Accordo sulla produttività
Non solo due miliardi
Serve un nuovo patto sociale, sul modello di quello del 1993, per fermare il declino del Paesedi Enrico Cisnetto - 23 novembre 2012
Il Pd che si candida a guidare il Paese dopo le elezioni approva o critica la scelta della Cgil di non firmare il patto sulla produttività? Politicamente, non è l’auto-isolamento della Camusso – che non è una novità, concordo con quel “eterno vorrei ma non posso” con cui Di Vico sul Corriere ha descritto il comportamento standard della Cgil, anche al netto delle pressioni della Fiom – la conseguenza più significativa dell’accordo firmato dai datori di lavoro (tutti, non solo la Confindustria, si badi bene) e da Cisl e Uil, bensì la contraddizione che si apre dentro lo schieramento che, stando alle aspettative, dovrebbe presto ereditare il timone di una nave ancora nel pieno di una tragica tempesta. Ed è una contraddizione solo politica, non di merito. Perché sono sicuro che a nessun dirigente del Pd, non solo a Renzi o a Ichino, verrebbe in mente di pensare, in cuor suo, che è sbagliato firmare un accordo che consente – in tempi come questi, poi – di portare a casa 2,1 miliardi che potranno essere dati ai lavoratori sotto forma di detassazione dei salari di produttività. Chi sarebbe così sciocco da rinunciare a quelle risorse, anche non piacendogli il titolo per cui sono distribuite?
Ma il no della Cgil ha messo tutti in mutande. Bersani, che se fosse stato alla testa del sindacato avrebbe firmato a occhi chiusi perché sa benissimo che negli ultimi 20 anni la produttività del nostro sistema industriale e terziario è salita solo del 10%, mezzo punto all’anno, ha dovuto assumere una posizione in perfetto stile cerchiobottista: da un lato giustificazionista (“quello della Cgil non è un passo indietro”) e dall’altro aperturista (“mi auguro che possa essere ripreso un ragionamento fra tutti per arrivare l’anno prossimo ad una comune intenzione attorno a questo problema perché ieri si è fatto un passo, ma ci sono ancora un po" di cose da definire”). Lasciando a Vendola il compito di sposare appieno la scelta della Camusso: “quando non firma la Cgil non si tratta di uno in meno, ma del soggetto più rappresentativo del mondo del lavoro”, e poi si tratta di “un provvedimento preso più negli interessi del sistema bancario, che ha un problema di esuberi, che del lavoro”. Ma potrà una sinistra così andare al governo – ammesso e non concesso che i numeri glielo consentano – ed evitare di fare la fine di Prodi del 2006?
Semmai l’accordo poteva (potrebbe) essere criticato non per la strada che batte, ma per averlo fatto per difetto. La riduzione del cuneo fiscale, e quindi l’aumento dei salari reali, è straordinariamente necessario, ed è evidente che l’unico mezzo è usare la leva della contrattazione aziendale in un panorama imprenditoriale che conta centinaia di migliaia di aziende chiuse, con il 25% della capacità produttiva andato perso. Ma mettere sul tavolo due miliardi, seppure in tempi in cui si dovrebbe toglierli, non è sufficiente. Allora, se si vuole premere sul governo, perché non chiedere che dalla spending review non saltino fuori soldi rivenienti dal taglio di spese correnti improduttive (attenzione: non solo sprechi, ma soldi spesi meno utilmente) da girare ai lavoratori e alle imprese che dimostrano di saper stare sul mercato?
Si dice (per esempio Boeri, che peraltro non sposa la linea della Camusso) che questo accordo non assomiglia neppure lontanamente al grande patto sociale del 1993 e che invece, di fronte alla crisi strutturale in cui siamo piombati, ce ne vorrebbe uno della stessa portata. Vero. Quello firmato l’altro giorno non ne ha né il respiro né l’articolazione di merito. Anche se quello di 19 anni fa è poi durato poco, e ha prodotto frutti limitati e, degenerando, troppi diritti di veto. Tuttavia, un nuovo grande patto sociale sarebbe utile, oggi, per fissare tra le parti e la politica una modalità condivisa che consenta di bloccare il declino e iniziare la ricostruzione del Paese. Ma non è buttando via due miliardi offerti da un governo al capolinea della legislatura che si pongono le basi per questo passaggio. Non c’è la normativa sulla rappresentanza che la Cgil reclama? Giusto, è necessaria. Ma la sua mancanza non è pregiudizievole al patto sulla produttività.
Ma, torno a ripetere, non è la scelta della Cgil che mi stupisce e preoccupa, sono le conseguenze che essa produce sul Pd e sul futuro governo – Monti o non Monti – che mi fanno pensare che neppure nella prossima legislatura avremo le condizioni per un patto che disegni un nuovo modello di sviluppo. Senza il quale la Terza Repubblica non nasce.
Ma il no della Cgil ha messo tutti in mutande. Bersani, che se fosse stato alla testa del sindacato avrebbe firmato a occhi chiusi perché sa benissimo che negli ultimi 20 anni la produttività del nostro sistema industriale e terziario è salita solo del 10%, mezzo punto all’anno, ha dovuto assumere una posizione in perfetto stile cerchiobottista: da un lato giustificazionista (“quello della Cgil non è un passo indietro”) e dall’altro aperturista (“mi auguro che possa essere ripreso un ragionamento fra tutti per arrivare l’anno prossimo ad una comune intenzione attorno a questo problema perché ieri si è fatto un passo, ma ci sono ancora un po" di cose da definire”). Lasciando a Vendola il compito di sposare appieno la scelta della Camusso: “quando non firma la Cgil non si tratta di uno in meno, ma del soggetto più rappresentativo del mondo del lavoro”, e poi si tratta di “un provvedimento preso più negli interessi del sistema bancario, che ha un problema di esuberi, che del lavoro”. Ma potrà una sinistra così andare al governo – ammesso e non concesso che i numeri glielo consentano – ed evitare di fare la fine di Prodi del 2006?
Semmai l’accordo poteva (potrebbe) essere criticato non per la strada che batte, ma per averlo fatto per difetto. La riduzione del cuneo fiscale, e quindi l’aumento dei salari reali, è straordinariamente necessario, ed è evidente che l’unico mezzo è usare la leva della contrattazione aziendale in un panorama imprenditoriale che conta centinaia di migliaia di aziende chiuse, con il 25% della capacità produttiva andato perso. Ma mettere sul tavolo due miliardi, seppure in tempi in cui si dovrebbe toglierli, non è sufficiente. Allora, se si vuole premere sul governo, perché non chiedere che dalla spending review non saltino fuori soldi rivenienti dal taglio di spese correnti improduttive (attenzione: non solo sprechi, ma soldi spesi meno utilmente) da girare ai lavoratori e alle imprese che dimostrano di saper stare sul mercato?
Si dice (per esempio Boeri, che peraltro non sposa la linea della Camusso) che questo accordo non assomiglia neppure lontanamente al grande patto sociale del 1993 e che invece, di fronte alla crisi strutturale in cui siamo piombati, ce ne vorrebbe uno della stessa portata. Vero. Quello firmato l’altro giorno non ne ha né il respiro né l’articolazione di merito. Anche se quello di 19 anni fa è poi durato poco, e ha prodotto frutti limitati e, degenerando, troppi diritti di veto. Tuttavia, un nuovo grande patto sociale sarebbe utile, oggi, per fissare tra le parti e la politica una modalità condivisa che consenta di bloccare il declino e iniziare la ricostruzione del Paese. Ma non è buttando via due miliardi offerti da un governo al capolinea della legislatura che si pongono le basi per questo passaggio. Non c’è la normativa sulla rappresentanza che la Cgil reclama? Giusto, è necessaria. Ma la sua mancanza non è pregiudizievole al patto sulla produttività.
Ma, torno a ripetere, non è la scelta della Cgil che mi stupisce e preoccupa, sono le conseguenze che essa produce sul Pd e sul futuro governo – Monti o non Monti – che mi fanno pensare che neppure nella prossima legislatura avremo le condizioni per un patto che disegni un nuovo modello di sviluppo. Senza il quale la Terza Repubblica non nasce.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.