubblica, nessuno potrà chiamarsi fuori. Ci ha già lasciato le penne il centro-sinistra – e la contestazione squadrista prima a Schifani e poi a Bonanni lo certifica, semmai ce ne fosse stato bisogno, e punisce la presunzione del Pd di non lasciarsi nessuno a sinistra per coltivare l’ambizione iper-maggioritaria del bipartitismo – ora ce le sta lasciando il centro-destra.
Per questo, ci sono quattro cose su cui bisogna lavorare. Primo: spiegare agli italiani che la crisi, irreversibile, non è di questo o quello, ma del sistema politico nel suo insieme. Derivante dalla pretesa di applicare all’Italia, peraltro senza averne minimamente la necessaria cultura, uno schema politico che non gli è proprio, quello del maggioritario. Secondo: di conseguenza, occorre avanzare subito – proprio mentre è più fragoroso il rumore del crollo della credibilità della politica – una proposta che indichi il nuovo metodo di voto, l’impianto istituzionale e il sistema politico. Per quanto mi riguarda la scelta è fatta da tempo: copiare la Germania, tanto per la legge elettorale quanto per l’assetto istituzionale, e la Grande Coalizione (con esclusione delle forze estreme, giustizialiste e secessioniste) come schema politico per almeno una legislatura. Affidando la revisione della Costituzione ad un’Assemblea Costituente. Tutto questo non va semplicemente evocato, ma deve tradursi in una proposta esplicita su cui chiamare ad esprimersi le forze politiche e sociali e la società civile. Terzo: radiografare senza indulgenze all’ottimismo di maniera o al pessimismo disfattista, la condizione di salute della nostra economia e indicare le riforme strutturali necessarie per restituirle la competitività perduta e quindi la capacità di svilupparsi.
Anche qui soccorre quanto detto da tempo e in tempi non sospetti. Analisi: stiamo faticosamente recuperando quanto abbiamo lasciato sul terreno nel terribile biennio scorso, lavoro nel quale siamo comunque solo a metà dell’opera, ma questo recupero non cancella, anzi in certi casi accentua come nel confronto con la Germania, il gap preesistente alla Grande Crisi rispetto alla capacità di crescita del pil europeo e mondiale; dunque, abbiamo da affrontare e risolvere in un colpo solo tre problemi che si vanno drammaticamente sommando, e cioè colmare le distanze competitive che abbiamo accumulato nel periodo 1992-2007, recuperare le quote di reddito e di produzione perse nel 2008-2009, evitare di perdere punti nel nuovo quadro geo-politico-economico mondiale che si sta determinando nella globalizzazione post-crisi. Proposta: si faccia subito la riforma delle pensioni, portando l’età pensionabile a 67 anni, quella della sanità, riportando le competenze in capo allo Stato, quella della semplificazione dei diversi livelli amministrativi (abolendo le Province, diminuendo a metà il numero dei Comuni, accorpando le Regioni più piccole a quelle maggiori e cancellando molti enti minori tipo le Comunità montane), quella della liberalizzazione di molti dei servizi pubblici e privati, con annessa privatizzazione delle municipalizzate. In più si metta mano una tantum al debito pubblico mettendo sul mercato attraverso una società veicolo da quotare in Borsa i beni mobili e immobili dello Stato e degli enti locali.
Quarto: chi lavora a favore dei primi tre punti, smetta di parlare di “terzo polo”. Ho già spiegato qui, e l’ho ribadito a Labro intervenendo alla festa dell’Api di Rutelli e Tabacci, che la necessità di costruire una nuova forza politica – che è maledettamente in ritardo – oggi non coincide più con la necessità, ahimè terminata con le elezioni del 2006, che essa sia “terza”. Terza di che? Se la sinistra è morta da tempo e per ridarsi una prospettiva ha bisogno di una trasfigurazione totale, una rinascita che presuppone la preventiva certificazione del trapasso di quella esistente, e se il centro-destra è nel pieno di una crisi esistenziale nonostante sia stato elettoralmente padrone del campo – o forse proprio per questo, non avere sufficiente opposizione comporta inevitabilmente l’esplosione delle opposizioni interne – insomma, se il bipolarismo ha perso entrambe i poli su cui si regge, non ha più nessun significato immaginare la creazione di una “forza terza”. Al contrario, adesso serve costruire una “prima forza”, sostitutiva dell’esistente, il quale è ancora “vivo” solo formalmente, in attesa che il “morto” – la Seconda Repubblica – venga definitivamente dichiarato tale e seppellito. Quello che viene chiamato il “dopo Berlusconi” altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano.
Ma la condizione è la stessa. E come a Berlusconi non venne l’idea di fare una “terza forza”, necessariamente subordinata per quanto consistente, così oggi il tema è quello di una forza primaria che sappia ricostruire un nuovo sistema politico. Quello di cui al punto secondo di questo schema di ragionamento. Quello della nascente Terza Repubblica. Il compito è arduo, i tempi sono stretti. Ma ora o mai più.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.