Il tormentone protezionista
La vera sfida del made in China
I dazi non risolvono i problemi: parliamo con Pechino di condizioni di lavorodi Davide Giacalone - 19 maggio 2005
Ed ancora si parla di Cina, di dazi, di necessità di proteggere le nostre
imprese tessili. Fortuna che Patrizio Bertelli, amministratore delegato del
Gruppo Prada, si espone a dire qualche cosa di ragionevole: il protezionismo
non serve; gli imprenditori tessili devono delocalizzare e portare la
produzione dove il costo dei fattori produttivi, lavoro compreso, è più
basso; la concorrenza cinese si affronta con idee e prodotti nuovi, non
sperando di azzoppare il competitore con dei dazi; i falsi sono prodotti in
gran parte in Italia, non in Cina. Alla faccia della chiarezza.
Avendo assai meno esperienza specifica di Bertelli, queste sono cose che ripetiamo da tempo. Il protezionismo ha un duplice effetto negativo. Da una parte impedisce ai consumatori di avere merci in quantità abbondante e ad un prezzo inferiore, il che è un danno per i clienti. Dall’altra illude l’imprenditore che si trova su un binario morto di poter continuare a lungo la sua corsa, ottenendo il solo risultato che altre energie, umane e finanziarie, si bruceranno inutilmente (quindi dannosamente).
Poi vi è l’aspetto, non decisivo ma fastidioso, dell’ipocrisia. Perché mai si dovrebbero mettere dei dazi contro i prodotti cinesi, quando, da noi, il commercio dei falsi è libero e tollerato in tutte le piazze, financo fuori dai tribunali e, comunque, nelle vie che circondano il governo ed il Parlamento?
Tutto questo non significa che i prodotti cinesi debbano, sempre e comunque, essere accolti con festose manifestazioni di benvenuto. Sappiamo che alcuni cicli produttivi sono dei veri e propri luoghi di schiavitù, e sappiamo che quella schiavitù non risparmia i bambini. Mettendo i dazi renderemo ancora più inumana la loro condizione, se, invece, diremo chiaro e tondo al governo cinese che proibiremo l’ingresso nel nostro mercato di tutti quei prodotti che si avvantaggiano d’inumanità, avremo lavorato, al tempo stesso, per i diritti umani e per un’economia più sana.
Questa è la sfida che dovremo accettare, con l’orgoglio delle tradizioni liberali del libero occidente: non chiudere i nostri mercati, cercare di trarre profitto dai nuovi che si aprono, essendo capaci di esportare il prezioso valore della libertà e del rispetto. Purtroppo, invece, è capitato di vedere una delegazione di Stato, capitanata dal Presidente della Repubblica, nutrita da molti imprenditori, mettere piede in Cina, far cadere l’embargo relativo alle armi, e mai porre il vero, grande problema che rende la Cina un pericolo. Chi vuol fare il furbo, di solito, finisce che lo fanno fesso.
Avendo assai meno esperienza specifica di Bertelli, queste sono cose che ripetiamo da tempo. Il protezionismo ha un duplice effetto negativo. Da una parte impedisce ai consumatori di avere merci in quantità abbondante e ad un prezzo inferiore, il che è un danno per i clienti. Dall’altra illude l’imprenditore che si trova su un binario morto di poter continuare a lungo la sua corsa, ottenendo il solo risultato che altre energie, umane e finanziarie, si bruceranno inutilmente (quindi dannosamente).
Poi vi è l’aspetto, non decisivo ma fastidioso, dell’ipocrisia. Perché mai si dovrebbero mettere dei dazi contro i prodotti cinesi, quando, da noi, il commercio dei falsi è libero e tollerato in tutte le piazze, financo fuori dai tribunali e, comunque, nelle vie che circondano il governo ed il Parlamento?
Tutto questo non significa che i prodotti cinesi debbano, sempre e comunque, essere accolti con festose manifestazioni di benvenuto. Sappiamo che alcuni cicli produttivi sono dei veri e propri luoghi di schiavitù, e sappiamo che quella schiavitù non risparmia i bambini. Mettendo i dazi renderemo ancora più inumana la loro condizione, se, invece, diremo chiaro e tondo al governo cinese che proibiremo l’ingresso nel nostro mercato di tutti quei prodotti che si avvantaggiano d’inumanità, avremo lavorato, al tempo stesso, per i diritti umani e per un’economia più sana.
Questa è la sfida che dovremo accettare, con l’orgoglio delle tradizioni liberali del libero occidente: non chiudere i nostri mercati, cercare di trarre profitto dai nuovi che si aprono, essendo capaci di esportare il prezioso valore della libertà e del rispetto. Purtroppo, invece, è capitato di vedere una delegazione di Stato, capitanata dal Presidente della Repubblica, nutrita da molti imprenditori, mettere piede in Cina, far cadere l’embargo relativo alle armi, e mai porre il vero, grande problema che rende la Cina un pericolo. Chi vuol fare il furbo, di solito, finisce che lo fanno fesso.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.