Non solo Bankitalia
Le banche e lo Stato
Mentre tedeschi, francesi, inglesi salvavano le loro banche con i soldi dello Stato, noi salvavamo lo Stato con i soldi di banche e assicurazionidi Davide Giacalone - 20 dicembre 2013
Il test che deve veramente preoccuparci non è quello cui saranno sottoposte le banche italiane, da parte della vigilanza europea, ma quello cui è sottoposta, anche in queste ore, la capacità di difenderci da chi è pronto ad appropriarsi della nostra ricchezza. Al vertice europeo di oggi non è in discussione solo l’unione bancaria, che è nel comune e nostro interesse realizzare, ma l’esistenza stessa dei beni italiani. Con la pessima vicenda di Telecom Italia, e con l’ancora peggiore gestione della rivalutazione di Banca d’Italia, abbiamo mandato segnali di totale cedimento, mostrandoci pronti a perdere partite decisive. Se non si reagisce parte l’arrembaggio, di cui è anticamera anche il declassamento di Generali, da parte di Standard & Poor’s. Il governo italiano, con una lettera del ministro dell’economia, ha manifestato il proprio dissenso rispetto all’impostazione tedesca. Bene. Ma si deve essere capaci di farne comprendere i vasti confini politici ed economici, niente affatto limitata a una singola questione.
Non si creda che siano faccende per addetti ai lavori. E’ una partita assai più decisiva delle cose politiciste di cui tutti parlano e straparlano. Il punto falsamente tecnico, ma squisitamente politico, è come valutare i titoli del debito pubblico che si trovano nei portafogli di banche e assicurazioni: se li si considera privi di rischio, le nostre istituzioni finanziarie hanno bisogno di ricapitalizzarsi (che le proprietà o il mercato investano aumentando il loro capitale), ma in misura accettabile e praticabile; se li si considera a rischio e, per giunta, a rischio differenziato a seconda del Paese europeo che li emette, allora non c’è salvezza, ma solo una trappola nella quale si viene prima bloccati e poi spolpati.
Francesco Giavazzi ha osservato: una cosa sono i titoli negoziati ogni giorno, che hanno prezzo variabile, altra quelli che si tengono in attesa della loro scadenza, nel qual caso deve valere il valore garantito dallo Stato emittente. Giusto. Purtroppo c’è il decreto del 7 dicembre 2012, con cui si recepiscono le regole Esm (il meccanismo di stabilità europea), nel quale si stabilisce che, a partire dal primo gennaio 2013, lo Stato, ove sia in difficoltà, potrà rinegoziare il valore dei titoli emessi (norme CACs). Allora il governo (Monti) negoziò ed accettò l’idea che i titoli di Stato non siano sicuri. Il richiamo a quel decreto si trova in tutti i titoli emessi successivamente.
In realtà i nostri titoli non sono mai stati a rischio. Mai. Nel 2011 e nel 2012 abbiamo subito un’aggressione violentissima, a fronte della quale non solo non reagì l’Unione di cui facciamo parte (solo successivamente la Banca centrale europea varò le misure che arginarono le orde speculative), ma neanche reagì la classe dirigente italiana, approfittandone per regolare conti interni e promuovere qualche esecutore di ordini e servitore d’interessi altrui. Pur colpiti micidialmente, siamo stati capaci di resistere, a caro prezzo: a. il nostro debito pubblico è cresciuto assai meno di quello altrui, talché partivamo (per nostra colpa) in condizione patologica e ci troviamo in condizione fisiologica; b. abbiamo mantenuto gli avanzi primari, con i quali abbiamo pagato parte degli interessi (esosissimi), mentre gli altri, come i tedeschi, contraevano nuovi debiti; c. abbiamo di fatto nazionalizzato il debito pubblico (i conti fatti da Marco Fortis sono inesorabili). Ciò è decisivo: negli ultimi tre o quattro anni flussi d’investimento in titoli del debito pubblico hanno lasciato l’Italia e si sono dirette verso la Germania e la Francia (e altri). L’aggressione che subimmo ha portato ricchezza altrove. Il risultato, però, è che oggi abbiamo un debito pubblico di cui solo il 30% è detenuto da investitori esteri (dato della Banca d’Italia, cui va sommato il 5 nell’eurosistema e, se si vuole, il 5.2 detenuto da fondi esteri, ma riconducibili a italiani).
Per ottenere questo risultato è successo che i fondi messi a disposizione delle banche, dalla Bce, sono andati al debito pubblico. Potremmo dirla in questo modo: mentre tedeschi, francesi, inglesi e altri salvavano le loro banche con i soldi dello Stato, noi salvavamo lo Stato con i soldi della banche e delle assicurazioni. Ma aggiungendo un dettaglio: i soldi degli stati altrui erano in parte finanziati dalla fuga dei capitali dall’Italia, dovuta all’aggressione subita, nonché dal denaro liquido che abbiamo versato nel fondo per gli aiuti a chi era in difficoltà, quindi salvando le banche tedesche, che ne avevano acquistato i titoli. Più i soldi prestati ai greci, che agli italiani costano, mentre ai tedeschi rendono. Chiaro?
Se, ora, ci si viene a dire che i titoli pubblici nei portafogli di banche e assicurazioni non sono sicuri, anche in assenza di un ricorso all’Esm, vuol dire che dall’aggressione si passa al pestaggio e dal pestaggio all’esproprio di banche, assicurazioni, aziende, ricchezza. Il tutto mentre i tedeschi pretendono che le loro Landesbank (centri di potere bancario governati dalla politica) restino fuori dalla vigilanza Bce.
Ripeto: i segnali che abbiamo mandato in giro sono estremamente controproducenti, ma se nessuno s’accorge del rischio, se lo si tace ai cittadini, se si fa finta che sia una questione contabile e se non si reagisce, allora finisce come “colui del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto”. C’è una sola risposta che il capo del governo italiano può dare, a questa roba, già oggi: no.
Non si creda che siano faccende per addetti ai lavori. E’ una partita assai più decisiva delle cose politiciste di cui tutti parlano e straparlano. Il punto falsamente tecnico, ma squisitamente politico, è come valutare i titoli del debito pubblico che si trovano nei portafogli di banche e assicurazioni: se li si considera privi di rischio, le nostre istituzioni finanziarie hanno bisogno di ricapitalizzarsi (che le proprietà o il mercato investano aumentando il loro capitale), ma in misura accettabile e praticabile; se li si considera a rischio e, per giunta, a rischio differenziato a seconda del Paese europeo che li emette, allora non c’è salvezza, ma solo una trappola nella quale si viene prima bloccati e poi spolpati.
Francesco Giavazzi ha osservato: una cosa sono i titoli negoziati ogni giorno, che hanno prezzo variabile, altra quelli che si tengono in attesa della loro scadenza, nel qual caso deve valere il valore garantito dallo Stato emittente. Giusto. Purtroppo c’è il decreto del 7 dicembre 2012, con cui si recepiscono le regole Esm (il meccanismo di stabilità europea), nel quale si stabilisce che, a partire dal primo gennaio 2013, lo Stato, ove sia in difficoltà, potrà rinegoziare il valore dei titoli emessi (norme CACs). Allora il governo (Monti) negoziò ed accettò l’idea che i titoli di Stato non siano sicuri. Il richiamo a quel decreto si trova in tutti i titoli emessi successivamente.
In realtà i nostri titoli non sono mai stati a rischio. Mai. Nel 2011 e nel 2012 abbiamo subito un’aggressione violentissima, a fronte della quale non solo non reagì l’Unione di cui facciamo parte (solo successivamente la Banca centrale europea varò le misure che arginarono le orde speculative), ma neanche reagì la classe dirigente italiana, approfittandone per regolare conti interni e promuovere qualche esecutore di ordini e servitore d’interessi altrui. Pur colpiti micidialmente, siamo stati capaci di resistere, a caro prezzo: a. il nostro debito pubblico è cresciuto assai meno di quello altrui, talché partivamo (per nostra colpa) in condizione patologica e ci troviamo in condizione fisiologica; b. abbiamo mantenuto gli avanzi primari, con i quali abbiamo pagato parte degli interessi (esosissimi), mentre gli altri, come i tedeschi, contraevano nuovi debiti; c. abbiamo di fatto nazionalizzato il debito pubblico (i conti fatti da Marco Fortis sono inesorabili). Ciò è decisivo: negli ultimi tre o quattro anni flussi d’investimento in titoli del debito pubblico hanno lasciato l’Italia e si sono dirette verso la Germania e la Francia (e altri). L’aggressione che subimmo ha portato ricchezza altrove. Il risultato, però, è che oggi abbiamo un debito pubblico di cui solo il 30% è detenuto da investitori esteri (dato della Banca d’Italia, cui va sommato il 5 nell’eurosistema e, se si vuole, il 5.2 detenuto da fondi esteri, ma riconducibili a italiani).
Per ottenere questo risultato è successo che i fondi messi a disposizione delle banche, dalla Bce, sono andati al debito pubblico. Potremmo dirla in questo modo: mentre tedeschi, francesi, inglesi e altri salvavano le loro banche con i soldi dello Stato, noi salvavamo lo Stato con i soldi della banche e delle assicurazioni. Ma aggiungendo un dettaglio: i soldi degli stati altrui erano in parte finanziati dalla fuga dei capitali dall’Italia, dovuta all’aggressione subita, nonché dal denaro liquido che abbiamo versato nel fondo per gli aiuti a chi era in difficoltà, quindi salvando le banche tedesche, che ne avevano acquistato i titoli. Più i soldi prestati ai greci, che agli italiani costano, mentre ai tedeschi rendono. Chiaro?
Se, ora, ci si viene a dire che i titoli pubblici nei portafogli di banche e assicurazioni non sono sicuri, anche in assenza di un ricorso all’Esm, vuol dire che dall’aggressione si passa al pestaggio e dal pestaggio all’esproprio di banche, assicurazioni, aziende, ricchezza. Il tutto mentre i tedeschi pretendono che le loro Landesbank (centri di potere bancario governati dalla politica) restino fuori dalla vigilanza Bce.
Ripeto: i segnali che abbiamo mandato in giro sono estremamente controproducenti, ma se nessuno s’accorge del rischio, se lo si tace ai cittadini, se si fa finta che sia una questione contabile e se non si reagisce, allora finisce come “colui del colpo non accorto, andava combattendo ed era morto”. C’è una sola risposta che il capo del governo italiano può dare, a questa roba, già oggi: no.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.