Gli errori di Confindustria
Occasioni perse
Proviamo a rimettere insieme i cocci di un vaso rottodi Enrico Cisnetto - 13 maggio 2011
Tre fave (avvelenate) con un piccione. La vicenda Thyssen, dalla sentenza di condanna al suo amministratore delegato Harald Espenhahn per “omicidio volontario” al “chiedo scusa” di Giampaolo Galli passando per gli applausi degli imprenditori all’assise di Bergamo e relative polemiche, in quanto incredibile sequela di errori, segna simbolicamente – ove mai ve ne fosse stato bisogno – la crisi di Confindustria, giunta ad uno dei punti più bassi della sua lunga storia di “potere forte”.
Il primo, e più grave, errore commesso da Confindustria è stato quello di non aver reagito subito ad una sentenza che per la prima volta in Italia (e in Europa) applica la fattispecie dell’omicidio volontario ad un incidente sul lavoro. Perché se è vero che le responsabilità omissive del vertice della Thyssen Krupp Italia sono evidenti – hanno deliberatamente rinviato lavori di manutenzione che servivano a mettere in sicurezza gli impianti – non così automatico è che sia fondato il concetto di “dolo eventuale”, mediante il quale si è trasformato in omicidio volontario una già grave responsabilità penale. La reazione non doveva tanto essere a tutela di un associato quanto a salvaguardia dell’intero sistema industriale, visto che quella sentenza è un precedente che espone imprenditori, manager e responsabili aziendali della sicurezza in analoghe situazioni, a questo punto anche meno gravi sia come responsabilità che come conseguenze, ad essere condannati come “assassini consapevoli”. Più in generale, bisognava sollevare il tema della giustizia del lavoro, che da sempre è orientata in modo ideologico contro l’azienda, il suo “padrone” e i delegati di quest’ultimo.
E collegare a questo tema quello ancor più vasto ed importante della mancanza di certezza del diritto, in un paese in cui non c’è imprenditore che, almeno in primo grado, non abbia perso “a prescindere” una qualche causa relativa ai rapporti tra l’impresa e i terzi “tutelati”, siano essi dipendenti, burocrazia pubblica, paladini dell’ambiente e così via.
Non si trattava di dire che la Thyssen aveva ragione e che quelle drammatiche morti sono da imputare al fato – perché così non è – e neppure di sostenere che tutte le imprese sono in egual misura attente alla sicurezza dentro le fabbriche, perché è una sonora bugia.
No, quella di Confindustria doveva essere una battaglia – per la quale non bisognava certo aspettare la sentenza Thyssen, ma non avendolo fatto prima era certo una buona occasione – in favore di una riforma vera e radicale di un sistema da anni in default (per dirla con un linguaggio economico) come quella della giustizia penale e civile italiana.
Invece, commettendo il secondo degli errori, si è preferito dare la tribuna a Harald Espenhahn a Bergamo, dimostrando così che anche l’associazione degli imprenditori è affetta dallo stesso morbo della politica, preferire il colpo di teatro che soddisfa la comunicazione-spettacolo – che nella politica equivale all’effetto annuncio – piuttosto che impostare una seria battaglia di lungo termine per un obiettivo che si ritiene primario.
Ma che quella scelta avrebbe procurato una certa reazione da parte della platea e che così facendo si sarebbe dato il destro allo scoppio di una classica polemica all’italiana, non era davvero difficile intuirlo, tanto più che un’assise per la prima volta a “porte chiuse” anche per la stampa era inevitabile che avrebbe rappresentato un perfetto terreno di coltura per un polverone come quello che si è sollevato. Certo che l’intenzione non era quella di mancare di rispetto ai morti e alle loro famiglie – ci mancherebbe altro – né di sottovalutare un fenomeno grave (per fortuna in decrescita, dicono le statistiche) come quello degli incidenti sul lavoro.
Ed è sicuro che in buona parte di coloro che hanno soffiato sul fuoco c’erano becere intenzioni speculative. Ma proprio per questo, per l’incombente pericolo insito in quella scelta di dare “tre minuti” all’amministratore delegato della Thyssen di fronte a seimila colleghi, Confindustria avrebbe dovuto evitare. Ma una volta fatta quella scelta, e una volta scoppiata la polemica, non bisognava commettere l’ennesimo errore: spaventarsi e tirare il sedere indietro.
E invece, dopo un paio di giorni in cui si è balbettato, ecco le scuse da parte del direttore generale della confederazione per quell’applauso, che invece doveva essere rivendicato non come gesto di intromissione nel processo o di vicinanza al signor Espenhahn (le sue responsabilità restano, e non meritano certo un battimani) ma come espressione di un disagio degli imprenditori costretti a convivere con la “incertezza” del diritto.
Anyway, visto che il vaso è rotto, si può almeno provare e rimetterne insieme i cocci facendo una grande manifestazione di Confindustria sul tema giustizia, magari scrivendo per il governo – che su questo predica benino e razzola malissimo – il testo di quella grande riforma sempre promesso e mai realizzata?
Il primo, e più grave, errore commesso da Confindustria è stato quello di non aver reagito subito ad una sentenza che per la prima volta in Italia (e in Europa) applica la fattispecie dell’omicidio volontario ad un incidente sul lavoro. Perché se è vero che le responsabilità omissive del vertice della Thyssen Krupp Italia sono evidenti – hanno deliberatamente rinviato lavori di manutenzione che servivano a mettere in sicurezza gli impianti – non così automatico è che sia fondato il concetto di “dolo eventuale”, mediante il quale si è trasformato in omicidio volontario una già grave responsabilità penale. La reazione non doveva tanto essere a tutela di un associato quanto a salvaguardia dell’intero sistema industriale, visto che quella sentenza è un precedente che espone imprenditori, manager e responsabili aziendali della sicurezza in analoghe situazioni, a questo punto anche meno gravi sia come responsabilità che come conseguenze, ad essere condannati come “assassini consapevoli”. Più in generale, bisognava sollevare il tema della giustizia del lavoro, che da sempre è orientata in modo ideologico contro l’azienda, il suo “padrone” e i delegati di quest’ultimo.
E collegare a questo tema quello ancor più vasto ed importante della mancanza di certezza del diritto, in un paese in cui non c’è imprenditore che, almeno in primo grado, non abbia perso “a prescindere” una qualche causa relativa ai rapporti tra l’impresa e i terzi “tutelati”, siano essi dipendenti, burocrazia pubblica, paladini dell’ambiente e così via.
Non si trattava di dire che la Thyssen aveva ragione e che quelle drammatiche morti sono da imputare al fato – perché così non è – e neppure di sostenere che tutte le imprese sono in egual misura attente alla sicurezza dentro le fabbriche, perché è una sonora bugia.
No, quella di Confindustria doveva essere una battaglia – per la quale non bisognava certo aspettare la sentenza Thyssen, ma non avendolo fatto prima era certo una buona occasione – in favore di una riforma vera e radicale di un sistema da anni in default (per dirla con un linguaggio economico) come quella della giustizia penale e civile italiana.
Invece, commettendo il secondo degli errori, si è preferito dare la tribuna a Harald Espenhahn a Bergamo, dimostrando così che anche l’associazione degli imprenditori è affetta dallo stesso morbo della politica, preferire il colpo di teatro che soddisfa la comunicazione-spettacolo – che nella politica equivale all’effetto annuncio – piuttosto che impostare una seria battaglia di lungo termine per un obiettivo che si ritiene primario.
Ma che quella scelta avrebbe procurato una certa reazione da parte della platea e che così facendo si sarebbe dato il destro allo scoppio di una classica polemica all’italiana, non era davvero difficile intuirlo, tanto più che un’assise per la prima volta a “porte chiuse” anche per la stampa era inevitabile che avrebbe rappresentato un perfetto terreno di coltura per un polverone come quello che si è sollevato. Certo che l’intenzione non era quella di mancare di rispetto ai morti e alle loro famiglie – ci mancherebbe altro – né di sottovalutare un fenomeno grave (per fortuna in decrescita, dicono le statistiche) come quello degli incidenti sul lavoro.
Ed è sicuro che in buona parte di coloro che hanno soffiato sul fuoco c’erano becere intenzioni speculative. Ma proprio per questo, per l’incombente pericolo insito in quella scelta di dare “tre minuti” all’amministratore delegato della Thyssen di fronte a seimila colleghi, Confindustria avrebbe dovuto evitare. Ma una volta fatta quella scelta, e una volta scoppiata la polemica, non bisognava commettere l’ennesimo errore: spaventarsi e tirare il sedere indietro.
E invece, dopo un paio di giorni in cui si è balbettato, ecco le scuse da parte del direttore generale della confederazione per quell’applauso, che invece doveva essere rivendicato non come gesto di intromissione nel processo o di vicinanza al signor Espenhahn (le sue responsabilità restano, e non meritano certo un battimani) ma come espressione di un disagio degli imprenditori costretti a convivere con la “incertezza” del diritto.
Anyway, visto che il vaso è rotto, si può almeno provare e rimetterne insieme i cocci facendo una grande manifestazione di Confindustria sul tema giustizia, magari scrivendo per il governo – che su questo predica benino e razzola malissimo – il testo di quella grande riforma sempre promesso e mai realizzata?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.