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Un libro di Benedetta Tobagi su suo padre fa discutere

Nel nome del padre

Covatta a Terza Repubblica: “la sua morte pagina oscura”

di Marco Scotti - 16 novembre 2009

Il 28 maggio 1980 cadeva sotto il fuoco terrorista Walter Tobagi. Tanto, troppo è stato scritto sulla sua morte, troppe volte la sua figura schiva e, per quanto possibile, sopra le parti, è stata strumentalizzata ora dall’uno ora dall’altro schieramento politico.

Ma in questi giorni, a quasi 30 anni dall’omicidio, un libro potrebbe ridare a Tobagi la sua immagine di uomo prima ancora che di intellettuale, facendogli svestire quei panni da eroe che, inevitabilmente, vengono cuciti addosso a chi muore senza avere colpe. Il peso dell’elmo e dell’agiografia, però, non ricade tanto sulla memoria di chi è caduto, ché, anzi, essa rimane per sempre nell’empireo, quanto piuttosto sulle spalle dei figli e dei familiari, costretti loro malgrado a dover condividere con la collettività il ricordo di un uomo pubblico, a discapito dell’immagine più intima che, inevitabilmente, viene cannibalizzata.

Il libro in questione è quello di Benedetta Tobagi pubblicato da Einaudi, dal titolo “Come mi batte forte il tuo cuore”, anacoluto tanto bello quanto efficace. Diciamo subito che lo scritto della figlia di Tobagi ha un grande merito, come ha sostenuto Roberto Saviano dalle pagine di Repubblica: averci fatto capire “cosa hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l’hanno peggiorato, distratto l’attenzione da quello che combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del paese. Non è dunque un caso che i giudici uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti, ma quelli riformisti, democratici, capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale e di vedere la legge come difesa". Giudizio, peraltro, che possiamo ritrovare proprio nelle pagine della Tobagi, quando descrive le parole “di un ex terrorista tedesco della RAF, che, guardando all’esperienza dei ‘compagni’ italiani, si chiede perché mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedicenti rivoluzionari caddero più spesso i riformisti”.

Un libro in memoria di un padre mai conosciuto – Benedetta aveva solo tre anni quando Tobagi fu ucciso – che ha scatenato però una polemica dai toni estremamente accesi. La controparte? Stefania Craxi, figlia famosa di quel Bettino che nel libro viene chiamato in causa a più riprese, e non sempre in modo benevolo. E il “ring” di questo scontro, giovedì 5 novembre, è stato il Corriere della Sera, che ampio spazio aveva dedicato alla pubblicazione del volume della Tobagi. In una lettera indirizzata al direttore De Bortoli, la Craxi ha dichiarato, senza mezzi termini, che il libro l’ha profondamente offesa: “il Craxi cinico e codardo, speculatore dei sentimenti di amicizia e di fraternità che lei dipinge non esiste, è un’immagine falsa e diffamatoria. La Tobagi trae le sue convinzioni da fallaci sensazioni giovanili. Rispetto la sua sofferenza, ma questo non le dà il diritto di spacciare per verità le sue allucinazioni”. Autentiche bordate che costringono il giorno dopo Benedetta Tobagi a rispondere, sempre dalle pagine del Corriere: “nel libro formulo alcune ipotesi e riflessioni, con la massima cautela, ed esplicitando premesse e conseguenze: sono queste, le ‘allucinazioni’ cui fa riferimento l’onorevole Stefania Craxi?”.

Abbiamo voluto chiedere a Luigi Covatta, storico membro del Partito Socialista e componente della commissione di inchiesta Moro sul terrorismo, un commento sulla disputa tra le due figlie illustri e un ricordo di Walter Tobagi. Covatta non è voluto entrare nella diatriba tra le due, ma ci ha offerto un dipinto molto toccante del giornalista. “Posso dire di essere stato molto amico di Walter, che aveva cominciato a scrivere su la Zanzara (il giornale studentesco del liceo classico Parini di Milano) un paio d’anni dopo di me; era anche lui un cattolico socialista, che aveva sempre scritto sui giornaletti e giornali che pubblicavo allora. Lo vidi qualche settimana prima che lo ammazzassero e mi sembrò molto spaventato, perché si sentiva accusato di essere l’uomo di Craxi. Cosa che, per lui che aveva sempre mantenuto una forte identità autonoma, era un peso non tanto perché respingesse la definizione, quanto piuttosto perché non capiva come gli potesse essere addossata un’accusa di questo tipo, dopo 10 anni passati a seguire un determinato percorso libero da certe logiche di etichetta. Era la prima volta che lo vedevo angosciato, e ciò era avvenuto perché era stato ridotto a simbolo”.

E aggiunge Covatta: “anche la sua morte ha sempre avuto qualcosa di poco chiaro, per quanto mi riguarda: quando interrogai Barbone (uno dei killer di Tobagi) durante una seduta della commissione parlamentare Moro, non mi convinse per niente, poiché mi sembrava che ripetesse pappagallescamente una versione ufficiale artificiale e concordata”.

Insomma, se il libro di Benedetta Tobagi fa discutere – e non fosse altro che per questo merita di essere letto – la morte di suo padre rimane una pagina oscura degli “anni di piombo”.

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