Senza interessi strategici, regione dimenticata
Morire per il Darfur?
L’<i>Herald Tribune</i> invoca un intervento internazionale. Ma nonostante Bush e Blair…di Antonio Picasso - 01 dicembre 2005
Il problema è che laggiù non c’è nulla di interessante. Ecco perché la regione del Darfur, nel Sudan occidentale, rischia di passare per il primo genocidio silenzioso del Terzo millennio. Non c’è acqua come in Iraq, o petrolio come nel resto del Medio oriente. Non riveste una posizione strategica come i Balcani. Infine, non è territorio industrializzabile. Come buona parte dell’Africa, del resto. Un territorio occupato totalmente dal deserto del Sahara non è che una zona da abbandonare a se stessa. Ed è appunto quello che sta succedendo.
La veridicità dei luoghi comuni consiste proprio nell’essere tali. E, nel loro credo diffuso e collettivo, si racchiude la stessa inconfutabilità. È un luogo comune, un’ovvietà, il fatto che il mondo intervenga non per riportare la pace in una zona del pianeta, bensì perché ha a cuore la gestione e lo sfruttamento delle risorse di quella particolare regione.
Nell’Ottocento e all’inizio del 20° secolo, erano le Grandi potenze, oggi è la comunità internazionale, rappresentata dalla Nazioni Unite e da altri consessi, comunque manovrati dai Paesi più progrediti del mondo, a stabilire dove inviare contingenti di soldati, oppure se sedersi intorno a un tavolo per imporre la pace e la stabilità di un paese.
Sempre il Novecento offre svariati esempi di assenza dell’intervento della comunità internazionale. Nel 1915, il popolo armeno fu abbandonato a se stesso. Anzi, all’Impero ottomano, il quale, nel pieno della Grande guerra, mise in atto il primo genocidio del Secolo breve. Durante il secondo conflitto mondiale, poi, gli Alleati evitarono di bombardare le linee ferroviarie che portavano ai lager nazisti, non interrompendo così l’Olocausto. In anni più vicini a noi, infine, l’Onu nella sua complessità non fece nulla per fermare il massacro degli tutsi da parte dei hutu in Ruanda.
Indifferenza e passività. Di fronte ad alcuni crimini, il mondo resta impassibile. In parte perché sconvolto dalla violenza a cui assiste, al punto che si bloccano anche le minime capacità di azione. Ma in parte anche perché vincolato dal proprio cinismo. Intervenire militarmente? Aprire un dialogo diplomatico? Per quale scopo mettere a rischio la vita di tanti soldati per portare l’ordine in una zona che, si prevede, tornerà prima o poi in subbuglio? Per quale motivo, soprattutto economico, investire risorse ed energie intellettuali per la stabilità di un paese che, in linea di principio, non saprà mai vivere un’esperienza di pace?
Quello del Darfur è l’ultimo esempio di questo genere. Gli occhi della comunità internazionale sono orientati verso altre regioni della terra. Non c’è tempo, voglia e tanto meno denaro da sprecare per un misero pezzo di deserto. Tutto il Medio oriente – con l’Iraq in particolare – l’Iran, ma anche la Cina e buona parte del sud-est asiatico sono situazioni sulle quali non si può abbassare la guardia. Anzi. Magari non le modalità di intervento, ma resta giusta e doverosa l’attenzione che l’Occidente ha rivolto nei confronti di questi altri casi. Tuttavia, il Darfur resta lì. Solo nella propria tragedia.
E dovrebbe essere, come sempre, la prima superpotenza del mondo ad assumersi l’incarico di un intervento. La diffusione della democrazia, della pace e del progresso è l’impegno che i teo-con dichiarano di perseguire dal momento in cui George Bush è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Tony Blair, a sua volta, sta facendo dell’Africa tutta il primo punto dell’agenda di politica estera del suo terzo governo. Ma tutto questo, evidentemente, non basta perché il mondo si muova per il Darfur. Sull’Herald Tribune di ieri, 30 novembre, Nicholas Kristof si rivolgeva direttamente a Bush, suggerendogli l’invio di truppe Usa nella zona. Un gesto che dimostrerebbe la coerenza della strategia internazionale teo-con. Oltre che costituirebbe un elemento positivo nel momento di minore popolarità della sua presidenza dal 2001 a oggi. In realtà, sarebbe più indicato un risveglio, o una scossa, da parte di tutto il Palazzo di vetro. Affinché, a sessanta anni dalla nascita, si affermino davvero le finalità della sua fondazione.
La veridicità dei luoghi comuni consiste proprio nell’essere tali. E, nel loro credo diffuso e collettivo, si racchiude la stessa inconfutabilità. È un luogo comune, un’ovvietà, il fatto che il mondo intervenga non per riportare la pace in una zona del pianeta, bensì perché ha a cuore la gestione e lo sfruttamento delle risorse di quella particolare regione.
Nell’Ottocento e all’inizio del 20° secolo, erano le Grandi potenze, oggi è la comunità internazionale, rappresentata dalla Nazioni Unite e da altri consessi, comunque manovrati dai Paesi più progrediti del mondo, a stabilire dove inviare contingenti di soldati, oppure se sedersi intorno a un tavolo per imporre la pace e la stabilità di un paese.
Sempre il Novecento offre svariati esempi di assenza dell’intervento della comunità internazionale. Nel 1915, il popolo armeno fu abbandonato a se stesso. Anzi, all’Impero ottomano, il quale, nel pieno della Grande guerra, mise in atto il primo genocidio del Secolo breve. Durante il secondo conflitto mondiale, poi, gli Alleati evitarono di bombardare le linee ferroviarie che portavano ai lager nazisti, non interrompendo così l’Olocausto. In anni più vicini a noi, infine, l’Onu nella sua complessità non fece nulla per fermare il massacro degli tutsi da parte dei hutu in Ruanda.
Indifferenza e passività. Di fronte ad alcuni crimini, il mondo resta impassibile. In parte perché sconvolto dalla violenza a cui assiste, al punto che si bloccano anche le minime capacità di azione. Ma in parte anche perché vincolato dal proprio cinismo. Intervenire militarmente? Aprire un dialogo diplomatico? Per quale scopo mettere a rischio la vita di tanti soldati per portare l’ordine in una zona che, si prevede, tornerà prima o poi in subbuglio? Per quale motivo, soprattutto economico, investire risorse ed energie intellettuali per la stabilità di un paese che, in linea di principio, non saprà mai vivere un’esperienza di pace?
Quello del Darfur è l’ultimo esempio di questo genere. Gli occhi della comunità internazionale sono orientati verso altre regioni della terra. Non c’è tempo, voglia e tanto meno denaro da sprecare per un misero pezzo di deserto. Tutto il Medio oriente – con l’Iraq in particolare – l’Iran, ma anche la Cina e buona parte del sud-est asiatico sono situazioni sulle quali non si può abbassare la guardia. Anzi. Magari non le modalità di intervento, ma resta giusta e doverosa l’attenzione che l’Occidente ha rivolto nei confronti di questi altri casi. Tuttavia, il Darfur resta lì. Solo nella propria tragedia.
E dovrebbe essere, come sempre, la prima superpotenza del mondo ad assumersi l’incarico di un intervento. La diffusione della democrazia, della pace e del progresso è l’impegno che i teo-con dichiarano di perseguire dal momento in cui George Bush è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Tony Blair, a sua volta, sta facendo dell’Africa tutta il primo punto dell’agenda di politica estera del suo terzo governo. Ma tutto questo, evidentemente, non basta perché il mondo si muova per il Darfur. Sull’Herald Tribune di ieri, 30 novembre, Nicholas Kristof si rivolgeva direttamente a Bush, suggerendogli l’invio di truppe Usa nella zona. Un gesto che dimostrerebbe la coerenza della strategia internazionale teo-con. Oltre che costituirebbe un elemento positivo nel momento di minore popolarità della sua presidenza dal 2001 a oggi. In realtà, sarebbe più indicato un risveglio, o una scossa, da parte di tutto il Palazzo di vetro. Affinché, a sessanta anni dalla nascita, si affermino davvero le finalità della sua fondazione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.