Un'Italia al capolinea e in un vicolo cieco
Legittimo sfinimento
Abbiamo l’anima satura di polemiche senza costruttodi Davide Giacalone - 23 dicembre 2010
L’Italia è stata ancora condannata per inciviltà, ma la non notizia neanche trova spazio sulle prime pagine. Una cosa scontata. In compenso ci accingiamo a una nuova corrida giudiziaria, preparandoci a ricevere la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge che regola il legittimo impedimento. E non basta, perché la follia autolesionista non ha limiti: se un giornale straniero mette alla berlina qualche nostro governante parte subito il coretto parrocchiale di quelli che intonano il “che vergogna, davanti al mondo”, ma se è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a sentenziare che la nostra giustizia fa schifo, improvvisamente diventano tutti muti, incapaci di commento alcuno. Ancora oltre: se si osserva che certuni sembrano potere disporre di un accordo con la magistratura associata, immediatamente parte la ola dello scandalo, non per il fatto, ma per il detto, sebbene si sappia benissimo che tutte le riforme della giustizia, a partire dalla necessaria separazione delle carriere, sono state avversate da quegli stessi, con gran soddisfazione della magistratura associata. Che è la stessa cosa di aprima, ma guai a dirlo in modo chiaro.
E’ umiliante, disonorevole, essere condannati non solo per la lentezza, esasperante e disumana, della giustizia italiana, ma anche per la lentezza, grottesca e arrogante, con cui decidiamo e paghiamo i risarcimenti per le ingiustizie subite dai cittadini. In un Paese che ancora coltivi un briciolo d’amor proprio questo sarebbe un tema in cima alle priorità. Invece non importa niente a nessuno. La giustizia è data per morta, senza neanche cordoglio. Non a caso neanche più s’invocano i processi giusti e ragionevoli, mentre si parla sempre di arresti preventivi (con l’occasione: è vero che il senatore Gasparri ha detto uno sproposito, ma nello stesso Paese in cui Silvio Scaglia è detenuto da un anno, senza che nessuno lo abbia mai condannato a nulla). Quel che è vivo, invece, è un giustizialismo da pollaio, animato dalla voglia di veder cancellato l’avversario politico.
Quando la Corte Costituzionale si sarà pronunciata, a gennaio, giusto in tempo per poi cambiare il proprio presidente, saremo esattamente al punto di prima: una dubbia lezioncina pronunciata da un organismo che viola la Costituzione pur di far fare carriera ai propri membri. Possono salvare o affossare il legittimo impedimento, non per questo cambierà un accidente. Più probabilmente lo rimoduleranno, in modo da rendere più presente il tema nel dibattito politico. E se ne sentiva il bisogno.
Sulla faccenda si farà gran caciara, mentre il silenzio scenderà sulle parole della Corte di Strasburgo: l’Italia deve profondamente riformare la propria giustizia. Quei giudici fanno anche riferimento ai lavori parlamentari, dove le riforme giacciono, auspicando che si concludano. Auspicio più che condivisibile, ma poco credibile. Da troppi anni giriamo attorno alle cose serie, incapaci di affrontarle, sempre distratti da norme limitate e frammentarie, da mozziconi di riforma che vengono avversati come se fossero inammissibili rivoluzioni.
A noi piace parlare chiaramente: è vero che la maggioranza di centro destra s’è spesa quasi solo per proteggere il proprio leader dagli assalti giudiziari, ma è anche vero che quelle norme specifiche erano sbagliate perché troppo poco, non perché troppo, come sostenevano gli oppositori e i moralisti d’accatto. Come è vero che non è assolutamente normale il protrarsi quindicennale di raffiche giudiziarie, spesso sparate a casaccio, sempre invitando chi è nel mirino a farsi da parte, con ciò stesso manomettendo la democrazia.
Ed è vero anche che quel che di buono è stato fatto, come la legge Pecorella sulla non riprocessabilità degli assolti, è stato poi cancellato da una Corte Costituzionale politicante (in quel caso con la sentenza redatta da uno che è stato presidente poche settimane, a cavallo delle feste, e neanche avverte l’elementare bisogno di vergognarsene). Ora si ricomincia, con il legittimo impedimento. Ci sono colpe ben distribuite, quindi, e miserie seminate a piene mani. Ma la responsabilità d’impostare le riforme cade su chi ha la maggioranza. Oramai dovrebbe essere chiaro che l’Italia è in un vicolo cieco, per giunta rissoso e maleodorante: va sfondato, deve esserci ossigeno e giustizia per tutti, non per uno o per taluno.
Meglio, allora, puntare tutto al bersaglio grosso, non accettando compromessi al ribasso o protezioni esclusive. Abbiamo l’anima satura di polemiche senza costrutto. Si discuta la riforma vera, senza inseguire e neanche coprire il corporativismo togato: né quello dei magistrati né quello degli avvocati. Coccolarlo o sbertucciarlo è servito solo a diventare incivili.
Pubblicato da Libero
E’ umiliante, disonorevole, essere condannati non solo per la lentezza, esasperante e disumana, della giustizia italiana, ma anche per la lentezza, grottesca e arrogante, con cui decidiamo e paghiamo i risarcimenti per le ingiustizie subite dai cittadini. In un Paese che ancora coltivi un briciolo d’amor proprio questo sarebbe un tema in cima alle priorità. Invece non importa niente a nessuno. La giustizia è data per morta, senza neanche cordoglio. Non a caso neanche più s’invocano i processi giusti e ragionevoli, mentre si parla sempre di arresti preventivi (con l’occasione: è vero che il senatore Gasparri ha detto uno sproposito, ma nello stesso Paese in cui Silvio Scaglia è detenuto da un anno, senza che nessuno lo abbia mai condannato a nulla). Quel che è vivo, invece, è un giustizialismo da pollaio, animato dalla voglia di veder cancellato l’avversario politico.
Quando la Corte Costituzionale si sarà pronunciata, a gennaio, giusto in tempo per poi cambiare il proprio presidente, saremo esattamente al punto di prima: una dubbia lezioncina pronunciata da un organismo che viola la Costituzione pur di far fare carriera ai propri membri. Possono salvare o affossare il legittimo impedimento, non per questo cambierà un accidente. Più probabilmente lo rimoduleranno, in modo da rendere più presente il tema nel dibattito politico. E se ne sentiva il bisogno.
Sulla faccenda si farà gran caciara, mentre il silenzio scenderà sulle parole della Corte di Strasburgo: l’Italia deve profondamente riformare la propria giustizia. Quei giudici fanno anche riferimento ai lavori parlamentari, dove le riforme giacciono, auspicando che si concludano. Auspicio più che condivisibile, ma poco credibile. Da troppi anni giriamo attorno alle cose serie, incapaci di affrontarle, sempre distratti da norme limitate e frammentarie, da mozziconi di riforma che vengono avversati come se fossero inammissibili rivoluzioni.
A noi piace parlare chiaramente: è vero che la maggioranza di centro destra s’è spesa quasi solo per proteggere il proprio leader dagli assalti giudiziari, ma è anche vero che quelle norme specifiche erano sbagliate perché troppo poco, non perché troppo, come sostenevano gli oppositori e i moralisti d’accatto. Come è vero che non è assolutamente normale il protrarsi quindicennale di raffiche giudiziarie, spesso sparate a casaccio, sempre invitando chi è nel mirino a farsi da parte, con ciò stesso manomettendo la democrazia.
Ed è vero anche che quel che di buono è stato fatto, come la legge Pecorella sulla non riprocessabilità degli assolti, è stato poi cancellato da una Corte Costituzionale politicante (in quel caso con la sentenza redatta da uno che è stato presidente poche settimane, a cavallo delle feste, e neanche avverte l’elementare bisogno di vergognarsene). Ora si ricomincia, con il legittimo impedimento. Ci sono colpe ben distribuite, quindi, e miserie seminate a piene mani. Ma la responsabilità d’impostare le riforme cade su chi ha la maggioranza. Oramai dovrebbe essere chiaro che l’Italia è in un vicolo cieco, per giunta rissoso e maleodorante: va sfondato, deve esserci ossigeno e giustizia per tutti, non per uno o per taluno.
Meglio, allora, puntare tutto al bersaglio grosso, non accettando compromessi al ribasso o protezioni esclusive. Abbiamo l’anima satura di polemiche senza costrutto. Si discuta la riforma vera, senza inseguire e neanche coprire il corporativismo togato: né quello dei magistrati né quello degli avvocati. Coccolarlo o sbertucciarlo è servito solo a diventare incivili.
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L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.