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Public Policy

Dall'emergenza al rilancio

Manca la svolta strategica

Il Governo deve adottare un nuovo modello di sviluppo e un piano di investimenti per la modernizzazione delle infrastrutture

di Enrico Cisnetto - 17 marzo 2012

C’è da rallegrarsi che, dopo le inutili e stucchevoli polemiche che lo hanno preceduto, il vertice tra governo e leader politici sia andato nel migliore dei modi. Solo che su quel tavolo mancava un dossier decisivo per le sorti dell’Italia, così come di quelle di Monti e del sistema politico, alla ricerca di una modalità per terminare al meglio la legislatura ma soprattutto per gestire le elezioni del 2013 e quanto accadrà dopo. Mancava il “grande progetto”, il piano per passare dall’emergenza dello spread al rilancio del Paese. Ma attenzione: non solo il recupero della crescita perduta, pensando sia possibile ottenerla ripristinando le vecchie condizioni della produzione di ricchezza.

No, stiamo parlando dell’adozione di un nuovo modello di sviluppo, totalmente diverso da quello del passato, e di un piano radicale di modernizzazione che cambi pelle e faccia al Paese. Sia chiaro: qui non si vuole affatto sottovalutare l’importanza di quanto ha fatto e sta facendo il governo Monti. Anzi. Non ci sfugge che soltanto quattro mesi fa eravamo con un piede (e mezzo) nel baratro, che stavamo drammaticamente correndo il rischio di diventare la Grecia, e che senza la virata impressa dalle dimissioni di Berlusconi e dalla più complessiva resa di un sistema politico ormai fallito nel burrone del default ci saremmo finiti, causando un’immane tragedia all’Europa e all’economia mondiale. Così come non ci sfugge quanto abbia giocato per allontanarci da quel pericolo la credibilità personale di Mario Monti e di alcuni dei suoi ministri – insieme all’apprezzamento unanimemente riscosso dal Capo dello Stato per aver portato a termine senza “spargimento di sangue” un’operazione tanto complessa e delicata – e come sia stata complessivamente positiva la gestione di quella che è stata chiamata fase uno e fase due, seppure con alti (pensioni) e bassi (liberalizzazioni).

Né abbiamo preso in considerazione i tentativi dei due partiti maggiori – tra l’altro autolesionistici in termini di consenso popolare – di aprire contenziosi su alcune questioni, come giustizia e Rai, rispolverando il vecchio stile della contrapposizione armata della Seconda Repubblica. Non a caso sono velocemente rientrati, ed escludiamo siano sintomo del pericolo che la legislatura trovi un qualche inciampo che le impedisca la conclusione a tempo debito. Insomma, il governo merita fin qui un buon voto e francamente non crediamo ci sarà qualcosa o qualcuno che ne interrompa il cammino. Ma è sufficiente? La risposta è senza mezze misure: no. Primo perché quel pericolo, segnalato dall’esplosione dello spread, è allontanato ma non del tutto sgombrato dal campo, e dunque sarebbe un errore che il differenziale con i bund tedeschi sotto i 300 punti sia di per sé sufficiente a metterci al riparo.

Anche perché l’Europa continua ad essere una clamorosa incognita, tanto più che la probabile vittoria socialista in Francia e la possibile sconfitta di Angela Merkel in Germania ai prossimi appuntamenti elettorali potrebbe cambiare – sperabilmente in meglio, ma cambiare – lo scenario dell’eurosistema. In secondo luogo, il mix tra la recessione in atto – attestata non solo dalla caduta del pil, ma anche dal crollo della produzione industriale e da una contrazione dei consumi che ci ha portato indietro di trent’anni – e il clima di sfiducia che deprime ogni ceto e angolo del Paese, rende urgente – in modo non meno impellente di quanto non sia stato per l’emergenza default – un intervento strutturale per il rilancio del Paese. Certo, un anno di tempo davanti è poco, e per di più con la prospettiva che la seconda parte di questo tempo sarà condizionata in modo crescente dalla eventuale riforma delle legge elettorale, dalla necessità di modulare l’offerta politica in vista del voto e dal lavorio per costruire il dopo elezioni (in cui è ricompreso anche il rinnovo della presidenza della Repubblica, primo atto della prossima legislatura).

Ma la definizione di un grande progetto che delinei su basi diverse il futuro del Paese non si può più rinviare. Anche perché, purtroppo, di questo dibattito non si vede neppure l’ombra. Non c’è dentro il governo o da esso animato, non c’è alcuna iniziativa – ma forse neppure nessuna consapevolezza della sua estrema necessità – da parte dei partiti e dei gruppi parlamentari. I termini noi li abbiamo indicati più e più volte. Si deve partire da un grande piano di abbattimento del debito pubblico – obiettivo che deve sostituire l’inutile e per certi versi dannosa rincorsa all’azzeramento del deficit corrente – e di revisione della spesa pubblica.

Per poi continuare con un mega piano di investimenti, anche e soprattutto pubblici (quelli privati arriveranno se ci saranno i primi), tesi ad ammodernare le nostre infrastrutture materiali e immateriali, ad aiutare il nostro capitalismo a riconvertirsi verso produzioni e forniture di servizi a ben più alto tasso di innovazione tecnologica, a far diventare “industriale” l’offerta turistico-culturale. Questo dopo aver reimmaginato il nostro modello di sviluppo, assodato che quello fin qui seguito è obsoleto e che gli unici che si sono salvati sono quei pezzi di industria manifatturiera che sono stati capaci di internazionalizzarsi (purtroppo pochi rispetto alla struttura complessiva del capitalismo nostrano). Troppo ambizioso? Forse. Ma ineludibile. Lo avvii Monti o i partiti trovino in esso il motivo del tanto evocato ritorno della politica, ma questo processo va messo in moto. Pena il definitivo declino dell’Italia.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.