Emergenza emigrazione
Nel mare di Lampedusa rischia di naufragare l'Europa
Dopo il dramma dei migranti si ragioni sull'identità europea. Serve una politica di difesa comunedi Davide Giacalone - 15 ottobre 2013
Il problema non è (solo) il costo, ma lo scopo. Se dispieghiamo maggiori forze navali militari nel Canale di Sicilia, in quel mare che divide le coste africane dall’Italia e la massa dei migranti dall’approdo, quale missione affidiamo loro? Naturalmente: evitare che altre vite finiscano affogate. Giusto. Ma posto che il soccorso a chi è in difficoltà è un obbligo sia in acque internazionali (Convenzione di Montego Bay), che territoriali (Codice della navigazione), e posto che il mero respingimento, ovvero il divieto di passaggio, può essere opposto solo a chi naviga in sicurezza, portando colà più navi italiane si rischia che: a. le partenze s’intensifichino, utilizzando imbarcazioni sempre più fatiscenti e affollate, tanto c’è chi provvederà a salvare gli imbarcati; b. il numero di migranti portati sul nostro territorio nazionale aumenti considerevolmente, e con quello i problemi connessi. Se è così che deve finire, allora tanto vale organizzare un ponte aereo e andarseli a prendere a casa: costa meno. Peccato che queste sono solo sparate demagogiche, dato che accoglierli tutti è fuor di questione. Impossibile.
Con questo non intendo dire che le navi non vanno inviate, ma che deve esserci una più solida copertura. Il dramma dei migranti è anche un’occasione per ragionare d’identità e politica europea. Prima ancora che nascesse la Ceca (1951, Comunità europea del carbone e dell’acciaio) si erano avviati i colloqui per la Comunità europea della difesa (Ced). I primi passi europei s’indirizzarono in senso istituzionale e politico, ovviamente non trascurando l’economia. Subito incespicarono (allora furono i francesi a opporsi e la difesa comune prese forma nella Nato, da cui loro poi uscirono), spingendo a interpretare in chiave prevalentemente economica la via dell’integrazione. Mentre allora i confini erano nazionali, e su alcuni pendeva la minaccia del nemico armato (mai dimenticare che l’Urss invase due volte l’Europa, sebbene colpendo paesi dell’est), oggi i confini sono comuni e non militarmente assediati. Comuni perché l’intera area Shengen è racchiusa in un confine condiviso, all’interno del quale ci si muove liberamente, mentre il pericolo militare non è dato da sconfinamenti. I pericoli esistono, ma derivano (anche) da possibili invasioni non militari. Quella che travaglia il sud del Mediterraneo è una di queste, con una grande differenza, rispetto ai confini terrestri a est: in mare si muore.
Ne deriva che è giunto il momento di riprendere il tema della difesa comune, proprio perché viviamo in un territorio comune. Questo è il compito del prossimo vertice dei capi di Stato e di governo. Oggi significa avere una comune politica dell’immigrazione. Il che comporta non solo che è assurdo noi si debba far rientrare le spese della difesa comune nel tetto al deficit nazionale, non solo che è necessario sia una spesa condivisa, ma che si deve giungere anche a legislazione e competenza condivise. Creare zone di extraterritorialità, come qui proposto, serve proprio ad affermare una sovranità non nazionale, ma dell’Unione. Ciò risolverebbe molti problemi e farebbe crescere l’Ue, non condannandola a essere solo associazione di contabili. Eviterebbe che il quel mare naufraghi anche l’Ue.
Lo stesso dibattersi fra il considerare la clandestinità un reato o un’infrazione, entrambe finalizzate all’espulsine, diventa del tutto irrilevante, visto che le leggi nazionali prevedono sia l’una che l’altra cosa, ma il problema è quello di controllare le frontiere comuni. Se la sovranità fosse Ue non ci sarebbero reati, ma soccorso, identificazione, destinazione e respingimento (tanto fermo quanto umano). Avremmo reso più unita e sensata l’Europa e avremmo tolto spazio ai criminali. Il soccorso in mare è un obbligo giuridico e un imperativo morale, ma non c’è nulla d’umanitario nel continuare a illudere masse di migranti che ritengono il problema più grosso sia superare le onde, dato che a terra potranno scappare o essere accolti, con questo inducendoli a pagare il loro viaggio mortale più di quel che costa un volo di linea.
I militari non sono la Croce Rossa. I militari servono per colpire la filiera dei criminali che commercia carne umana. Vederli all’opera, da militari, sarà un piacere.
Con questo non intendo dire che le navi non vanno inviate, ma che deve esserci una più solida copertura. Il dramma dei migranti è anche un’occasione per ragionare d’identità e politica europea. Prima ancora che nascesse la Ceca (1951, Comunità europea del carbone e dell’acciaio) si erano avviati i colloqui per la Comunità europea della difesa (Ced). I primi passi europei s’indirizzarono in senso istituzionale e politico, ovviamente non trascurando l’economia. Subito incespicarono (allora furono i francesi a opporsi e la difesa comune prese forma nella Nato, da cui loro poi uscirono), spingendo a interpretare in chiave prevalentemente economica la via dell’integrazione. Mentre allora i confini erano nazionali, e su alcuni pendeva la minaccia del nemico armato (mai dimenticare che l’Urss invase due volte l’Europa, sebbene colpendo paesi dell’est), oggi i confini sono comuni e non militarmente assediati. Comuni perché l’intera area Shengen è racchiusa in un confine condiviso, all’interno del quale ci si muove liberamente, mentre il pericolo militare non è dato da sconfinamenti. I pericoli esistono, ma derivano (anche) da possibili invasioni non militari. Quella che travaglia il sud del Mediterraneo è una di queste, con una grande differenza, rispetto ai confini terrestri a est: in mare si muore.
Ne deriva che è giunto il momento di riprendere il tema della difesa comune, proprio perché viviamo in un territorio comune. Questo è il compito del prossimo vertice dei capi di Stato e di governo. Oggi significa avere una comune politica dell’immigrazione. Il che comporta non solo che è assurdo noi si debba far rientrare le spese della difesa comune nel tetto al deficit nazionale, non solo che è necessario sia una spesa condivisa, ma che si deve giungere anche a legislazione e competenza condivise. Creare zone di extraterritorialità, come qui proposto, serve proprio ad affermare una sovranità non nazionale, ma dell’Unione. Ciò risolverebbe molti problemi e farebbe crescere l’Ue, non condannandola a essere solo associazione di contabili. Eviterebbe che il quel mare naufraghi anche l’Ue.
Lo stesso dibattersi fra il considerare la clandestinità un reato o un’infrazione, entrambe finalizzate all’espulsine, diventa del tutto irrilevante, visto che le leggi nazionali prevedono sia l’una che l’altra cosa, ma il problema è quello di controllare le frontiere comuni. Se la sovranità fosse Ue non ci sarebbero reati, ma soccorso, identificazione, destinazione e respingimento (tanto fermo quanto umano). Avremmo reso più unita e sensata l’Europa e avremmo tolto spazio ai criminali. Il soccorso in mare è un obbligo giuridico e un imperativo morale, ma non c’è nulla d’umanitario nel continuare a illudere masse di migranti che ritengono il problema più grosso sia superare le onde, dato che a terra potranno scappare o essere accolti, con questo inducendoli a pagare il loro viaggio mortale più di quel che costa un volo di linea.
I militari non sono la Croce Rossa. I militari servono per colpire la filiera dei criminali che commercia carne umana. Vederli all’opera, da militari, sarà un piacere.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.