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Mafia e Stato

Logica e trattativa

Quando si cominciò a parlare della trattativa fra lo Stato e la mafia l’attenzione era tutta rivolta verso Silvio Berlusconi. Poteva essere? Perché no? Ma i conti non tornavano.

di Davide Giacalone - 15 giugno 2012

Pare che prima d’inviare l’avviso di garanzia a Giovanni Conso si sia litigato, presso la procura della Repubblica di Palermo. Non so se sia vero, in effetti taluni non hanno firmato quell’atto. L’insanabile litigio è, piuttosto, fra il teorema accusatorio e la logica. Noi leggiamo, ragioniamo e usiamo la logica. Che difetta in quelle carte. Qualche lettore mi ha scritto: hanno finalmente letto le cose che avete pubblicato. Le hanno lette, forse, ma non le hanno capite. Quando si cominciò a parlare della trattativa fra lo Stato e la mafia l’attenzione era tutta rivolta verso Silvio Berlusconi, che si sarebbe servito di Marcello Dell’Utri (se non altro come interprete). Poteva essere? Perché no? Ma i conti non tornavano. Arrivò Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex sindaco di Palermo e sempre mafioso, defunto. Le cose che diceva mi sembravano fesserie. Lo incontrai in un pubblico dibattito e mi domandai come si potesse credere a uno di quella fatta. Ciò non di meno gli va riconosciuto un merito: tirò fuori le condizioni poste da Totò Riina allo Stato. Erano tutte follie, salvo la richiesta di far cessare il regime di carcere duro, previsto dal 41 bis (istituito dopo la morte di Giovanni Falcone, sicché quelli che scrivono che la bomba fu l’inizio della campagna per ottenere quel risultato non sanno quel che dicono). Dato che l’indagine era politicamente indirizzata, ben l’accompagnavano le numerose dichiarazione di Carlo Azelio Ciampi, secondo il quale le bombe di mafia erano indirizzate contro di cui e, difatti, cessarono con la sua dipartita. Chi fu il successore? Berlusconi. I conti tornano. Presi il calendario e usai la logica: le morti di Falcone e Paolo Borsellino (1992) stanno su un conto diverso, cui non è estranea la procura di Palermo, quelle erano bombe stragiste; le bombe dell’estate 1993 sono state messe presso luoghi di culto e in modo da non fare vittime (ce ne furono, ma accidentali). Segno che stavano parlando con qualcuno. La rivelazione venne dalla testimonianza di Giovanni Conso, allora ministro della giustizia, il quale disse di avere disapplicato il 41 bis per fermare le bombe. Che infatti cessarono, quando ancora a palazzo Chigi c’era Ciampi. La prima deduzione logica è stata: se è vero che ci fu una trattativa (ne dubito), e se è vero che puntava agli obiettivi del papello, posto che l’unico conseguito è la cessazione de carcere duro, ne deriva che si chiuse con le due mancate firme di Conso, nel 1993. Non credo Conso abbia mentito (è un assoluto galantuomo), fu eterodiretto. Da chi? Ecco la catena, della quale, a lungo, parlammo da soli: da monsignor Cesare Curioni, capo dei cappellani carcerari, che si rivolse a Oscar Luigi Scalfaro, suo grande amico, cui segnalò Adalberto Capriotti, quale nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria, in modo da cacciare Nicolò Amato, contrario all’attenuazione del 41 bis. In sintesi: la proposta fu vaticana e l’esecuzione politica a cura di Scalfaro. Il che aiuta a spiegare le bombe in quei luoghi, posto che i mafiosi sono feccia incolta e disonorata. Ciampi fu forse raggirato, Conso indotto ad agire come stabilito. Torniamo alla logica: se la trattativa ci fu, è a quel terzetto che si deve chiedere. Peccato che due siano morti, nel frattempo. La procura palermitana che fa? lascia intatto il teorema, accusa chi lo smentisce di falsa testimonianza e pretende che si sia trattato fino al 1994. Peccato che quell’anno si ripristina l’uso del 41 bis. Escluso che Berlusconi abbia fregato anche la mafia, il presupposto non regge. Secondo la procura chi mente lo fa “al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l’impunità”. Processano lo Stato, anziché la mafia.

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