La politica ponga fine a una guerra assurda
La spartizione delle briciole
Epopea di Telecom. Come cominciò e come rischia di finire questa storiadi Enrico Cisnetto - 18 settembre 2006
D come debito, d come dynasty (all’italiana). Le radici della clamorosa situazione in cui si è venuta a trovare Telecom in queste ore, affondano in quel lontano gennaio 1999 quando i “capitani coraggiosi” dell’allora premier D’Alema, la “razza padana” di Colaninno e Gnutti, s’imbarcarono nel più clamoroso dei leveraged buy-out che la storia ricordi. In principio c’era il “nucleo stabile” di soci che, grazie ad una privatizzazione iniziata male e finita peggio, controllava il consiglio di amministrazione di Telecom con meno del 7% del capitale. Ovvero il famoso “nocciolino molle” che si squagliò come neve al sole di fronte agli scalatori riuniti nella Bell che lanciarono l’opa del secolo: 100 mila miliardi di lire – poi ne furono effettivamente spesi poco più della metà – presi in prestito dalle banche, alle quali avrebbero dovuto essere restituiti con il “cassa” della stessa Telecom, magari facendone uno “spezzatino”. Peccato che sommando al debito da opa l’esposizione già presente nel trittico Olivetti-Telecom-Tim (fisiologica) e quella derivante da spericolate operazioni ai prezzi viziati dal boom della new economy (da Seat e Tin.it, pagate 6,7 miliardi di euro alle licenze Umts, fino agli 830 milioni di euro per il 30% del portale brasiliano con tre mesi di vita Globo.com), si arrivasse ad un debito consolidato vicino ai 50 miliardi di euro. Il gioco si era dunque fatto troppo pesante perché non ci fosse un passaggio di mano. Qui entra in scena Tronchetti Provera, con Gnutti – che non vedeva l’ora di monetizzare – capace di convincere un riottoso Colaninno a vendere. La scelta per l’acquisizione ricade ancora su una scatola vuota: attraverso Olimpia (di cui Pirelli detiene il 70,5% e Benetton il 10%), acquisisce il 18% di Telecom Italia, rilevando titoli Olivetti, la controllante dove erano parcheggiati i debiti, già allora al di sopra della media europea delle società di tlc. Tronchetti fa pulizia nei conti: svaluta partecipazioni per 13,4 miliardi e vende, vende più che può. Tanto che negli anni successivi, l’indebitamento arriva a scendere fino ai 29,5 miliardi di fine 2004. A quel punto però diventa prioritario accorciare la catena di controllo (fusione Olivetti-Telecom), mentre siamo arrivati nell’era della convergenza. E allora ecco che ai piani alti di Telecom si decide di procedere alla fusione della casa-madre con il gioiellino Tim, il gestore di telefonia mobile con trenta milioni di clienti e quasi tredici miliardi di fatturato. I maligni dicono che di strategico questa fusione non ha proprio nulla, e che risponde soltanto alla necessità impellente di aumentare il cash flow di Telecom per far fronte ai debiti. Telecom lancia l’opa su Tim, che gli costa quasi 14 miliardi, e l’indebitamento della capogruppo s’impenna a 46,7 miliardi, cifra astronomica che Tronchetti s’impegna a ridurre a 33 entro il 2007.
Arriviamo a oggi: Gnutti, nel frattempo rientrato con Hopa nella partita, e le banche socie (Unicredit e Banca Intesa) escono da Olimpia. A questo punto il debito di Telecom ammonta a 41,3 miliardi, cui bisogna aggiungere i 3,1 miliardi (saranno 2,9 a fine anno) di Olimpia e il miliardo e mezzo di Pirelli. Esso è stato efficacemente riconvertito: circa il 70% è a tasso fisso e con scadenza media a 8 anni. Ma, certo, la società ha emesso anche prestiti obbligazionari per 34 miliardi (il primo dei quali, di 3 miliardi, ha come data di rimborso l’ottobre 2007), e soprattutto il titolo è sceso fino a 2,2 euro, mentre Pirelli in Olimpia ha in carico le azioni a 4,3 e quindi occorrerà svalutare (si ipotizza una riduzione a 3 euro, che il che comporterebbe una svalutazione contabile del patrimonio netto di Pirelli &C. di un paio di miliardi). Tuttavia, si tratta di situazioni finanziariamente sostenibili, il vero problema è la pressione politica che si avverte su una società strategica anche per le tv che possiede e per le presenze in Rcs e in altri punti nevralgici del sistema (per esempio Capitalia).
Tronchetti decide allora di cambiare ancora una volta strategia, dandosi tre opzioni. Da un lato, tratta con Murdoch per un’entrata di Sky nella Telecom. Ma imbarcare NewsCorp come socio è un’operazione non facile per due tipi, come Tronchetti e il magnate australiano, abituati a comandare a casa loro. Difatti la trattativa rimane sul piano di un’eventuale joint-venture sui contenuti con cui riempire il digitale Telecom, di cui la cessione dei diritti di library da parte della Fox (di proprietà di NewsCorp) ad Alice è il primo concreto risultato. Questo rafforza il progetto di trasformare Telecom in una media company, la via giusta per sfruttare le potenzialità di una banda larga che è il vero business del futuro, e attraverso la quale già oggi è possibile avere un’offerta tv assolutamente concorrenziale al digitale terrestre e al satellite, anche se bisognerà vedere con quale velocità il mercato si svilupperà. Cosa industrialmente intelligente, ma che non sana il debito, anzi richiede ulteriori investimenti. Ma l’11 settembre – data infausta, si sa – Telecom fa sapere al mercato di aver deciso di scorporare la telefonia mobile e l’infrastruttura della rete fissa. Scorporare per vendere, ovvio, anche se non lo si dice. E qui scoppia il bubbone: Prodi rimprovera Tronchetti di non avergli fatto sapere nulla (di Tim), e Tronchetti per tutta risposta fa circolare un’ipotesi di riassetto della rete telefonica fattogli avere da Rovati, consigliere del premier (probabilmente via Goldman Sachs). Poi si dimette, “per salvaguardare l’azienda” di fronte ad uno scontro che si è fatto cruento. Ecco, l’azienda. In questo bailamme, se c’è una cosa che sembra interessi a pochi è proprio Telecom Italia. Il capitalismo italiano e la politica vanno a farsi guerra vicendevolmente con il concorso esterno delle banche (visto che sono i banchieri più vicini a Prodi ad aver messo sotto pressione Tronchetti), ma del fatto che questa guerra serva per spartirsi il controllo soltanto delle briciole di grande industria che ancora ci sono rimaste, pochi paiono consapevoli. Eppure, se solo per un attimo si smettesse di giocare alla merchant bank di periferia, lo spazio per ragionare in termini industriali ci potrebbe anche essere: cedere la New Tim sarebbe facile, ma rappresenterebbe una castrazione sia per il gruppo Telecom (fisso e mobile sono sempre più integrati) sia per il già gracile capitalismo italiano, che si ritroverebbe quattro gestori stranieri su quattro. Per l’infrastruttura di rete, invece, il discorso si fa necessariamente diverso: intanto concentrare l’accesso alle telecomunicazioni in una società separata è una scelta – anche British Telecom l’ha fatta – che servirebbe a rendere più facile e meno oneroso l’entrate nel business agli altri concorrenti (che ora sono obbligati al roaming). Poi è impensabile che la rete fissa passi ad operatori di altri paesi, non fosse altro per questioni di sicurezza nazionale. Mentre parlare di un riacquisto della rete da parte dello Stato che l’aveva privatizzata – malamente – può sembrare una bestemmia, eventualmente da mettere sul conto (politico e morale) di chi allora pensò solo a far cassa, ma lo è solo fino ad un certo punto. L’idea di far acquisire dalla Cassa Depositi e Prestiti la rete fissa e di integrarla con quelle dell’energia facendo una “rete delle reti” public company a nocciolo duro pubblico, non è affatto un’idea peregrina per un paese che deve ripartire da nuove e più moderne infrastrutture materiali e immateriali. Certo, il problema della valutazione di un asset di questo genere (dai 9 miliardi di valore di libro degli asset ai 25-30 dell’entreprise value del piano Rovati, fino ai 34 di uno studio della Bocconi) rimane. Ma se questa soluzione servisse ad evitare la rinuncia dell’Italia alla telefonia, è bene che la politica – tutta – intervenga, mettendo fine ad una guerra assurda e aprendo con Telecom una trattativa seria e alla luce del sole. Prima che sia troppo tardi.
Pubblicato sul Messaggero del 17 settembre 2006
Arriviamo a oggi: Gnutti, nel frattempo rientrato con Hopa nella partita, e le banche socie (Unicredit e Banca Intesa) escono da Olimpia. A questo punto il debito di Telecom ammonta a 41,3 miliardi, cui bisogna aggiungere i 3,1 miliardi (saranno 2,9 a fine anno) di Olimpia e il miliardo e mezzo di Pirelli. Esso è stato efficacemente riconvertito: circa il 70% è a tasso fisso e con scadenza media a 8 anni. Ma, certo, la società ha emesso anche prestiti obbligazionari per 34 miliardi (il primo dei quali, di 3 miliardi, ha come data di rimborso l’ottobre 2007), e soprattutto il titolo è sceso fino a 2,2 euro, mentre Pirelli in Olimpia ha in carico le azioni a 4,3 e quindi occorrerà svalutare (si ipotizza una riduzione a 3 euro, che il che comporterebbe una svalutazione contabile del patrimonio netto di Pirelli &C. di un paio di miliardi). Tuttavia, si tratta di situazioni finanziariamente sostenibili, il vero problema è la pressione politica che si avverte su una società strategica anche per le tv che possiede e per le presenze in Rcs e in altri punti nevralgici del sistema (per esempio Capitalia).
Tronchetti decide allora di cambiare ancora una volta strategia, dandosi tre opzioni. Da un lato, tratta con Murdoch per un’entrata di Sky nella Telecom. Ma imbarcare NewsCorp come socio è un’operazione non facile per due tipi, come Tronchetti e il magnate australiano, abituati a comandare a casa loro. Difatti la trattativa rimane sul piano di un’eventuale joint-venture sui contenuti con cui riempire il digitale Telecom, di cui la cessione dei diritti di library da parte della Fox (di proprietà di NewsCorp) ad Alice è il primo concreto risultato. Questo rafforza il progetto di trasformare Telecom in una media company, la via giusta per sfruttare le potenzialità di una banda larga che è il vero business del futuro, e attraverso la quale già oggi è possibile avere un’offerta tv assolutamente concorrenziale al digitale terrestre e al satellite, anche se bisognerà vedere con quale velocità il mercato si svilupperà. Cosa industrialmente intelligente, ma che non sana il debito, anzi richiede ulteriori investimenti. Ma l’11 settembre – data infausta, si sa – Telecom fa sapere al mercato di aver deciso di scorporare la telefonia mobile e l’infrastruttura della rete fissa. Scorporare per vendere, ovvio, anche se non lo si dice. E qui scoppia il bubbone: Prodi rimprovera Tronchetti di non avergli fatto sapere nulla (di Tim), e Tronchetti per tutta risposta fa circolare un’ipotesi di riassetto della rete telefonica fattogli avere da Rovati, consigliere del premier (probabilmente via Goldman Sachs). Poi si dimette, “per salvaguardare l’azienda” di fronte ad uno scontro che si è fatto cruento. Ecco, l’azienda. In questo bailamme, se c’è una cosa che sembra interessi a pochi è proprio Telecom Italia. Il capitalismo italiano e la politica vanno a farsi guerra vicendevolmente con il concorso esterno delle banche (visto che sono i banchieri più vicini a Prodi ad aver messo sotto pressione Tronchetti), ma del fatto che questa guerra serva per spartirsi il controllo soltanto delle briciole di grande industria che ancora ci sono rimaste, pochi paiono consapevoli. Eppure, se solo per un attimo si smettesse di giocare alla merchant bank di periferia, lo spazio per ragionare in termini industriali ci potrebbe anche essere: cedere la New Tim sarebbe facile, ma rappresenterebbe una castrazione sia per il gruppo Telecom (fisso e mobile sono sempre più integrati) sia per il già gracile capitalismo italiano, che si ritroverebbe quattro gestori stranieri su quattro. Per l’infrastruttura di rete, invece, il discorso si fa necessariamente diverso: intanto concentrare l’accesso alle telecomunicazioni in una società separata è una scelta – anche British Telecom l’ha fatta – che servirebbe a rendere più facile e meno oneroso l’entrate nel business agli altri concorrenti (che ora sono obbligati al roaming). Poi è impensabile che la rete fissa passi ad operatori di altri paesi, non fosse altro per questioni di sicurezza nazionale. Mentre parlare di un riacquisto della rete da parte dello Stato che l’aveva privatizzata – malamente – può sembrare una bestemmia, eventualmente da mettere sul conto (politico e morale) di chi allora pensò solo a far cassa, ma lo è solo fino ad un certo punto. L’idea di far acquisire dalla Cassa Depositi e Prestiti la rete fissa e di integrarla con quelle dell’energia facendo una “rete delle reti” public company a nocciolo duro pubblico, non è affatto un’idea peregrina per un paese che deve ripartire da nuove e più moderne infrastrutture materiali e immateriali. Certo, il problema della valutazione di un asset di questo genere (dai 9 miliardi di valore di libro degli asset ai 25-30 dell’entreprise value del piano Rovati, fino ai 34 di uno studio della Bocconi) rimane. Ma se questa soluzione servisse ad evitare la rinuncia dell’Italia alla telefonia, è bene che la politica – tutta – intervenga, mettendo fine ad una guerra assurda e aprendo con Telecom una trattativa seria e alla luce del sole. Prima che sia troppo tardi.
Pubblicato sul Messaggero del 17 settembre 2006
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.