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Non mettiamo un’altra volta la testa sotto la sabbia

Nuovi modelli di sviluppo cercansi

Invece di prolungare l’agonia di questo governo, si facciano le riforme strutturali per salvare il paese dal declino

di Enrico Cisnetto - 12 novembre 2010

Soldi buttati via. O, nel migliore dei casi, che non ci sono. Scorrendo l’elenco sia delle fonti di copertura sia delle voci di spesa, la cosiddetta Finanziaria per lo sviluppo (sic) di cui tanto si discute – in verità, più che per i contenuti, per i tempi di approvazione, che condizionano quelli della crisi politica – appare un faticoso quanto inutile esercizio contabile.

E non tanto per la ridotta dimensione, quanto per la modalità – peraltro inevitabile, nelle condizioni date – con cui la manovra è stata concepita. Infatti, aveva ragione il ministro Tremonti nel fare resistenza a questo passaggio, voluto dal premier nel tentativo di evitare di passare la mao (ma questo comunque non salverà il governo dalla disfatta). Non ci sono soldi, inutile girarci intorno. Sarebbe più onesto dirlo, e magari trarre spunto da questo fatto – come dalle nuove emergenze (Veneto, Pompei) – per ragionare su cosa dovrebbe fare il prossimo, di governo, che venga senza o dopo elezioni anticipate.

Tremonti ci ha provato in tutti i modi a spiegare che non “c’è trippa per i gatti”, ma alla fine anche lui ha dovuto capitolare di fronte alla marea montante delle richieste e alla necessità di evitare che si dica che il governo “sa solo contenere e tagliare ma non sviluppare”. Il che non gli è comunque servito ad evitare ruvidi scontri con alcuni suoi colleghi e a selezionare per bene quel poco di spesa che si può mettere in cantiere. D’altra parte, Palazzo Chigi non filtra più niente (neppure le telefonate improprie) e lui non è (ancora) presidente del Consiglio.

Così, il risultato è che di 5,1 miliardi messi sul tavolo quasi la metà arrivano dalla vendita delle frequenze di telecomunicazioni di quelle tv locali che passano al digitale terrestre, che secondo molti esperti difficilmente potranno dare un gettito pari ai 2,4 miliardi preventivati. Altri 1,7 miliardi sono prelevati dal cosiddetto “fondo Letta”, che essendo destinato a situazioni di crisi è in pratica una partita di giro, e l’ultimo miliardo da un paio di provvedimenti ancora tutti da stimare che riguardano un intervento anti-evasione sui giochi e un’imposta sostitutiva sul leasing immobiliare.

A fronte di queste ipotetiche entrate c’è una serie infinita di capitoli di spesa – ma per lo sviluppo economico sono appostati solo 240 milioni – che giustamente Tremonti ha reso anch’essi “variabili”, introducendo il meccanismo del “finanziamento finché ci sono le risorse”, per evitare nuovo deficit.

Insomma, sarebbe scorretto dire che si tratta di una manovra “elettorale”, ma altrettanto improprio è poterla definire di sviluppo. Specie se si fa qualche confronto: da un lato, per esempio, i 12 miliardi “investiti” dal governo tedesco nella ricerca, dall’altro la dura “spending review” di Cameron.

Sia chiaro, pur essendo keynesiano non mi sto iscrivendo al partito della spesa pubblica corrente (altrimenti, tra l’altro, non avrei sottolineato la serietà della manovra del governo inglese). Anzi, penso che sapendo di che pasta è fatta la politica italiana – così maledettamente fotocopia di una società (in)civile sempre più egoista – bene abbia fatto Tremonti a tenere la barra ferma sui conti. Se un rimprovero gli va rivolto, è di non averlo fatto abbastanza. Mollare avrebbe significato solo allungare la lista delle spese improduttive e clientelari. Ma questo non vuol dire che tra le richieste dei ministri e del parlamento non ce ne siano di giuste ed opportune.

E, soprattutto, non significa che non ci sia bisogno di mettere mano al portafoglio pubblico, sia in termini di maggiori uscite (investimenti e interventi manutentivi, sia in campo idrogeologico che di tutela dell’ambiente e dei beni culturali), sia in termini di minori entrate (riduzione del carico fiscale). Solo che stiamo parlando di molte decine, anzi di alcune centinaia di miliardi. Cifre che fanno impallidire i 5 miliardi della manovra in corso (ma anche i 7 che si dice sarebbero serviti).

Risorse che possono venire esclusivamente da alcune scelte di tipo straordinario, da riforme strutturali che a loro volta non possono che essere figlie di radicali cambiamenti di rotta da proporre al Paese. E perché si abbia il coraggio – e la lungimiranza – di indicare questi ultimi agli italiani, occorre che si realizzi una pre-condizione essenziale: un nuovo regime politico.

Ecco, invece di prolungare l’agonia di questo governo e con esso della Seconda Repubblica, si discuta di questa essenziale concatenazione: quale sistema politico per realizzare quali riforme per avere le risorse per sostenere quale modello di sviluppo? E’ la stessa questione con cui tra il 1992 e il 1994 avrebbero dovuto fare i conti coloro che, strumentalmente o meno, vollero la fine della Prima Repubblica o comunque colsero la stanchezza dei cittadini di fronte ad una politica che non dava risposte adeguate. Così non fu allora, e così non è mai più stato negli anni seguenti.

Peccato che la mancata risposta a quei quesiti ci sia costata il declino. Non oso neppure immaginare cosa ci costerebbe mettere un’altra volta la testa sotto la sabbia.

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