Dum Romae loquuntur...
Mandare in pensione
Perdere tempo è un lusso che l'Italia non può più permettersidi Enrico Cisnetto - 31 ottobre 2011
Quello che per Berlusconi è tempo guadagnato, per l’Italia è tempo perso. L’accoppiata Merkel-Sarkozy, che resta divisa su molte questioni, ha trovato un terreno d’interesse comune nel coltivare l’idea di scaricare addosso a noi la colpa dell’impasse dell’eurosistema – che ha ben altre ragioni – e la totale assenza di credibilità del premier li ha favoriti nel fare questo giochetto. Di qui il diktat, espresso a Berlusconi dai due suoi colleghi e poi “rivestito” di una qualche formalità – ma siamo sempre ben al di là dei Trattati europei – da Commissione e Consiglio Ue.
Il Cavaliere lì per lì c’è cascato come un pollo, dicendo a “Merkozy” che avrebbe fatto tutto quello che gli chiedevano, a cominciare da una riforma “vera” delle pensioni. Avrebbe potuto mandare Francia e Germania a quel paese per l’irritualità della condizione in cui con quel “avete 72 ore di tempo” stavano mettendo uno stato sovrano, e per di più il terzo nella classifica dell’euroclub, ma avendo la coscienza sporca per non avere fatto alcuna di quelle riforme strutturali di cui ci sarebbe stato bisogno e sapendo che tanto con l’inquilino dell’Eliseo (Bini Smaghi) quanto con la cancelleria volgarmente apostrofata aveva peccati da farsi perdonare, il Cavaliere non ha avuto la presenza di spirito di rovesciare il tavolo. Anzi, ha giurato che avrebbe fatto i compiti a casa. Poi, tornato a Roma, qualcuno gli ha spiegato che era meglio mostrare i denti, e con quasi 24 ore di ritardo ha fatto un comunicato di protesta per la pubblica irrisione dedicatagli dal duo. Tuttavia, quello sfizio non gli ha risolto il problema di Bossi, che sulle pensioni ha fatto il suo solito gioco del ricatto al rialzo, quello che in questi tre anni di governo (ma anche nell’altra legislatura) gli ha consentito di avere sempre di più “il coltello dalla parte del manico” (come dice lui stesso). Poi ha trovato la “quadra” (sempre per usare il linguaggio del capo della Lega): mandare a Bruxelles una bella letterina di Natale, piena di buone intenzioni ma nulla di più. Sapendo che quelli non avrebbero potuto far altro che abbozzare e ringraziare. Magari ammonendo, come è effettivamente stato, che vigileranno affinché Roma passi dalle parole ai fatti nei tempi previsti. L’alternativa, infatti, sarebbe stata una bocciatura che avrebbe aperto un conflitto difficilmente gestibile, dando spago alla speculazione a danno non solo dell’Italia, ma anche e soprattutto dell’eurosistema.
Qualcuno dice che la reiterata rigidità dei tedeschi è funzionale ad un disegno preciso: smontare l’euro per rifarne uno molto più marco-centrico, solo con i paesi virtuosi. A parte che si potrebbe obiettare che, se fosse, si tratterebbe di un disegno sbagliato, perché oggi non ci sono le condizioni per scindere gli interessi tedeschi (a cominciare da quelli delle sue banche) dal resto d’Europa, ma in tutti i casi questa ipotesi avrebbe dovuto comportare una risposta negativa alla lettera di Berlusconi, proprio per far saltare il banco. No, la verità è che, per ragioni diverse ma coincidenti nell’obiettivo finale, i “Merkozy” volevano far inciampare Berlusconi, non l’Italia. Intenzione legittima, sia chiaro, e pure buona. Nulla di cui scandalizzarsi, il gioco politico è sempre transitato anche attraverso coordinate internazionali. E poi, ai fini della transizione italiana verso la Terza Repubblica, meglio uno scenario del genere che una caduta del Cavaliere per ragioni giudiziarie o scandalistiche. Solo che in questi casi chi impugna la pistola deve saperla usare a colpo sicuro, se sbagli sei fregato. E così è successo ai “Merkozy”: pensavano che dandogli 72 ore di tempo per fare ciò che non è stato capace di fare in oltre otto anni di governo, Berlusconi alzasse le mani e si arrendesse, facendo quel “passo indietro” che nessuno in Italia, né le opposizioni né i mugugnoni della maggioranza sono riusciti a fargli fare. Invece lui ancora una volta si è messo d’accordo con Bossi e ha costretto l’Europa a concedergli tempo. Molto probabilmente non saranno quei 18 mesi che ci separano dalla scadenza naturale della legislatura, ma per lui ogni giorno in più di sopravvivenza è comunque ossigeno. Stefano Folli, con la consueta lucidità, lo ha spiegato molto bene ieri sul Sole 24 Ore: lo scambio di lettere con l’Europa non cancella l’eventualità di elezioni a marzo, anzi. Ma toglie spazio – ancora una volta, dopo i falliti assalti parlamentari del 14 dicembre 2010 e del 14 ottobre scorso – alla possibilità che alle urne ci porti non l’attuale esecutivo ma un governo con una più larga base parlamentare. E che questo sia lo scenario lo confermano le dichiarazione del premier di ieri, tutte incentrate a definire i termini con cui la sua parte politica si presenterà agli elettori. E quel riferimento alle primarie in stile americano, date non più come un’ipotesi ma come una decisione presa dal “capo”, stanno ad indicare che lui intende candidarvisi e che, ovviamente, le vincerà. A conferma di quanto abbiamo sempre sostenuto: nessun largo ai giovani, con buona pace di Alfano e coetanei.
La spina da staccare, naturalmente, rimane in mano alla Lega, o meglio a Bossi e al suo “cerchio magico”, che finora sono riusciti a evitare il ventilato blitz interno – ma anche qui vale lo stesso discorso fatto per il Pdl: è inutile lamentarsi del “patto della prostata” tra i due vecchietti B&B se poi chi ha interesse al cambiamento non ha il coraggio di esporsi – e hanno confermato l’appoggio a Berlusconi per motivi politici e non. Ma la Lega determinante è la più sicura garanzia che nulla di quella parte “liberale” o anche più semplicemente modernizzatrice dei provvedimenti promessi alla Ue si farà mai. Basta vedere la linea tenuta dal Senatur – verso la quale Maroni è stato colpevolmente acquiescente – sulla riforma delle pensioni. “Non possiamo farla, la gente ci ammazza”, ha detto con il solito linguaggio da Bar Sport il ministro (si fa per dire) Bossi per difendere gli interessi di una minoranza (il 65%, che sta al Nord, degli italiani che hanno o stanno per avere i requisiti per prendersi quella pensione di anzianità che giustamente l’Europa ci chiede di abolire). Non a caso sulla previdenza quanto è contenuto nella lettera italiana alla Ue è solo la conferma di norme già esistenti e che spostano in avanti negli anni la soluzione del problema. D’altra parte, sulla previdenza la Lega è recidiva. È stato lo stesso Maroni, autore della riforma del 2004 che introduceva il famoso “scalone” – poi sciaguratamente abolito dal governo Prodi – a raccontare che quell’intervento sarebbe stato ben più incisivo se non fosse intervenuto Bossi, che preferì allungarne i tempi in modo che la sua entrata in vigore finisse a carico della legislatura che iniziava nel 2006. Ed è stata sempre la Lega – senza alcuna resistenza del Pdl, anzi – a non volerla più riattivare una volta che il centro-destra tornò al governo nel 2008, nonostante che uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di allora fu la (giusta) reprimenda contro il centro-sinistra che spese 10 miliardi per riaccorciare l’età di quiescenza. Ecco, in attesa di una classe dirigente capace di governare assumendosi la responsabilità delle scelte necessarie (anche impopolari) prescindendo dai sondaggi – cioè l’esatto contrario della cifra dei protagonisti della Seconda Repubblica, nessuno escluso – al Paese toccherà vivere ancora nel marasma politico. Perché una cosa è sicura: le riforme fin qui mancate non sono un caso sfortunato, ma l’inevitabile conseguenza della mentalità dominate. Perché il refrain “sentiamo cosa vuole la nostra gente” non è un segno di sensibilità democratica, bensì un mantra ripetuto da chi non ha idee in testa ed è capace di conquistare il consenso solo vellicando gli istinti più qualunquisti e corporativi della società. Cioè proprio quello che occorre mandare in pensione subito se non vogliamo finire fritti in salsa greca.
Il Cavaliere lì per lì c’è cascato come un pollo, dicendo a “Merkozy” che avrebbe fatto tutto quello che gli chiedevano, a cominciare da una riforma “vera” delle pensioni. Avrebbe potuto mandare Francia e Germania a quel paese per l’irritualità della condizione in cui con quel “avete 72 ore di tempo” stavano mettendo uno stato sovrano, e per di più il terzo nella classifica dell’euroclub, ma avendo la coscienza sporca per non avere fatto alcuna di quelle riforme strutturali di cui ci sarebbe stato bisogno e sapendo che tanto con l’inquilino dell’Eliseo (Bini Smaghi) quanto con la cancelleria volgarmente apostrofata aveva peccati da farsi perdonare, il Cavaliere non ha avuto la presenza di spirito di rovesciare il tavolo. Anzi, ha giurato che avrebbe fatto i compiti a casa. Poi, tornato a Roma, qualcuno gli ha spiegato che era meglio mostrare i denti, e con quasi 24 ore di ritardo ha fatto un comunicato di protesta per la pubblica irrisione dedicatagli dal duo. Tuttavia, quello sfizio non gli ha risolto il problema di Bossi, che sulle pensioni ha fatto il suo solito gioco del ricatto al rialzo, quello che in questi tre anni di governo (ma anche nell’altra legislatura) gli ha consentito di avere sempre di più “il coltello dalla parte del manico” (come dice lui stesso). Poi ha trovato la “quadra” (sempre per usare il linguaggio del capo della Lega): mandare a Bruxelles una bella letterina di Natale, piena di buone intenzioni ma nulla di più. Sapendo che quelli non avrebbero potuto far altro che abbozzare e ringraziare. Magari ammonendo, come è effettivamente stato, che vigileranno affinché Roma passi dalle parole ai fatti nei tempi previsti. L’alternativa, infatti, sarebbe stata una bocciatura che avrebbe aperto un conflitto difficilmente gestibile, dando spago alla speculazione a danno non solo dell’Italia, ma anche e soprattutto dell’eurosistema.
Qualcuno dice che la reiterata rigidità dei tedeschi è funzionale ad un disegno preciso: smontare l’euro per rifarne uno molto più marco-centrico, solo con i paesi virtuosi. A parte che si potrebbe obiettare che, se fosse, si tratterebbe di un disegno sbagliato, perché oggi non ci sono le condizioni per scindere gli interessi tedeschi (a cominciare da quelli delle sue banche) dal resto d’Europa, ma in tutti i casi questa ipotesi avrebbe dovuto comportare una risposta negativa alla lettera di Berlusconi, proprio per far saltare il banco. No, la verità è che, per ragioni diverse ma coincidenti nell’obiettivo finale, i “Merkozy” volevano far inciampare Berlusconi, non l’Italia. Intenzione legittima, sia chiaro, e pure buona. Nulla di cui scandalizzarsi, il gioco politico è sempre transitato anche attraverso coordinate internazionali. E poi, ai fini della transizione italiana verso la Terza Repubblica, meglio uno scenario del genere che una caduta del Cavaliere per ragioni giudiziarie o scandalistiche. Solo che in questi casi chi impugna la pistola deve saperla usare a colpo sicuro, se sbagli sei fregato. E così è successo ai “Merkozy”: pensavano che dandogli 72 ore di tempo per fare ciò che non è stato capace di fare in oltre otto anni di governo, Berlusconi alzasse le mani e si arrendesse, facendo quel “passo indietro” che nessuno in Italia, né le opposizioni né i mugugnoni della maggioranza sono riusciti a fargli fare. Invece lui ancora una volta si è messo d’accordo con Bossi e ha costretto l’Europa a concedergli tempo. Molto probabilmente non saranno quei 18 mesi che ci separano dalla scadenza naturale della legislatura, ma per lui ogni giorno in più di sopravvivenza è comunque ossigeno. Stefano Folli, con la consueta lucidità, lo ha spiegato molto bene ieri sul Sole 24 Ore: lo scambio di lettere con l’Europa non cancella l’eventualità di elezioni a marzo, anzi. Ma toglie spazio – ancora una volta, dopo i falliti assalti parlamentari del 14 dicembre 2010 e del 14 ottobre scorso – alla possibilità che alle urne ci porti non l’attuale esecutivo ma un governo con una più larga base parlamentare. E che questo sia lo scenario lo confermano le dichiarazione del premier di ieri, tutte incentrate a definire i termini con cui la sua parte politica si presenterà agli elettori. E quel riferimento alle primarie in stile americano, date non più come un’ipotesi ma come una decisione presa dal “capo”, stanno ad indicare che lui intende candidarvisi e che, ovviamente, le vincerà. A conferma di quanto abbiamo sempre sostenuto: nessun largo ai giovani, con buona pace di Alfano e coetanei.
La spina da staccare, naturalmente, rimane in mano alla Lega, o meglio a Bossi e al suo “cerchio magico”, che finora sono riusciti a evitare il ventilato blitz interno – ma anche qui vale lo stesso discorso fatto per il Pdl: è inutile lamentarsi del “patto della prostata” tra i due vecchietti B&B se poi chi ha interesse al cambiamento non ha il coraggio di esporsi – e hanno confermato l’appoggio a Berlusconi per motivi politici e non. Ma la Lega determinante è la più sicura garanzia che nulla di quella parte “liberale” o anche più semplicemente modernizzatrice dei provvedimenti promessi alla Ue si farà mai. Basta vedere la linea tenuta dal Senatur – verso la quale Maroni è stato colpevolmente acquiescente – sulla riforma delle pensioni. “Non possiamo farla, la gente ci ammazza”, ha detto con il solito linguaggio da Bar Sport il ministro (si fa per dire) Bossi per difendere gli interessi di una minoranza (il 65%, che sta al Nord, degli italiani che hanno o stanno per avere i requisiti per prendersi quella pensione di anzianità che giustamente l’Europa ci chiede di abolire). Non a caso sulla previdenza quanto è contenuto nella lettera italiana alla Ue è solo la conferma di norme già esistenti e che spostano in avanti negli anni la soluzione del problema. D’altra parte, sulla previdenza la Lega è recidiva. È stato lo stesso Maroni, autore della riforma del 2004 che introduceva il famoso “scalone” – poi sciaguratamente abolito dal governo Prodi – a raccontare che quell’intervento sarebbe stato ben più incisivo se non fosse intervenuto Bossi, che preferì allungarne i tempi in modo che la sua entrata in vigore finisse a carico della legislatura che iniziava nel 2006. Ed è stata sempre la Lega – senza alcuna resistenza del Pdl, anzi – a non volerla più riattivare una volta che il centro-destra tornò al governo nel 2008, nonostante che uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di allora fu la (giusta) reprimenda contro il centro-sinistra che spese 10 miliardi per riaccorciare l’età di quiescenza. Ecco, in attesa di una classe dirigente capace di governare assumendosi la responsabilità delle scelte necessarie (anche impopolari) prescindendo dai sondaggi – cioè l’esatto contrario della cifra dei protagonisti della Seconda Repubblica, nessuno escluso – al Paese toccherà vivere ancora nel marasma politico. Perché una cosa è sicura: le riforme fin qui mancate non sono un caso sfortunato, ma l’inevitabile conseguenza della mentalità dominate. Perché il refrain “sentiamo cosa vuole la nostra gente” non è un segno di sensibilità democratica, bensì un mantra ripetuto da chi non ha idee in testa ed è capace di conquistare il consenso solo vellicando gli istinti più qualunquisti e corporativi della società. Cioè proprio quello che occorre mandare in pensione subito se non vogliamo finire fritti in salsa greca.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.