Telecomunicazioni di bandiera
Mani italiane
L'italianità di Telecom è inutile, basta la golden share sulla rete.di Davide Giacalone - 04 settembre 2013
Tenere Telecom Italia in mani italiane è l’ultimo dei problemi. Non è un obiettivo credibile e non è il presupposto di alcun rilancio. Il tema, a questo punto, è come gestire la fine di quello che fu il monopolista e divenne una ricca e competitiva multinazionale italiana. Ricordando tre cose: a. sono le mani dei cittadini italiani, sono quelle aduse al lavoro dei nostri emigranti, che la resero ricca e grande; b. sono le mani delle due proprietà italiane, quella facente capo alla scalata di Roberto Colaninno e quella con a capo Marco Tronchetti Provera, ad averla impoverita e ridotta a un secchio di debiti, mentre la gestione successiva non è riuscita a porre rimedio; c. nelle mani di due italiani si trova la gestione di due multinazionali inglesi: Vodafone, con Vittorio Colao, e British Telecom, con Corrado Sciolla a capo di Bt Global Service, con mandato sull’Europa e l’America latina. Forse, a guardar bene, il mercato aperto ci ha portato più vantaggi (fra i quali rientrano anche quantità, qualità e prezzi dei servizi di cui disponiamo) di quanti ce ne abbia restituiti la difesa di una proprietà che, del resto, non è neanche veramente tricolore. La cosa non sorprende noi, ma dovrebbe porre fine all’alibi meschino dell’italianità.
Pratichiamo spesso una perversione antiquaria: svolgiamo al presente i dibattiti di venti, trenta o cinquanta anni addietro. Ancora oggi si trova chi, in queste contrade, è disposto a sostenere che la proprietà della rete in mani autoctone sia condizione di sicurezza nazionale. Basta sfogliare i giornali, in tutte le lingue di cui si possiede l’uso, per scoprire che trattasi di pia illusione. L’unica forma di sicurezza praticabile consiste nell’avere regole certe e chiare, comprendenti anche l’ipotesi (il cielo non voglia) di chiusura o esclusività della rete per ragioni d’interesse e sicurezza nazionali, nonché di autorità realmente autorevoli, la cui parola sia la prima, ma anche l’ultima. Non oso immaginare cosa succederebbe, nelle condizioni attuali, se un provvedimento di tale drammatica emergenza dovesse fare i conti con un ricorso al Tar. Dovremmo dire al nemico quel che dicevamo da bambini: “fermo il gioco”, che mi si è slacciata la scarpa.
Certo, non si devono svendere i gioielli. Purtroppo già lo fece il governo Ciampi, mentre il governo successivo, D’Alema, consentì di violare le poche regole messe a presidio del regalo. Oggi quale sarebbe il gioiello, Tim Brasil? L’ingresso nel mercato brasiliano, a cura di gestioni che furono poi vilipese, ma che dimostrarono una visione strategica poi sconosciuta, s’è dimostrato un ottimo affare. Nulla a che vedere con altri acquisti successivi, modello Cuba, per tacere della Serbia. Ma quelle presenze hanno un senso non se i profitti servono a coprire le perdite in casa, ma se assecondano un disegno industriale ed espansivo. Voi li vedete? A me sfuggono. Quella roba, oggi, torna utile per provare a sostenere che il valore di Telecom non è inferiore ai debiti. E fine.
L’italianità che preme sul serio non è quella di Telecom, controllata da una società, la Telco, il cui primo socio è la spagnola Telefonica, ma quella delle banche che hanno finanziato non solo Telecom, ma gli stessi spagnoli che ne acquistarono il controllo sindacato. A garanzia di quei quattrini ci sono pacchetti azionari che valgono una frazione minima del debito. E siccome sono le banche e le compagnie finanziarie (Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca) a controllare i giornali, ecco che si spiega il protrarsi del dibattito sul nulla. Quello vero, non discusso pubblicamente, consiste in: chi restituisce soldi senza i quali quegli istituti vacillano? Il che ha certamente un riflesso generale e collettivo, ma da mettere in secondo piano rispetto alla necessità del sistema produttivo, delle famiglie e dei giovani di potere disporre di reti e servizi che non li svantaggino. Questa è la bussola, il resto è solo melina per posporre l’ora dei conti.
Microsoft ha comprato Nokia per far concorrenza ad Apple, Samsung e Google (che ha comprato Motorola). Quelli non sono telefoni, ma strumenti di controllo del cliente e chioschi per la vendita di servizi. La sfida, nel mondo, è fra chi ha le reti (e non vuol ridursi a fare il facchino) e chi ha i telefoni (e non vuole che si metta becco nella valigia). Pensare di partecipare con una Telecom Italia ridotta a sforacchiato operatore regionale è patetico. Supporre che siano geniali amministratori o furbissimi finanzieri quelli che l’hanno costì condotta non è generoso, ma fantasioso. Piangono sia il cuore che il portafoglio, ma per avere telecomunicazioni in mani italiane, come ricordavo all’inizio, meglio scegliere gli italiani capaci che la difesa dell’indifendibile.
Pratichiamo spesso una perversione antiquaria: svolgiamo al presente i dibattiti di venti, trenta o cinquanta anni addietro. Ancora oggi si trova chi, in queste contrade, è disposto a sostenere che la proprietà della rete in mani autoctone sia condizione di sicurezza nazionale. Basta sfogliare i giornali, in tutte le lingue di cui si possiede l’uso, per scoprire che trattasi di pia illusione. L’unica forma di sicurezza praticabile consiste nell’avere regole certe e chiare, comprendenti anche l’ipotesi (il cielo non voglia) di chiusura o esclusività della rete per ragioni d’interesse e sicurezza nazionali, nonché di autorità realmente autorevoli, la cui parola sia la prima, ma anche l’ultima. Non oso immaginare cosa succederebbe, nelle condizioni attuali, se un provvedimento di tale drammatica emergenza dovesse fare i conti con un ricorso al Tar. Dovremmo dire al nemico quel che dicevamo da bambini: “fermo il gioco”, che mi si è slacciata la scarpa.
Certo, non si devono svendere i gioielli. Purtroppo già lo fece il governo Ciampi, mentre il governo successivo, D’Alema, consentì di violare le poche regole messe a presidio del regalo. Oggi quale sarebbe il gioiello, Tim Brasil? L’ingresso nel mercato brasiliano, a cura di gestioni che furono poi vilipese, ma che dimostrarono una visione strategica poi sconosciuta, s’è dimostrato un ottimo affare. Nulla a che vedere con altri acquisti successivi, modello Cuba, per tacere della Serbia. Ma quelle presenze hanno un senso non se i profitti servono a coprire le perdite in casa, ma se assecondano un disegno industriale ed espansivo. Voi li vedete? A me sfuggono. Quella roba, oggi, torna utile per provare a sostenere che il valore di Telecom non è inferiore ai debiti. E fine.
L’italianità che preme sul serio non è quella di Telecom, controllata da una società, la Telco, il cui primo socio è la spagnola Telefonica, ma quella delle banche che hanno finanziato non solo Telecom, ma gli stessi spagnoli che ne acquistarono il controllo sindacato. A garanzia di quei quattrini ci sono pacchetti azionari che valgono una frazione minima del debito. E siccome sono le banche e le compagnie finanziarie (Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca) a controllare i giornali, ecco che si spiega il protrarsi del dibattito sul nulla. Quello vero, non discusso pubblicamente, consiste in: chi restituisce soldi senza i quali quegli istituti vacillano? Il che ha certamente un riflesso generale e collettivo, ma da mettere in secondo piano rispetto alla necessità del sistema produttivo, delle famiglie e dei giovani di potere disporre di reti e servizi che non li svantaggino. Questa è la bussola, il resto è solo melina per posporre l’ora dei conti.
Microsoft ha comprato Nokia per far concorrenza ad Apple, Samsung e Google (che ha comprato Motorola). Quelli non sono telefoni, ma strumenti di controllo del cliente e chioschi per la vendita di servizi. La sfida, nel mondo, è fra chi ha le reti (e non vuol ridursi a fare il facchino) e chi ha i telefoni (e non vuole che si metta becco nella valigia). Pensare di partecipare con una Telecom Italia ridotta a sforacchiato operatore regionale è patetico. Supporre che siano geniali amministratori o furbissimi finanzieri quelli che l’hanno costì condotta non è generoso, ma fantasioso. Piangono sia il cuore che il portafoglio, ma per avere telecomunicazioni in mani italiane, come ricordavo all’inizio, meglio scegliere gli italiani capaci che la difesa dell’indifendibile.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.