I limiti di una filosofia “finto liberista”
Non solo Parmalat
Senza una politica industriale non saremo in grado di difendere il nostro capitalismodi Enrico Cisnetto - 25 marzo 2011
Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire. Per anni in Italia ha prevalso un partito trasversale “finto liberista” – finto perché predicava ma non praticava il vero lassez-faire, trasversale perché aveva adepti tanto a destra come a sinistra – che ha demonizzato, esponendo al pubblico ludibrio, chi difendeva non il vecchio e inefficiente statalismo, ma gli interessi strategici nazionali e i relativi (già pochi allora) strumenti di sistema, a cominciare dalle banche, chiedendo alla politica di assumersi la responsabilità di individuarli e di creare le condizioni, non necessariamente legislative, perché fossero sostenuti.
I danni provocati da questi scimmiottatori di Adam Smith, che per di più sul piano politico hanno in buona misura coinciso con i fans del sistema maggioritario-bipolare, sono immensi. Il risultato è stato: il depauperamento del nostro capitalismo, ridotto ormai all’esercito delle piccole imprese e a un manipolo di medie leader in mercati di nicchia ma totalmente incapaci di fare sistema, con un residuale numero di grandi gruppi, quasi tutti rivenienti dalle vecchie partecipazioni statali; la scomparsa o il depotenziamento degli strumenti di aggregazione e mediazione degli interessi; la conquista, diretta o tramite spoliazione degli asset, delle prede più preziose, da parte di capitali esteri, con relativo trasferimento dei centri decisionali e dei profitti.
Se a questo si aggiunge il parallelo fallimento del sistema politico, certificato sia dall’inazione dei governi sia dalla frantumazione di maggioranze e opposizioni procurata da micidiali guerre per bande stile “tutti contro tutti” – nelle quali compartecipano i residuali interessi economici (salvo qualche meritoria eccezione), che nello stesso tempo risultano essere oggetto e soggetto – ecco spiegate molte vicende che riempiono le cronache dei giornali, ma soprattutto ecco spiegato perché certi ripensamenti, pur catalogabili apprezzabilmente secondo il motto “meglio tardi che mai”, rischiano di lasciare il tempo che trovano o addirittura di recare involontariamente danno.
Mi riferisco al fatto che, complice la crisi finanziaria mondiale degli ultimi anni, il partito liberista si è sciolto come neve al sole e ha lasciato il passo alla riscoperta del valore dell’italianità e della difesa dei centri nevralgici del Paese. Bene. Peccato, però, che la gran parte dei buoi siano già scappati e che chiudere la stalla sia ormai troppo tardi. Si pensi al caso Parmalat, a misura del quale è stato scritto il decreto “guadagna tempo” di mercoledì: l’intento è lodevole, perché se anche l’alimentare non è un settore strategicamente equiparabile a quelli della difesa, dell’energia o delle telecomunicazioni, rimane il fatto che l’azienda di Collecchio è una delle pochissime realtà di grandi dimensioni in una filiera, l’agroalimentare, fortemente caratterizzante il made in Italy.
Ma il suo commissariamento risale al dicembre 2003 e il risanamento finanziario di qualche tempo dopo: e in tutti questi anni, in cui si è colpevolmente lasciato che i 3/4 del consumo italiano fosse di latte importato, cosa si è fatto? Perché i vari ministri dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico che si sono succeduti non hanno chiamato banche e player nazionali a fare ciò che ora si tenta (leggi Intesa con Ferrero) dovendo però fare i conti con il 29% (ma c’è da scommettere sull’esistenza di altre quote “amiche”) raggiunto dai francesi della Lactalis? Perché si è lasciato che Enrico Bondi si trasformasse da commissario a padrone di fatto di quella che solo gli stolti (o i furbi) possono definire una public company? La verità è che la premessa necessaria per difendere il capitalismo nostrano era quella cosa che tutti i paesi liberal praticano e che noi invece abbiamo demonizzato, la politica industriale, senza la quale ora ci troviamo con ben poco da difendere e con il rischio che difendendo quel poco si facciano saltare equilibri, residuali quanto si vuole ma pur sempre esistenti, che nel frattempo si sono trovati.
Quasi tutti, caso vuole, proprio con i francesi. Penso all’alleanza Edf-Enel sul nucleare, che ha consentito alla società italiana di avere Endesa (al posto dei tedeschi) in cambio dello stop su Suez (e con Edf c’è anche aperto il dossier Edison). Penso alla presenza di Bolloré e Groupama in Mediobanca, e di conseguenza in Generali. Qualcuno, che ha posto il tema della sua presenza negli assetti azionari di Trieste allo stesso modo di come il giovane Renzi l’ha posta nel Pd, vorrebbe cambiare equilibri in Generali, con un occhio a Rcs, anche a costo di coprire (di fatto) scelte discutibili del management come quella emersa (proprio grazie alle proteste di Bolloré) intorno alla vicenda del finanziere ceco Keller (che a pensar male si profila come un improprio acquisto di azioni proprie). Ma non c’è niente di “sistemico” i
n tutto questo. La verità è che la somma dei “poteri deboli” (capitalismo e politica) produce vuoti che interessi personali vorrebbero riempire a nome di pronunciati ma non praticati interessi nazionali. E chi, invece, li ha genuinamente a cuore, dovrebbe farci sopra una riflessione.
I danni provocati da questi scimmiottatori di Adam Smith, che per di più sul piano politico hanno in buona misura coinciso con i fans del sistema maggioritario-bipolare, sono immensi. Il risultato è stato: il depauperamento del nostro capitalismo, ridotto ormai all’esercito delle piccole imprese e a un manipolo di medie leader in mercati di nicchia ma totalmente incapaci di fare sistema, con un residuale numero di grandi gruppi, quasi tutti rivenienti dalle vecchie partecipazioni statali; la scomparsa o il depotenziamento degli strumenti di aggregazione e mediazione degli interessi; la conquista, diretta o tramite spoliazione degli asset, delle prede più preziose, da parte di capitali esteri, con relativo trasferimento dei centri decisionali e dei profitti.
Se a questo si aggiunge il parallelo fallimento del sistema politico, certificato sia dall’inazione dei governi sia dalla frantumazione di maggioranze e opposizioni procurata da micidiali guerre per bande stile “tutti contro tutti” – nelle quali compartecipano i residuali interessi economici (salvo qualche meritoria eccezione), che nello stesso tempo risultano essere oggetto e soggetto – ecco spiegate molte vicende che riempiono le cronache dei giornali, ma soprattutto ecco spiegato perché certi ripensamenti, pur catalogabili apprezzabilmente secondo il motto “meglio tardi che mai”, rischiano di lasciare il tempo che trovano o addirittura di recare involontariamente danno.
Mi riferisco al fatto che, complice la crisi finanziaria mondiale degli ultimi anni, il partito liberista si è sciolto come neve al sole e ha lasciato il passo alla riscoperta del valore dell’italianità e della difesa dei centri nevralgici del Paese. Bene. Peccato, però, che la gran parte dei buoi siano già scappati e che chiudere la stalla sia ormai troppo tardi. Si pensi al caso Parmalat, a misura del quale è stato scritto il decreto “guadagna tempo” di mercoledì: l’intento è lodevole, perché se anche l’alimentare non è un settore strategicamente equiparabile a quelli della difesa, dell’energia o delle telecomunicazioni, rimane il fatto che l’azienda di Collecchio è una delle pochissime realtà di grandi dimensioni in una filiera, l’agroalimentare, fortemente caratterizzante il made in Italy.
Ma il suo commissariamento risale al dicembre 2003 e il risanamento finanziario di qualche tempo dopo: e in tutti questi anni, in cui si è colpevolmente lasciato che i 3/4 del consumo italiano fosse di latte importato, cosa si è fatto? Perché i vari ministri dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico che si sono succeduti non hanno chiamato banche e player nazionali a fare ciò che ora si tenta (leggi Intesa con Ferrero) dovendo però fare i conti con il 29% (ma c’è da scommettere sull’esistenza di altre quote “amiche”) raggiunto dai francesi della Lactalis? Perché si è lasciato che Enrico Bondi si trasformasse da commissario a padrone di fatto di quella che solo gli stolti (o i furbi) possono definire una public company? La verità è che la premessa necessaria per difendere il capitalismo nostrano era quella cosa che tutti i paesi liberal praticano e che noi invece abbiamo demonizzato, la politica industriale, senza la quale ora ci troviamo con ben poco da difendere e con il rischio che difendendo quel poco si facciano saltare equilibri, residuali quanto si vuole ma pur sempre esistenti, che nel frattempo si sono trovati.
Quasi tutti, caso vuole, proprio con i francesi. Penso all’alleanza Edf-Enel sul nucleare, che ha consentito alla società italiana di avere Endesa (al posto dei tedeschi) in cambio dello stop su Suez (e con Edf c’è anche aperto il dossier Edison). Penso alla presenza di Bolloré e Groupama in Mediobanca, e di conseguenza in Generali. Qualcuno, che ha posto il tema della sua presenza negli assetti azionari di Trieste allo stesso modo di come il giovane Renzi l’ha posta nel Pd, vorrebbe cambiare equilibri in Generali, con un occhio a Rcs, anche a costo di coprire (di fatto) scelte discutibili del management come quella emersa (proprio grazie alle proteste di Bolloré) intorno alla vicenda del finanziere ceco Keller (che a pensar male si profila come un improprio acquisto di azioni proprie). Ma non c’è niente di “sistemico” i
n tutto questo. La verità è che la somma dei “poteri deboli” (capitalismo e politica) produce vuoti che interessi personali vorrebbero riempire a nome di pronunciati ma non praticati interessi nazionali. E chi, invece, li ha genuinamente a cuore, dovrebbe farci sopra una riflessione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.