Le scelte elettorali di Società Aperta
Le strategie post elettorali
Intervento di Enrico Cisnetto, Presidente di SA14 marzo 2008
Società Aperta è stata in questi anni un luogo di discussione, di dibattito, di stimolo, di offerta al sistema politico di spunti e riflessioni, di opportunità, di iniziative. E vuole continuare ad esserlo in questo momento pre-elettorale, in un contesto dove nessuno discute più di politica e dove la politica è, molto più di quanto non fosse prima, ridotta a motivo di contrattazione.
Sono passati 15 anni dall’inizio della Seconda Repubblica, una stagione politica che abbiamo indicato come da superare fin dalla sua nascita. E ci ritroviamo, in prossimità delle prossime elezioni del 13 e 14 aprile, nella peggiore delle condizioni possibili per quanto riguarda lo stato di salute del Paese, dovuto ad una serie di fattori che in questi anni abbiamo via via denunciato, prendendoci anche la patente di menagrami.
I nostri tentativi di fronte alla necessità di fermare la deriva dell’economia italiana, sono stati inascoltati. Ma basterebbe vedere il grafico della curva del prodotto interno lordo per capire che l’economia italiana è in una fase di profondo declino, lento e inesorabile, a cui nessuno ha saputo finora porre un freno.
Per non parlare poi del degrado socio ambientale. La spazzatura di Napoli è il “nostro 11 settembre”, una condizione drammatica che come al solito resta insoluta. Mi sarei aspettato in questa campagna elettorale un’iniziativa comune di Veltroni e Berlusconi che avesse il significato di un’assunzione di responsabilità e di ricerca della soluzione del problema. Così non è stato e credo proprio di poter immaginare che, visti i toni di queste ultime ore, non succederà niente del genere.
Abbiamo ormai ben presente la decadenza morale e culturale del nostro Paese. La percezione è quella di un’Italia depressa, senza nerbo, che non ha traguardi e che non guarda al futuro, ma con la testa costantemente girata al passato. Per non parlare poi del senso di marginalità internazionale del Paese che si prova anche soltanto andando a fare i turisti all’estero.
Denunciamo ancora una volta il degrado della giustizia civile e penale, di cui Davide Giacalone ha scritto in questi anni sia in termini di analisi che di proposte, restando regolarmente inascoltato dalla politica, dalla società civile e dagli intellettuali.
v Denunciamo il fallimento del sistema politico e di quello istituzionale. Direi che siamo nel pieno della crisi della democrazia stessa visto che siamo di fronte a un regime oligarchico populista dove nessuno decide, dove vige come elemento caratterizzante e fondante la deresponsabilizzazione.
E’ in questo stato di salute che il Paese si avvia a queste elezioni, sapendo che nel frattempo sono cadute tutte le grandi illusioni coltivate negli ultimi 15 anni:
L’illusione di poter fare a meno della politica, nata nel ‘92-’94. L’idea che di fronte alla corruzione la soluzione fosse fare a meno dei partiti e delle procedure democratiche, l’illusione di doverci affidare a leader mediatici, l’uomo solo al comando, l’Unto del Signore, che quella selezione darwiniana che bene o male con tutte le contraddizioni aveva caratterizzato l’Italia repubblicana dal dopoguerra in poi dovesse essere messa da parte e lasciar spazio appunto all’emergere di figure carismatiche nuove, che in sè avrebbero racchiuso gli strumenti della soluzione dei problemi. Abbiamo visto che è stato esattamente il contrario.
L’illusione della semplificazione maggioritaria. Ci siamo ubriacati di quell’idea e ci siamo affidati a quella semplificazione come se fosse stata la panacea di tutti i mali, ma ci ha portato semplicemente alla moltiplicazione dei partiti e dei soggetti politici, alla moltiplicazione dei diritti di veto, creando quella deresponsabilizzazione del sistema politico e di bipolarismo armato che è stato così distruttivo in questi quindici anni.
L’illusione che il decentramento dei poteri potesse sanare lo scarto nel rapporto tra i cittadini e la politica. Abbiamo costruito un sistema che potremmo chiamare federalista ma che in realtà è semplicemente un localismo esasperato che non ha affatto risolto i problemi, ma ne ha invece creati di nuovi con un sistema in cui si sono moltiplicati i costi, le funzioni, aumentando ulteriormente i diritti di veto. Per cui un comune qualunque ora può bloccare un’iniziativa infrastrutturale o di dotazione energetica che interessa tutto il Paese, creando una distorsione che oggi è difficile riuscire a smontare.
L’illusione del pensiero unico dei liberisti scolastici, dell’onnipotenza del dio mercato. Discussione che oggi si ripropone di nuovo. Penso a quell’iniziativa che facemmo qualche anno fa in cui ci interrogammo sul dilemma se ci voleva più Stato e meno mercato, o meno Stato e più mercato, arrivando alla conclusione che ci voleva più Stato e più mercato, intendendo per più Stato non la presenza proprietaria dello Stato nell’economia, ma la capacità di assumersi responsabilità, di dare risposte alle questioni economiche, costruendo una politica industriale ed economica che consentisse al mondo privato di agire all’interno di un quadro di scelte condivise. Occorreva quindi coniugare al “più mercato” una maggiore capacità della politica di fare delle scelte, dovendo prendere atto che siamo di fronte a una situazione in cui regnano globalizzazione, rivoluzione tecnologica, finanziarizzazione dell’economia, fine dell’assetto geopolitico che si era stabilito a Yalta con la caduta dei Muro di Berlino nell’89 e la fine del Comunismo organizzato. Questi fenomeni hanno cambiato la faccia del mondo, che si è riposizionato lungo l’asse Asia-Stati Uniti. Da allora l’Europa ha vissuto, e per certi versi vive ancora, un momento di grande difficoltà: tutto questo prima lo abbiamo ignorato, e poi abbiamo pensato che si potesse esorcizzare magari muovendo guerra alla Cina, mentre le cose sono decisamente più complicate. Torna di nuovo l’illusione di poter banalizzare la complessità, probabilmente il concetto riassuntivo di questa grande stagione di illusioni cadute.
Arriviamo ora, quindici anni dopo, in un momento elettorale con queste questioni irrisolte e accumulate sulle spalle, questo vuoto pneumatico senza alcun progetto per il futuro. E quando parlo di “crisi italiana” intendo la specificità nostrana che va ben oltre la dimensione congiunturale, che non ha nulla a che fare con la crisi finanziaria in questo momento in atto nello scenario mondiale e con l’ipotesi di una recessione americana. Tutte cose che – come l’11 settembre – sono state oggetto di una manipolazione, allo scopo di creare l’alibi dell’impotenza di governo del domani, e questo la dice lunga su come ci si prepara a governare il Paese dopo le elezioni.
Queste elezioni non sono per nulla la risposta alla crisi italiana. Perché le affrontiamo con un sistema elettorale pessimo, in cui manca totalmente la possibilità di scelta. Io non sono tra quelli che amavano il sistema del voto di preferenza, che ha avuto comunque gravi distorsioni, ma sicuramente impallidisco di fronte alla situazione che abbiamo davanti agli occhi in questi giorni, dove nel chiuso delle segreterie qualcuno decide chi rappresenterà gli italiani in parlamento, con un mercato delle vacche assolutamente inaccettabile.
Se le liste sono fatte con il metodo medievale per cui i propri valvassori e valvassini hanno la precedenza, o con la logica dell’attenzione dei media a questo o quel personaggio, è chiaro che la classe dirigente, il Parlamento sarà riempito domani da letterine della tv o personaggi di altra natura, che nulla hanno a che fare con la capacità della politica di fare delle scelte, di dare delle risposte ai problemi. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente se i partiti sono degli strumenti non democratici, se sono i figli di primarie all’amatriciana, che votano un segretario prima ancora che il partito esista, e che basta passare in un luogo, mettere un euro dentro un cestino e si rimedia il diritto di esprimere quel voto? Oppure se i partiti nascono in una piazza e esprimono il proprio programma attraverso un referendum che si svolge nei gazebo?
A questo proposito, voglio leggervi cosa ha scritto in un articolo Davide Giacalone: “I partiti politici non sono più partiti, ma contenitori entro i quali si cercano di raccogliere i consensi che il capo cerca di calamitare. I gruppi dirigenti sono la somma di storie diverse, con il comune bisogno di trovare un tetto sotto cui svernare. I capi non sono quelli che prevalgono perché portatori di un’idea condivisa dal corpo del partito, dal mondo, dagli interessi che lo circondano, ma personalità che si appellano per esaurimento delle precedenti, o permanenti per mancanza di ricambio. L’insieme di queste debolezze ha la forza di scegliere chi sarà eletto in Parlamento, con la logica dell’autoconservazione, non solo non avverte il bisogno di aprire le porte, ma cerca di serrare anche le finestre, mandando avanti famiglie e famigliari. Non ero un estimatore delle preferenze, ma quel sistema consentiva un continuo interscambio tra il Palazzo e la Piazza, e scaricava sui partiti la responsabilità di non chiudersi nel primo e di non appiattirsi sulla seconda. Dopo l’abbattimento dei partiti e l’esaltazione della gente, ci si ritrova con un Parlamento di maggiordomi. Un bel capolavoro”. Questo credo riassuma perfettamente la selezione del prossimo parlamento a cui stiamo assistendo. E d’altra parte non ci siamo fatti mancare i leader vecchi e consumati, visto che, per i due grandi partiti, nulla si può dire tranne che siano una novità. Uno si presenta per la prima volta a 72 anni, l’altro è nato direttamente iscritto al Pci, è stato vicepresidente del Consiglio con Romano Prodi nel passato ed ha governato malissimo questa città. Le liste sono una pena, ma soprattutto sono una pena i programmi che vengono proposti. Una pena sia in termini di analisi, sia in termini di proposta. Non ho ascoltato nessuno che abbia detto quali siano le condizioni di declino, degrado e decadenza del Paese.
Ho visto soltanto il ping pong tra il “ti tiro via l’Ici” e il “ti do il salario minimo garantito”, tutte idee che hanno a che fare con la distribuzione di un reddito che nel frattempo non si produce più da 15 anni. Si è detto che stiamo assistendo a una campagna elettorale del tutto nuova in cui lo scontro è stato messo da parte a favore del bon ton. A me sembra invece una campagna elettorale old style, in cui il bon ton è stato velocemente abbandonato e la modalità di confronto è quella delle promesse non mantenibili. Veltroni parla di grande rimonta usando i sondaggi esattamente come Berlusconi faceva nel 2006, e scarica le responsabilità su Prodi così come Berlusconi lo fa con Casini e Fini: se tutto questo può essere definito rinnovamento, francamente io credo che diventeremo tutti conservatori.
Siamo di fronte però ad una possibile novità, e cioè che i due partiti grandi, che così tanto si assomigliano non solo nella sigla, ma anche nei comportamenti, svolgano la funzione positiva di spazzare via la gran parte di quello che c’era sul tavolo affollato del sistema politico. La semplificazione, d’altra parte, è una necessità assoluta. E a questo punto quattro, forse cinque, saranno i soggetti rappresentati in Parlamento. Il problema è che questi due partiti per le motivazioni che ho detto prima - non sono partiti democratici, non hanno leader che sappiano guardare al futuro, non hanno elaborato programmi, non parlano un linguaggio di verità al Paese - non sono nella condizione di aprire la stagione della Terza Repubblica. Hanno la funzione meritoria, concediamogli questo, di chiudere la Seconda, ma non certamente possono essere nella condizione di aprire la Terza ed uscire finalmente da questa stagione perché il Paese non più permettersi di perdere ulteriore tempo nell’approntare politiche che blocchino il declino, che affrontino il degrado e la decadenza.
Per aprire alla Terza Repubblica occorre un soggetto nuovo, e qui entra in gioco Società Aperta. Ovviamente, per tutto quello che ho detto finora, Società Aperta, il 13 e 14 aprile rimarrà fuori dalla competizione elettorale. Un comportamento che se da un lato ci riempie di orgoglio, in quanto significa che non abbiamo ceduto a nessuna delle lusinghe arrivate da più parti, dall’altra parte è motivo di frustrazione. Come trasformare l’impegno di Società Aperta nell’analisi e nell’elaborazione di proposte, in una iniziativa politica concreta?
Francamente, in questo momento, non ci sono le condizioni per partecipare a questa battaglia elettorale, quantomeno come soggetto collettivo. Il PD, a cui qualcuno di noi aveva guardato con interesse, ha fatto delle scelte molto discutibili, come l’aggancio con Di Pietro e con il suo giustizialismo (che secondo me pagherà caro, se non in termini elettorali certamente in termini politici); i rapporti con Veltroni erano fitti, lui sapeva perfettamente delle iniziative portate avanti da Società Aperta, aveva mostrato interesse per l’idea di Assemblea Costituente, ma da Veltroni non è venuta nessuna sollecitazione, forse perché noi siamo considerati come dei portatori di idee e non dei blocchi di voto. Neppure dal Popolo della Libertà è venuta nessuna sollecitazione.
Al momento non so se qualcuno di noi accetterà di entrare nelle liste del Pdl o del Pd. Certo è che se così sarà ne saremo felici e cercheremo, nei limiti del possibile, di dare una mano. Certamente avere qualcuno dei nostri amici in Parlamento sarà utile e io stesso, in alcune circostanze, mi sono adoperato perché alcuni amici potessero avere delle chance. Ma questo attiene alle scelte personali di ognuno ed è certo altra cosa rispetto a una scelta collettiva.
Poi c’è il caso della Rosa Bianca e dell’Udc che merita un minimo di storia da raccontare. La nostra è sempre stata una posizione terzista e nel momento in cui Bruno Tabacci ha deciso di correre da solo - lui che è sempre stato un interlocutore di Società Aperta e un esponente politico incontrato sulla nostra strada in questi anni, condividendone reciprocamente le posizioni - abbiamo provato a ragionare sulle reali condizioni di un’operazione terzista, così come l’avevamo immaginata, per esempio in occasione delle elezioni del 2006 ma, francamente, per i tempi e per i modi in cui è stata effettuata la scelta di Tabacci, non ci è sembrato che ci fossero quelle condizioni.
Anzi, abbiamo riscontrato, al contrario, che l’operazione terzista avrebbe rischiato di essere solo un’operazione di testimonianza e che quindi sarebbe stato opportuno avviarci verso un’altra modalità. Il prof. Capaldo condivideva la mia preoccupazione: se era vero che potenzialmente una posizione centrale rispetto ai due grandi partiti poteva valere tra il 10 e 15% dell’elettorato, se qualcuno si fosse esplicitamente candidato a ricoprire quel ruolo e avesse preso lo 0,5 o l’1%, non avrebbe perso solo lui ma avrebbe fatto perdere di credibilità anche il progetto stesso.
Su questa base si era convenuto di fare un’operazione di moral suasion nei confronti di Tabacci ma poi le cose sono andate diversamente. La caratterizzazione della Rosa Bianca è stata fortemente democristiano-cattolica nonostante le personalità che ne sono state protagoniste, in particolare Pezzotta e Tabacci, rappresentino sicuramente la componente più liberale del cattolicesimo italiano, quella più degasperiana. Questa scelta di volersi caratterizzare a tutti i costi verso quella direzione, però, in un momento in cui nel Paese era partito un dibattito sulle questioni etiche che ha rinsaldato il doppio estremismo clericale e laicista su quelle tematiche, era una scelta che noi non potevamo assolutamente condividere. Noi che abbiamo deciso, fin dal primo momento, che il motivo fondante di Società Aperta fosse nella convergenza tra laici e cattolici, nell’idea dell’incontro degasperiano e lamalfiano.
A seguito della decisione dell’Udc di correre da soli, anzi, dopo la scelta di Berlusconi di abbandonare Casini (perché non si può certo definire di Casini la scelta di star fuori), il ricongiungimento con i fratelli da poche settimane allontanatisi dal partito si basava sull’idea di rinserrare le fila del rapporto con la chiesa e il mondo cattolico. Di fronte, però, alla mia obiezione “ma guarda che ci sono i socialisti che rimarranno fuori – e ancora – guarda che nel pulviscolo dei soggetti che gravitano attorno al Pdl, c’è il Partito Repubblicano, che verrà fortemente penalizzato per la perdita di un marchio storico”, la risposta di Tabacci e Casini è stata “non c’è tempo, non ci sono le condizioni, non possiamo fare un’operazione che non sarebbe compresa dall’elettorato, dobbiamo concentrarci sul “core business”, chiamiamolo così, del nostro essere cattolici, del nostro essere scelti dalla chiesa, anzi dobbiamo forzare l’idea che la chiesa scelga noi e non i cattolici che stanno con Berlusconi. Di fronte a questa valutazione, semmai ci fosse stata qualche idea di una partecipazione in nome del terzismo, è chiaro che questa idea sia ora venuta meno.
Nel momento in cui i due grandi partiti si organizzano per passare dal bipolarismo armato dei 50 partiti ad un partitismo secondo me altrettanto coatto, che cambia comunque lo scenario che si va profilando, chi come noi ha fatto un ragionamento sul terzismo non perché si ritenga un centrista - io non mi ritengo tale, non penso che il centrismo sia una scelta politica, quanto piuttosto una collocazione geografico-parlamentare - ma perché riteneva che l’essere terzisti aveva un significato in quel contesto, perché bisognava rompere il meccanismo bipolare, non ci può stare. Soprattutto se quel meccanismo bipolare si è rotto trasferendosi sull’assetto bipartitico di cui abbiamo detto.
Nel momento in cui la geografia politica italiana si ridisegna attorno ai due partiti maggiori, è utile che ci sia un soggetto situato nel mezzo, che eviti tentazioni consociative e che impedisca che il bipartitismo diventi onnivoro. Tutto ciò può portare qualcuno di noi a pensare che il 13 e il 14 aprile sia utile votare l’Udc. Questa è una scelta di tipo personale, non credo sia il caso che questo tipo di indicazione venga da Società Aperta, proprio a seguito dell’analisi più complessiva che abbiamo fatto finora. Se stiamo fuori dobbiamo stare fuori fino in fondo. Ma se per i motivi che abbiamo detto, la scelta è di non partecipare a questa tornata elettorale, naturalmente dobbiamo pensare a cosa fare.
C’è stato un momento, dopo le iniziative che prendemmo a dicembre, in cui diversi partiti erano disponibili ad assumersi la responsabilità di presentare insieme la nostra proposta di legge per la convocazione dell’Assemblea Costituente in Parlamento. Io credo sia utile risollecitare quella disponbilità. Quando sarà finalmente ferma la giostra della presentazione delle liste, chiederemo a tutti i candidati leader di assumersi già in campagna elettorale l’impegno pubblico a sottoscrivere la nostra proposta di legge.
Dopo di che, se l’analisi che abbiamo fatto è corretta, credo che dopo le elezioni si aprirà uno spazio simile a quello che si trovò di fronte Silvio Berlusconi nel 1993, forse addirittura ancora maggiore per certi versi, e il nostro obiettivo deve essere quello di riempire questo spazio.
Fino ad adesso la nostra scelta politica è stata quella di agire su due fronti. Da un alto abbiamo operato all’interno del perimetro della politica, cercando di far incontrare esponenti del centro-destra e del centro-sinistra. Questa strategia è evidentemente finita e non è più replicabile.
Dall’altro abbiamo cercato di individuare nella società civile singole personalità intorno alle quali costruire una nuova condizione politica. Come voi sapete, lungo tutto il corso del 2005 cercammo di convincere Montezemolo a dar vita insieme a Pezzotta a un soggetto nuovo fuori dai due poli di allora, che si presentasse alle elezioni politiche del 2006. Ma come sapete, Montezemolo, dopo un lungo tira e molla, alla fine disse di no. Io credo che quella sia stata per lui e per noi una grossa occasione mancata.
A questo punto la strada che abbiamo di fronte è quella di costruire un nuovo soggetto politico, tutto all’esterno del perimetro della politica. Perché quel sentimento che abbiamo chiamato di antipolitica e che in realtà è di stanchezza, di scoramento e di disorientamento generale, certificato dall’alto numero di indecisi, si aggraverà dopo le elezioni quando ci si accorgerà che non servono a risolvere i problemi della crisi italiana.
E allora io credo che ci sarà una grande disponibilità verso un soggetto nuovo, che si affaccia per la prima sulla scena politica, che ha svolto negli anni un buon lavoro di analisi e di elaborazione programmatica. L’intenzione è di chiudere definitivamente con l’idea di costruire un soggetto intorno alla figura di una persona e di affermare il concetto di “squadra”. Bisogna individuare delle personalità che si siano distinte nel proprio campo fino a raggiungere una meritoria popolarità e che sappiano dare un grosso contributo in termini propositivi all’iniziativa politica che vorrei testare alle elezioni europee del 2009.
Le elezioni europee hanno tre caratteristiche che le rendono adatte:
1. Si vota con il proporzionale puro e con le preferenze, quindi sono elezioni che hanno tecnicamente la condizione migliore rispetto a qualunque altro sistema di voto;
2. Sono elezioni in cui gli italiani hanno dimostrato di saper affrontare con una libertà di voto maggiore rispetto a qualunque altro tipo di elezione politico- amministrativa e in cui il voto d’opinione prevale sul concetto di voto utile o sul voto di scambio;
3. Arrivano dopo un anno da queste elezioni, e credo che questo anno sarà un tempo più che sufficiente per mostrare il fallimento del vincitore, chiunque esso sia.
D’altra parte Società Aperta ha sempre messo gli Stati Uniti d’Europa in cima ai suoi obiettivi, perché la nostra analisi sul declino italiano e sulle difficoltà europee, ci ha portato ad individuare la necessità di una risposta europea nello scenario della globalizzazione. Non si può affrontare la forza dell’Asia con l’individualismo dei singoli paesi europei che non soltanto non sono uniti, ma sono profondamente divisi dalla concorrenza tra di loro. E allo stesso modo, le elezioni europee sono l’appuntamento ideale per provare a costruire e a testare sul mercato del consenso una forza politica nuova che spero riesca a diventare protagonista sullo scenario italiano.
Che nome dare a questa nuova forza politica? Dopo aver chiesto consiglio ad esperti professionisti, quello di Costituente per l’Italia mi è sembrato tra tutte le ipotesi quella più interessante. La parola Costituente da il senso della nostra proposta relativa alla rifondazione del Paese e perché, costituente per quanto riguarda un partito è una modalità che riprende il concetto di società aperta, ossia dello strumento aperto a confrontarsi con la società.
Il nome è, naturalmente, soltanto un punto di inizio. Serve la squadra. In questi ultimi tempi ho lavorato intorno a questa ipotesi, riscontrando interessanti e inattese disponibilità verso il progetto.
Poi c’è il problema delle risorse. Al riguardo sono ottimista. Negli ultimi tempi, sia prima che cadesse il governo ma anche dopo, nel sistema degli interessi e in particolare degli interessi organizzati, ho cominciato a riscontrare una disponibilità che nel passato non c’era. Di fronte all’idea che nasca un soggetto nuovo, in molti si sono dichiarati disponibili a sostenere l’iniziativa.
Poi ci vogliono gli strumenti. E qui bisogna fare una discussione - e credo che oggi sia l’occasione giusta – su quale strumento organizzativo scegliere.
Oggi è difficile riesumare i partiti “pesanti” della Prima Repubblica, ed è giusto che sia così, anche se di quei partiti forse bisogna recuperare qualche cosa. Sicuramente le modalità democratiche di scelta e discussione al proprio interno. Il web è sicuramente uno strumento fondamentale per pianificare in maniera diversa l’organizzazione politica.
E poi c’è venuta un‘idea che credo sia molto importante sia in termini di comunicazione, sia in termini di selezione e amalgama della squadra di cui abbiamo parlato prima: provare a costituire subito dopo le elezioni un governo ombra. E’ un’idea che ho trovato molto interessante, che riprende la tradizione anglosassone, e che vedo come una straordinaria occasione in questo anno di tempo che abbiamo davanti per costruire questo nuovo soggetto e per cominciare a comunicare in maniera significativa al Paese. Forse potrebbe essere la strada giusta per uscire dalla condizione carbonara e minoritaria che ci ha contraddistinto necessariamente fino ad ora, e passare a una fase molto più impegnativa.
Spero che la mia proposta vi piaccia e che in qualche modo aiuti a superare la frustrazione di non partecipare a questa tornata elettorale. Ma credo che ridurre tutto semplicemente alla pura testimonianza, provandoci, quando le condizioni effettivamente non ci sono, sia un velleitarismo che non deve appartenere a gente che ha l’ambizione di pensare di governare il Paese.
Mentre spero che l’opportunità di cui vi ho parlato finora, di costruire una nuova forza che provi a testare la sua capacità di giocare la partita elettorale, sia l’occasione giusta per dare una prospettiva nuova per Società Aperta e per tentare di dare anche una risposta ai problemi drammatici del nostro Paese.
Intervento conclusivo di Enrico Cisnetto
Alla luce delle considerazioni da me fatte stamattina e degli interventi dei partecipanti, è chiaro che lo scenario politico che si presenta ai nostri occhi non lascia ben sperare. L’unica previsione che si può fare è quella di una legislatura destinata a durare poco, forse anche meno di quella appena trascorsa, dato che da questo bipartitismo, così come si sta delineando, non potrà mai nascere qualcosa di positivo. Sicuramente Società Aperta deve compiere un importante salto di qualità. Da movimento politico di opinione, luogo di analisi e fucina di proposte, quale si è configurato negli ultimi anni, deve diventare partito, ispirato alla logica del cantiere aperto. Adesso Società Aperta si da un obiettivo diverso. A partire dalla scelta del nome, che come emerso dagli interventi che abbiamo appena ascoltato, può diventare “Società Aperta - Costituente per l’Italia e per l’Europa”.
Reputo molto importante per il perseguimento dei nostri fini, la costituzione di un governo ombra. Al riguardo occorre fare molto. Innanzitutto mettendo in rete e condividendo tutto ciò che esiste già, definire meglio il ruolo dei membri di Società Aperta.
Ovviamente per ogni appartenente al movimento, tutto questo comporterà un maggiore impegno e una crescita delle responsabilità. Subito dopo le elezioni, con l’inizio della prossima legislatura renderemo pubblico il risultato di questa Assemblea e lanceremo immediatamente la nuova strategia di Società Aperta. Nel frattempo buon lavoro a tutti. Roma, 9 marzo 2008
Sono passati 15 anni dall’inizio della Seconda Repubblica, una stagione politica che abbiamo indicato come da superare fin dalla sua nascita. E ci ritroviamo, in prossimità delle prossime elezioni del 13 e 14 aprile, nella peggiore delle condizioni possibili per quanto riguarda lo stato di salute del Paese, dovuto ad una serie di fattori che in questi anni abbiamo via via denunciato, prendendoci anche la patente di menagrami.
I nostri tentativi di fronte alla necessità di fermare la deriva dell’economia italiana, sono stati inascoltati. Ma basterebbe vedere il grafico della curva del prodotto interno lordo per capire che l’economia italiana è in una fase di profondo declino, lento e inesorabile, a cui nessuno ha saputo finora porre un freno.
Per non parlare poi del degrado socio ambientale. La spazzatura di Napoli è il “nostro 11 settembre”, una condizione drammatica che come al solito resta insoluta. Mi sarei aspettato in questa campagna elettorale un’iniziativa comune di Veltroni e Berlusconi che avesse il significato di un’assunzione di responsabilità e di ricerca della soluzione del problema. Così non è stato e credo proprio di poter immaginare che, visti i toni di queste ultime ore, non succederà niente del genere.
Abbiamo ormai ben presente la decadenza morale e culturale del nostro Paese. La percezione è quella di un’Italia depressa, senza nerbo, che non ha traguardi e che non guarda al futuro, ma con la testa costantemente girata al passato. Per non parlare poi del senso di marginalità internazionale del Paese che si prova anche soltanto andando a fare i turisti all’estero.
Denunciamo ancora una volta il degrado della giustizia civile e penale, di cui Davide Giacalone ha scritto in questi anni sia in termini di analisi che di proposte, restando regolarmente inascoltato dalla politica, dalla società civile e dagli intellettuali.
v Denunciamo il fallimento del sistema politico e di quello istituzionale. Direi che siamo nel pieno della crisi della democrazia stessa visto che siamo di fronte a un regime oligarchico populista dove nessuno decide, dove vige come elemento caratterizzante e fondante la deresponsabilizzazione.
E’ in questo stato di salute che il Paese si avvia a queste elezioni, sapendo che nel frattempo sono cadute tutte le grandi illusioni coltivate negli ultimi 15 anni:
L’illusione di poter fare a meno della politica, nata nel ‘92-’94. L’idea che di fronte alla corruzione la soluzione fosse fare a meno dei partiti e delle procedure democratiche, l’illusione di doverci affidare a leader mediatici, l’uomo solo al comando, l’Unto del Signore, che quella selezione darwiniana che bene o male con tutte le contraddizioni aveva caratterizzato l’Italia repubblicana dal dopoguerra in poi dovesse essere messa da parte e lasciar spazio appunto all’emergere di figure carismatiche nuove, che in sè avrebbero racchiuso gli strumenti della soluzione dei problemi. Abbiamo visto che è stato esattamente il contrario.
L’illusione della semplificazione maggioritaria. Ci siamo ubriacati di quell’idea e ci siamo affidati a quella semplificazione come se fosse stata la panacea di tutti i mali, ma ci ha portato semplicemente alla moltiplicazione dei partiti e dei soggetti politici, alla moltiplicazione dei diritti di veto, creando quella deresponsabilizzazione del sistema politico e di bipolarismo armato che è stato così distruttivo in questi quindici anni.
L’illusione che il decentramento dei poteri potesse sanare lo scarto nel rapporto tra i cittadini e la politica. Abbiamo costruito un sistema che potremmo chiamare federalista ma che in realtà è semplicemente un localismo esasperato che non ha affatto risolto i problemi, ma ne ha invece creati di nuovi con un sistema in cui si sono moltiplicati i costi, le funzioni, aumentando ulteriormente i diritti di veto. Per cui un comune qualunque ora può bloccare un’iniziativa infrastrutturale o di dotazione energetica che interessa tutto il Paese, creando una distorsione che oggi è difficile riuscire a smontare.
L’illusione del pensiero unico dei liberisti scolastici, dell’onnipotenza del dio mercato. Discussione che oggi si ripropone di nuovo. Penso a quell’iniziativa che facemmo qualche anno fa in cui ci interrogammo sul dilemma se ci voleva più Stato e meno mercato, o meno Stato e più mercato, arrivando alla conclusione che ci voleva più Stato e più mercato, intendendo per più Stato non la presenza proprietaria dello Stato nell’economia, ma la capacità di assumersi responsabilità, di dare risposte alle questioni economiche, costruendo una politica industriale ed economica che consentisse al mondo privato di agire all’interno di un quadro di scelte condivise. Occorreva quindi coniugare al “più mercato” una maggiore capacità della politica di fare delle scelte, dovendo prendere atto che siamo di fronte a una situazione in cui regnano globalizzazione, rivoluzione tecnologica, finanziarizzazione dell’economia, fine dell’assetto geopolitico che si era stabilito a Yalta con la caduta dei Muro di Berlino nell’89 e la fine del Comunismo organizzato. Questi fenomeni hanno cambiato la faccia del mondo, che si è riposizionato lungo l’asse Asia-Stati Uniti. Da allora l’Europa ha vissuto, e per certi versi vive ancora, un momento di grande difficoltà: tutto questo prima lo abbiamo ignorato, e poi abbiamo pensato che si potesse esorcizzare magari muovendo guerra alla Cina, mentre le cose sono decisamente più complicate. Torna di nuovo l’illusione di poter banalizzare la complessità, probabilmente il concetto riassuntivo di questa grande stagione di illusioni cadute.
Arriviamo ora, quindici anni dopo, in un momento elettorale con queste questioni irrisolte e accumulate sulle spalle, questo vuoto pneumatico senza alcun progetto per il futuro. E quando parlo di “crisi italiana” intendo la specificità nostrana che va ben oltre la dimensione congiunturale, che non ha nulla a che fare con la crisi finanziaria in questo momento in atto nello scenario mondiale e con l’ipotesi di una recessione americana. Tutte cose che – come l’11 settembre – sono state oggetto di una manipolazione, allo scopo di creare l’alibi dell’impotenza di governo del domani, e questo la dice lunga su come ci si prepara a governare il Paese dopo le elezioni.
Queste elezioni non sono per nulla la risposta alla crisi italiana. Perché le affrontiamo con un sistema elettorale pessimo, in cui manca totalmente la possibilità di scelta. Io non sono tra quelli che amavano il sistema del voto di preferenza, che ha avuto comunque gravi distorsioni, ma sicuramente impallidisco di fronte alla situazione che abbiamo davanti agli occhi in questi giorni, dove nel chiuso delle segreterie qualcuno decide chi rappresenterà gli italiani in parlamento, con un mercato delle vacche assolutamente inaccettabile.
Se le liste sono fatte con il metodo medievale per cui i propri valvassori e valvassini hanno la precedenza, o con la logica dell’attenzione dei media a questo o quel personaggio, è chiaro che la classe dirigente, il Parlamento sarà riempito domani da letterine della tv o personaggi di altra natura, che nulla hanno a che fare con la capacità della politica di fare delle scelte, di dare delle risposte ai problemi. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente se i partiti sono degli strumenti non democratici, se sono i figli di primarie all’amatriciana, che votano un segretario prima ancora che il partito esista, e che basta passare in un luogo, mettere un euro dentro un cestino e si rimedia il diritto di esprimere quel voto? Oppure se i partiti nascono in una piazza e esprimono il proprio programma attraverso un referendum che si svolge nei gazebo?
A questo proposito, voglio leggervi cosa ha scritto in un articolo Davide Giacalone: “I partiti politici non sono più partiti, ma contenitori entro i quali si cercano di raccogliere i consensi che il capo cerca di calamitare. I gruppi dirigenti sono la somma di storie diverse, con il comune bisogno di trovare un tetto sotto cui svernare. I capi non sono quelli che prevalgono perché portatori di un’idea condivisa dal corpo del partito, dal mondo, dagli interessi che lo circondano, ma personalità che si appellano per esaurimento delle precedenti, o permanenti per mancanza di ricambio. L’insieme di queste debolezze ha la forza di scegliere chi sarà eletto in Parlamento, con la logica dell’autoconservazione, non solo non avverte il bisogno di aprire le porte, ma cerca di serrare anche le finestre, mandando avanti famiglie e famigliari. Non ero un estimatore delle preferenze, ma quel sistema consentiva un continuo interscambio tra il Palazzo e la Piazza, e scaricava sui partiti la responsabilità di non chiudersi nel primo e di non appiattirsi sulla seconda. Dopo l’abbattimento dei partiti e l’esaltazione della gente, ci si ritrova con un Parlamento di maggiordomi. Un bel capolavoro”. Questo credo riassuma perfettamente la selezione del prossimo parlamento a cui stiamo assistendo. E d’altra parte non ci siamo fatti mancare i leader vecchi e consumati, visto che, per i due grandi partiti, nulla si può dire tranne che siano una novità. Uno si presenta per la prima volta a 72 anni, l’altro è nato direttamente iscritto al Pci, è stato vicepresidente del Consiglio con Romano Prodi nel passato ed ha governato malissimo questa città. Le liste sono una pena, ma soprattutto sono una pena i programmi che vengono proposti. Una pena sia in termini di analisi, sia in termini di proposta. Non ho ascoltato nessuno che abbia detto quali siano le condizioni di declino, degrado e decadenza del Paese.
Ho visto soltanto il ping pong tra il “ti tiro via l’Ici” e il “ti do il salario minimo garantito”, tutte idee che hanno a che fare con la distribuzione di un reddito che nel frattempo non si produce più da 15 anni. Si è detto che stiamo assistendo a una campagna elettorale del tutto nuova in cui lo scontro è stato messo da parte a favore del bon ton. A me sembra invece una campagna elettorale old style, in cui il bon ton è stato velocemente abbandonato e la modalità di confronto è quella delle promesse non mantenibili. Veltroni parla di grande rimonta usando i sondaggi esattamente come Berlusconi faceva nel 2006, e scarica le responsabilità su Prodi così come Berlusconi lo fa con Casini e Fini: se tutto questo può essere definito rinnovamento, francamente io credo che diventeremo tutti conservatori.
Siamo di fronte però ad una possibile novità, e cioè che i due partiti grandi, che così tanto si assomigliano non solo nella sigla, ma anche nei comportamenti, svolgano la funzione positiva di spazzare via la gran parte di quello che c’era sul tavolo affollato del sistema politico. La semplificazione, d’altra parte, è una necessità assoluta. E a questo punto quattro, forse cinque, saranno i soggetti rappresentati in Parlamento. Il problema è che questi due partiti per le motivazioni che ho detto prima - non sono partiti democratici, non hanno leader che sappiano guardare al futuro, non hanno elaborato programmi, non parlano un linguaggio di verità al Paese - non sono nella condizione di aprire la stagione della Terza Repubblica. Hanno la funzione meritoria, concediamogli questo, di chiudere la Seconda, ma non certamente possono essere nella condizione di aprire la Terza ed uscire finalmente da questa stagione perché il Paese non più permettersi di perdere ulteriore tempo nell’approntare politiche che blocchino il declino, che affrontino il degrado e la decadenza.
Per aprire alla Terza Repubblica occorre un soggetto nuovo, e qui entra in gioco Società Aperta. Ovviamente, per tutto quello che ho detto finora, Società Aperta, il 13 e 14 aprile rimarrà fuori dalla competizione elettorale. Un comportamento che se da un lato ci riempie di orgoglio, in quanto significa che non abbiamo ceduto a nessuna delle lusinghe arrivate da più parti, dall’altra parte è motivo di frustrazione. Come trasformare l’impegno di Società Aperta nell’analisi e nell’elaborazione di proposte, in una iniziativa politica concreta?
Francamente, in questo momento, non ci sono le condizioni per partecipare a questa battaglia elettorale, quantomeno come soggetto collettivo. Il PD, a cui qualcuno di noi aveva guardato con interesse, ha fatto delle scelte molto discutibili, come l’aggancio con Di Pietro e con il suo giustizialismo (che secondo me pagherà caro, se non in termini elettorali certamente in termini politici); i rapporti con Veltroni erano fitti, lui sapeva perfettamente delle iniziative portate avanti da Società Aperta, aveva mostrato interesse per l’idea di Assemblea Costituente, ma da Veltroni non è venuta nessuna sollecitazione, forse perché noi siamo considerati come dei portatori di idee e non dei blocchi di voto. Neppure dal Popolo della Libertà è venuta nessuna sollecitazione.
Al momento non so se qualcuno di noi accetterà di entrare nelle liste del Pdl o del Pd. Certo è che se così sarà ne saremo felici e cercheremo, nei limiti del possibile, di dare una mano. Certamente avere qualcuno dei nostri amici in Parlamento sarà utile e io stesso, in alcune circostanze, mi sono adoperato perché alcuni amici potessero avere delle chance. Ma questo attiene alle scelte personali di ognuno ed è certo altra cosa rispetto a una scelta collettiva.
Poi c’è il caso della Rosa Bianca e dell’Udc che merita un minimo di storia da raccontare. La nostra è sempre stata una posizione terzista e nel momento in cui Bruno Tabacci ha deciso di correre da solo - lui che è sempre stato un interlocutore di Società Aperta e un esponente politico incontrato sulla nostra strada in questi anni, condividendone reciprocamente le posizioni - abbiamo provato a ragionare sulle reali condizioni di un’operazione terzista, così come l’avevamo immaginata, per esempio in occasione delle elezioni del 2006 ma, francamente, per i tempi e per i modi in cui è stata effettuata la scelta di Tabacci, non ci è sembrato che ci fossero quelle condizioni.
Anzi, abbiamo riscontrato, al contrario, che l’operazione terzista avrebbe rischiato di essere solo un’operazione di testimonianza e che quindi sarebbe stato opportuno avviarci verso un’altra modalità. Il prof. Capaldo condivideva la mia preoccupazione: se era vero che potenzialmente una posizione centrale rispetto ai due grandi partiti poteva valere tra il 10 e 15% dell’elettorato, se qualcuno si fosse esplicitamente candidato a ricoprire quel ruolo e avesse preso lo 0,5 o l’1%, non avrebbe perso solo lui ma avrebbe fatto perdere di credibilità anche il progetto stesso.
Su questa base si era convenuto di fare un’operazione di moral suasion nei confronti di Tabacci ma poi le cose sono andate diversamente. La caratterizzazione della Rosa Bianca è stata fortemente democristiano-cattolica nonostante le personalità che ne sono state protagoniste, in particolare Pezzotta e Tabacci, rappresentino sicuramente la componente più liberale del cattolicesimo italiano, quella più degasperiana. Questa scelta di volersi caratterizzare a tutti i costi verso quella direzione, però, in un momento in cui nel Paese era partito un dibattito sulle questioni etiche che ha rinsaldato il doppio estremismo clericale e laicista su quelle tematiche, era una scelta che noi non potevamo assolutamente condividere. Noi che abbiamo deciso, fin dal primo momento, che il motivo fondante di Società Aperta fosse nella convergenza tra laici e cattolici, nell’idea dell’incontro degasperiano e lamalfiano.
A seguito della decisione dell’Udc di correre da soli, anzi, dopo la scelta di Berlusconi di abbandonare Casini (perché non si può certo definire di Casini la scelta di star fuori), il ricongiungimento con i fratelli da poche settimane allontanatisi dal partito si basava sull’idea di rinserrare le fila del rapporto con la chiesa e il mondo cattolico. Di fronte, però, alla mia obiezione “ma guarda che ci sono i socialisti che rimarranno fuori – e ancora – guarda che nel pulviscolo dei soggetti che gravitano attorno al Pdl, c’è il Partito Repubblicano, che verrà fortemente penalizzato per la perdita di un marchio storico”, la risposta di Tabacci e Casini è stata “non c’è tempo, non ci sono le condizioni, non possiamo fare un’operazione che non sarebbe compresa dall’elettorato, dobbiamo concentrarci sul “core business”, chiamiamolo così, del nostro essere cattolici, del nostro essere scelti dalla chiesa, anzi dobbiamo forzare l’idea che la chiesa scelga noi e non i cattolici che stanno con Berlusconi. Di fronte a questa valutazione, semmai ci fosse stata qualche idea di una partecipazione in nome del terzismo, è chiaro che questa idea sia ora venuta meno.
Nel momento in cui i due grandi partiti si organizzano per passare dal bipolarismo armato dei 50 partiti ad un partitismo secondo me altrettanto coatto, che cambia comunque lo scenario che si va profilando, chi come noi ha fatto un ragionamento sul terzismo non perché si ritenga un centrista - io non mi ritengo tale, non penso che il centrismo sia una scelta politica, quanto piuttosto una collocazione geografico-parlamentare - ma perché riteneva che l’essere terzisti aveva un significato in quel contesto, perché bisognava rompere il meccanismo bipolare, non ci può stare. Soprattutto se quel meccanismo bipolare si è rotto trasferendosi sull’assetto bipartitico di cui abbiamo detto.
Nel momento in cui la geografia politica italiana si ridisegna attorno ai due partiti maggiori, è utile che ci sia un soggetto situato nel mezzo, che eviti tentazioni consociative e che impedisca che il bipartitismo diventi onnivoro. Tutto ciò può portare qualcuno di noi a pensare che il 13 e il 14 aprile sia utile votare l’Udc. Questa è una scelta di tipo personale, non credo sia il caso che questo tipo di indicazione venga da Società Aperta, proprio a seguito dell’analisi più complessiva che abbiamo fatto finora. Se stiamo fuori dobbiamo stare fuori fino in fondo. Ma se per i motivi che abbiamo detto, la scelta è di non partecipare a questa tornata elettorale, naturalmente dobbiamo pensare a cosa fare.
C’è stato un momento, dopo le iniziative che prendemmo a dicembre, in cui diversi partiti erano disponibili ad assumersi la responsabilità di presentare insieme la nostra proposta di legge per la convocazione dell’Assemblea Costituente in Parlamento. Io credo sia utile risollecitare quella disponbilità. Quando sarà finalmente ferma la giostra della presentazione delle liste, chiederemo a tutti i candidati leader di assumersi già in campagna elettorale l’impegno pubblico a sottoscrivere la nostra proposta di legge.
Dopo di che, se l’analisi che abbiamo fatto è corretta, credo che dopo le elezioni si aprirà uno spazio simile a quello che si trovò di fronte Silvio Berlusconi nel 1993, forse addirittura ancora maggiore per certi versi, e il nostro obiettivo deve essere quello di riempire questo spazio.
Fino ad adesso la nostra scelta politica è stata quella di agire su due fronti. Da un alto abbiamo operato all’interno del perimetro della politica, cercando di far incontrare esponenti del centro-destra e del centro-sinistra. Questa strategia è evidentemente finita e non è più replicabile.
Dall’altro abbiamo cercato di individuare nella società civile singole personalità intorno alle quali costruire una nuova condizione politica. Come voi sapete, lungo tutto il corso del 2005 cercammo di convincere Montezemolo a dar vita insieme a Pezzotta a un soggetto nuovo fuori dai due poli di allora, che si presentasse alle elezioni politiche del 2006. Ma come sapete, Montezemolo, dopo un lungo tira e molla, alla fine disse di no. Io credo che quella sia stata per lui e per noi una grossa occasione mancata.
A questo punto la strada che abbiamo di fronte è quella di costruire un nuovo soggetto politico, tutto all’esterno del perimetro della politica. Perché quel sentimento che abbiamo chiamato di antipolitica e che in realtà è di stanchezza, di scoramento e di disorientamento generale, certificato dall’alto numero di indecisi, si aggraverà dopo le elezioni quando ci si accorgerà che non servono a risolvere i problemi della crisi italiana.
E allora io credo che ci sarà una grande disponibilità verso un soggetto nuovo, che si affaccia per la prima sulla scena politica, che ha svolto negli anni un buon lavoro di analisi e di elaborazione programmatica. L’intenzione è di chiudere definitivamente con l’idea di costruire un soggetto intorno alla figura di una persona e di affermare il concetto di “squadra”. Bisogna individuare delle personalità che si siano distinte nel proprio campo fino a raggiungere una meritoria popolarità e che sappiano dare un grosso contributo in termini propositivi all’iniziativa politica che vorrei testare alle elezioni europee del 2009.
Le elezioni europee hanno tre caratteristiche che le rendono adatte:
1. Si vota con il proporzionale puro e con le preferenze, quindi sono elezioni che hanno tecnicamente la condizione migliore rispetto a qualunque altro sistema di voto;
2. Sono elezioni in cui gli italiani hanno dimostrato di saper affrontare con una libertà di voto maggiore rispetto a qualunque altro tipo di elezione politico- amministrativa e in cui il voto d’opinione prevale sul concetto di voto utile o sul voto di scambio;
3. Arrivano dopo un anno da queste elezioni, e credo che questo anno sarà un tempo più che sufficiente per mostrare il fallimento del vincitore, chiunque esso sia.
D’altra parte Società Aperta ha sempre messo gli Stati Uniti d’Europa in cima ai suoi obiettivi, perché la nostra analisi sul declino italiano e sulle difficoltà europee, ci ha portato ad individuare la necessità di una risposta europea nello scenario della globalizzazione. Non si può affrontare la forza dell’Asia con l’individualismo dei singoli paesi europei che non soltanto non sono uniti, ma sono profondamente divisi dalla concorrenza tra di loro. E allo stesso modo, le elezioni europee sono l’appuntamento ideale per provare a costruire e a testare sul mercato del consenso una forza politica nuova che spero riesca a diventare protagonista sullo scenario italiano.
Che nome dare a questa nuova forza politica? Dopo aver chiesto consiglio ad esperti professionisti, quello di Costituente per l’Italia mi è sembrato tra tutte le ipotesi quella più interessante. La parola Costituente da il senso della nostra proposta relativa alla rifondazione del Paese e perché, costituente per quanto riguarda un partito è una modalità che riprende il concetto di società aperta, ossia dello strumento aperto a confrontarsi con la società.
Il nome è, naturalmente, soltanto un punto di inizio. Serve la squadra. In questi ultimi tempi ho lavorato intorno a questa ipotesi, riscontrando interessanti e inattese disponibilità verso il progetto.
Poi c’è il problema delle risorse. Al riguardo sono ottimista. Negli ultimi tempi, sia prima che cadesse il governo ma anche dopo, nel sistema degli interessi e in particolare degli interessi organizzati, ho cominciato a riscontrare una disponibilità che nel passato non c’era. Di fronte all’idea che nasca un soggetto nuovo, in molti si sono dichiarati disponibili a sostenere l’iniziativa.
Poi ci vogliono gli strumenti. E qui bisogna fare una discussione - e credo che oggi sia l’occasione giusta – su quale strumento organizzativo scegliere.
Oggi è difficile riesumare i partiti “pesanti” della Prima Repubblica, ed è giusto che sia così, anche se di quei partiti forse bisogna recuperare qualche cosa. Sicuramente le modalità democratiche di scelta e discussione al proprio interno. Il web è sicuramente uno strumento fondamentale per pianificare in maniera diversa l’organizzazione politica.
E poi c’è venuta un‘idea che credo sia molto importante sia in termini di comunicazione, sia in termini di selezione e amalgama della squadra di cui abbiamo parlato prima: provare a costituire subito dopo le elezioni un governo ombra. E’ un’idea che ho trovato molto interessante, che riprende la tradizione anglosassone, e che vedo come una straordinaria occasione in questo anno di tempo che abbiamo davanti per costruire questo nuovo soggetto e per cominciare a comunicare in maniera significativa al Paese. Forse potrebbe essere la strada giusta per uscire dalla condizione carbonara e minoritaria che ci ha contraddistinto necessariamente fino ad ora, e passare a una fase molto più impegnativa.
Spero che la mia proposta vi piaccia e che in qualche modo aiuti a superare la frustrazione di non partecipare a questa tornata elettorale. Ma credo che ridurre tutto semplicemente alla pura testimonianza, provandoci, quando le condizioni effettivamente non ci sono, sia un velleitarismo che non deve appartenere a gente che ha l’ambizione di pensare di governare il Paese.
Mentre spero che l’opportunità di cui vi ho parlato finora, di costruire una nuova forza che provi a testare la sua capacità di giocare la partita elettorale, sia l’occasione giusta per dare una prospettiva nuova per Società Aperta e per tentare di dare anche una risposta ai problemi drammatici del nostro Paese.
Intervento conclusivo di Enrico Cisnetto
Alla luce delle considerazioni da me fatte stamattina e degli interventi dei partecipanti, è chiaro che lo scenario politico che si presenta ai nostri occhi non lascia ben sperare. L’unica previsione che si può fare è quella di una legislatura destinata a durare poco, forse anche meno di quella appena trascorsa, dato che da questo bipartitismo, così come si sta delineando, non potrà mai nascere qualcosa di positivo. Sicuramente Società Aperta deve compiere un importante salto di qualità. Da movimento politico di opinione, luogo di analisi e fucina di proposte, quale si è configurato negli ultimi anni, deve diventare partito, ispirato alla logica del cantiere aperto. Adesso Società Aperta si da un obiettivo diverso. A partire dalla scelta del nome, che come emerso dagli interventi che abbiamo appena ascoltato, può diventare “Società Aperta - Costituente per l’Italia e per l’Europa”.
Reputo molto importante per il perseguimento dei nostri fini, la costituzione di un governo ombra. Al riguardo occorre fare molto. Innanzitutto mettendo in rete e condividendo tutto ciò che esiste già, definire meglio il ruolo dei membri di Società Aperta.
Ovviamente per ogni appartenente al movimento, tutto questo comporterà un maggiore impegno e una crescita delle responsabilità. Subito dopo le elezioni, con l’inizio della prossima legislatura renderemo pubblico il risultato di questa Assemblea e lanceremo immediatamente la nuova strategia di Società Aperta. Nel frattempo buon lavoro a tutti. Roma, 9 marzo 2008
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.