Perché astenersi più essere intelligente
Meditate italiani, meditate
Non è necessario passare per il referendum per mandare a casa Berlusconidi Enrico Cisnetto - 13 giugno 2011
Ci sono molte ragioni per mandare a casa Berlusconi e il suo governo. Ma volere quell’obiettivo politico non è una buona ragione per rinunciare, attraverso il referendum, all’opzione del nucleare e alla liberalizzazione del servizio idrico. Questioni, cioè, di rilevanza strategica che riguardano il futuro del Paese e la cui abrogazione segnerebbe una spaventosa regressione. Perché prima o poi l’epoca del Cavaliere finirà, ma temiamo che, dopo, la disastrosa eredità del berlusconismo e le tossine dell’antiberlusconismo lascino solo macerie.
D’altra parte, chiudere questa maledetta stagione ha senso ed è legittimo nella misura in cui si vuole tornare a governare un Paese lasciato allo sbando: e allora, se si dovrà governare, perché rinunciare a strumenti che sono fondamentali? Se passa per la seconda volta il rifiuto del nucleare, metteremo una pietra tombale definitiva sulla possibilità di usare l’atomo per produrre energia. Può anche darsi che quando sapremo i reali effetti di Fukushima e avremo il quadro chiaro delle decisioni che si adotteranno in Europa, ci convinceremo dell’opportunità o addirittura della necessità di accantonare il progetto nucleare, ma proprio per questo non dobbiamo privarci della chance opposta. Quanto all’acqua, acclarato che nessuno intende violare il principio che trattasi di bene pubblico, se passa il referendum ci troveremo nella condizione che un sistema distributivo che – è proprio il caso di dirlo – fa acqua da tutte le parti, non potrà essere ammodernato, completato emesso in efficienza perché non ci saranno i denari necessari (100-120 miliardi nei prossimi dieci anni) vista la condizione della nostra finanza pubblica, locale e nazionale.
Infatti, con il sì sarà cancellato il meccanismo previsto dalla legge Ronchi di gare pubbliche con cui affidare a terzi (siano essi pubblici o privati) il servizio idrico sulla base di condizioni concessorie e tariffarie stabilite dai Comuni, e si tornerà a soggetti pubblici locali lottizzati. E questa doppia evirazione per buttar giù un governo che se cadrà – ora, fra qualche mese per votare a primavera 2012 o comunque prima della scadenza naturale – non sarà certo per due leggi che ha già clamorosamente disconosciuto? E sì, perché sul nucleare ha fatto marcia indietro – e pure malamente, perché se voleva evitare il referendum, come era opportuno, avrebbe dovuto intervenire senza lasciare margini alla Cassazione – e sull’acqua ha di fatto dimenticato di avere la paternità della Ronchi con la pilatesca e ridicola indicazione della “libertà di voto”.
Insomma, comunque la si giri, questi referendum non meritano il voto degli italiani. D’altra parte si potrebbe dire “sventurato il referendum che ha bisogno di questi eroi”: Bertolt Brecht probabilmente non sarebbe entusiasta di questa rivisitazione della sua celeberrima affermazione, ma è lampante che, con testimonial come Adriano Celentano e Vasco Rossi e censori come Antonello Venditti che se la prende con gli astensionisti, appare chiaro che la cifra del confronto referendario non è seria e che il dibattito è di grana grossa.
Dunque, per le ragioni politiche che abbiamo visto, ma anche alla luce di questi ultimi estemporanei endorsement, va detto chiaro e forte che domenica e lunedì occorre avvalersi della facoltà di astensione. La quale non è, come si dice a sproposito, un atteggiamento anti-democratico e qualunquista, ma è anzi un’arma legittima per esprimere il proprio dissenso. Anzi, di qualunquismo è permeato il giudizio tranciante dei promotori dei referendum secondo cui astenersi, contribuendo a non determinare il quorum, sarebbe politicamente scorretto.
Il non voto, invece è una legittima espressione politica valida quanto lo è il voto. D’altronde, visto che il tasso di astensionismo medio italiano non arriva al 20% per le grandi consultazioni politiche (19,5% a quelle del 2008, 16,4% del 2006), dobbiamo forse considerare paesi meno saldamente democratici la Germania che ha il 22,3%, la Francia che raggiunge il 37,4% o il Regno Unito che arriva al 38,7%? Con tutta evidenza è proprio il contrario: astensionismo non fa rima con menefreghismo.
Se poi parliamo di referendum, l’astensione riveste un ruolo ancora più significativo. Infatti, chi si reca alle urne per votare in un referendum lo fa perché è favorevole alla motivazione che ha spinto a indire la votazione. Ergo, i “no” sono una esigua minoranza se votano, ma diventano maggioranza se scelgono di non andare a votare, impedendo il raggiungimento del quorum. L’astensione non è quindi l’arma di chi preferisce il mare o la montagna alla canicola del seggio, ma è un modo legittimo per rispondere al quesito referendario: in entrambi i casi, anche se con modalità differenti, si esprime una risposta negativa alla domanda referendaria. E il quorum, che è assolutamente necessario mantenere, non è un capriccio del legislatore, ma uno strumento che permette di tutelare le leggi democraticamente votate dal parlamento, facendo in modo che non vengano abrogate con il voto di una minoranza. D’altronde, se dal 1946 ad oggi, su un totale di 15 referendum che necessitavano del quorum, ben 7 non l’hanno raggiunto e, soprattutto, se è dal 1995 che una consultazione referendaria non supera lo sbarramento, qualcosa vorrà ben dire.
Prendete quello del 1987 sul nucleare. Se andiamo ad analizzare il voto di ventiquattro anni fa scopriamo, numeri alla mano, che se coloro che votarono “no” non si fossero recati al seggio, il referendum che ha di fatto cambiato la storia della politica energetica italiana, impedendo la prosecuzione della produzione di energia nucleare nelle centrali già esistenti non avrebbe raggiunto il quorum. Nel dettaglio: si recò al seggio il 65,1% degli italiani, e i “sì” che furono il 71,9% contro il 28,1% dei “no”, vinsero con una maggioranza schiacciante. Ma se si sommassero i contrari votanti e gli astenuti si otterrebbe il 51%, che diventa 59% aggiungendo le schede bianche e nulle. Dunque, se allora chi era contrario a smantellare il nucleare non avesse votato anziché recarsi alle urne a esprimere quella contrarietà, avrebbe ottenuto il risultato che si prefiggeva.
Non basta questo per decidere di evitare oggi di ripetere quello che allora si rivelò un clamoroso errore? E non sarà forse che è di questo che hanno paura coloro che insorgono al solo sentire la parola astensione? Meditate italiani, meditate.
D’altra parte, chiudere questa maledetta stagione ha senso ed è legittimo nella misura in cui si vuole tornare a governare un Paese lasciato allo sbando: e allora, se si dovrà governare, perché rinunciare a strumenti che sono fondamentali? Se passa per la seconda volta il rifiuto del nucleare, metteremo una pietra tombale definitiva sulla possibilità di usare l’atomo per produrre energia. Può anche darsi che quando sapremo i reali effetti di Fukushima e avremo il quadro chiaro delle decisioni che si adotteranno in Europa, ci convinceremo dell’opportunità o addirittura della necessità di accantonare il progetto nucleare, ma proprio per questo non dobbiamo privarci della chance opposta. Quanto all’acqua, acclarato che nessuno intende violare il principio che trattasi di bene pubblico, se passa il referendum ci troveremo nella condizione che un sistema distributivo che – è proprio il caso di dirlo – fa acqua da tutte le parti, non potrà essere ammodernato, completato emesso in efficienza perché non ci saranno i denari necessari (100-120 miliardi nei prossimi dieci anni) vista la condizione della nostra finanza pubblica, locale e nazionale.
Infatti, con il sì sarà cancellato il meccanismo previsto dalla legge Ronchi di gare pubbliche con cui affidare a terzi (siano essi pubblici o privati) il servizio idrico sulla base di condizioni concessorie e tariffarie stabilite dai Comuni, e si tornerà a soggetti pubblici locali lottizzati. E questa doppia evirazione per buttar giù un governo che se cadrà – ora, fra qualche mese per votare a primavera 2012 o comunque prima della scadenza naturale – non sarà certo per due leggi che ha già clamorosamente disconosciuto? E sì, perché sul nucleare ha fatto marcia indietro – e pure malamente, perché se voleva evitare il referendum, come era opportuno, avrebbe dovuto intervenire senza lasciare margini alla Cassazione – e sull’acqua ha di fatto dimenticato di avere la paternità della Ronchi con la pilatesca e ridicola indicazione della “libertà di voto”.
Insomma, comunque la si giri, questi referendum non meritano il voto degli italiani. D’altra parte si potrebbe dire “sventurato il referendum che ha bisogno di questi eroi”: Bertolt Brecht probabilmente non sarebbe entusiasta di questa rivisitazione della sua celeberrima affermazione, ma è lampante che, con testimonial come Adriano Celentano e Vasco Rossi e censori come Antonello Venditti che se la prende con gli astensionisti, appare chiaro che la cifra del confronto referendario non è seria e che il dibattito è di grana grossa.
Dunque, per le ragioni politiche che abbiamo visto, ma anche alla luce di questi ultimi estemporanei endorsement, va detto chiaro e forte che domenica e lunedì occorre avvalersi della facoltà di astensione. La quale non è, come si dice a sproposito, un atteggiamento anti-democratico e qualunquista, ma è anzi un’arma legittima per esprimere il proprio dissenso. Anzi, di qualunquismo è permeato il giudizio tranciante dei promotori dei referendum secondo cui astenersi, contribuendo a non determinare il quorum, sarebbe politicamente scorretto.
Il non voto, invece è una legittima espressione politica valida quanto lo è il voto. D’altronde, visto che il tasso di astensionismo medio italiano non arriva al 20% per le grandi consultazioni politiche (19,5% a quelle del 2008, 16,4% del 2006), dobbiamo forse considerare paesi meno saldamente democratici la Germania che ha il 22,3%, la Francia che raggiunge il 37,4% o il Regno Unito che arriva al 38,7%? Con tutta evidenza è proprio il contrario: astensionismo non fa rima con menefreghismo.
Se poi parliamo di referendum, l’astensione riveste un ruolo ancora più significativo. Infatti, chi si reca alle urne per votare in un referendum lo fa perché è favorevole alla motivazione che ha spinto a indire la votazione. Ergo, i “no” sono una esigua minoranza se votano, ma diventano maggioranza se scelgono di non andare a votare, impedendo il raggiungimento del quorum. L’astensione non è quindi l’arma di chi preferisce il mare o la montagna alla canicola del seggio, ma è un modo legittimo per rispondere al quesito referendario: in entrambi i casi, anche se con modalità differenti, si esprime una risposta negativa alla domanda referendaria. E il quorum, che è assolutamente necessario mantenere, non è un capriccio del legislatore, ma uno strumento che permette di tutelare le leggi democraticamente votate dal parlamento, facendo in modo che non vengano abrogate con il voto di una minoranza. D’altronde, se dal 1946 ad oggi, su un totale di 15 referendum che necessitavano del quorum, ben 7 non l’hanno raggiunto e, soprattutto, se è dal 1995 che una consultazione referendaria non supera lo sbarramento, qualcosa vorrà ben dire.
Prendete quello del 1987 sul nucleare. Se andiamo ad analizzare il voto di ventiquattro anni fa scopriamo, numeri alla mano, che se coloro che votarono “no” non si fossero recati al seggio, il referendum che ha di fatto cambiato la storia della politica energetica italiana, impedendo la prosecuzione della produzione di energia nucleare nelle centrali già esistenti non avrebbe raggiunto il quorum. Nel dettaglio: si recò al seggio il 65,1% degli italiani, e i “sì” che furono il 71,9% contro il 28,1% dei “no”, vinsero con una maggioranza schiacciante. Ma se si sommassero i contrari votanti e gli astenuti si otterrebbe il 51%, che diventa 59% aggiungendo le schede bianche e nulle. Dunque, se allora chi era contrario a smantellare il nucleare non avesse votato anziché recarsi alle urne a esprimere quella contrarietà, avrebbe ottenuto il risultato che si prefiggeva.
Non basta questo per decidere di evitare oggi di ripetere quello che allora si rivelò un clamoroso errore? E non sarà forse che è di questo che hanno paura coloro che insorgono al solo sentire la parola astensione? Meditate italiani, meditate.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.