Bisogna saper scegliere e mediare tra interessi
La politica riacquisti centralità
Cdl e Ulivo scaricano le proprie colpe sui poteri forti. E intanto il declino ci sfiancadi Enrico Cisnetto - 17 giugno 2005
C’è un nesso diretto tra le reazioni alla relazione di Luca Cordero di Montezemolo all’ultima assise di Confindustria e il “siparietto” cui ho personalmente assistito all’assemblea della Confartigianato di mercoledì tra il presidente Giorgio Guerrini e il presidente del Consiglio. Nel primo caso dal mondo politico – anche dalle sponde dell’opposizione, specie quelle più vicine a Massimo D’Alema – è partita l’accusa di non aver fatto autocritica. In sostanza: voi imprenditori dite che c’è il declino – e fin qui va bene al centro-sinistra ma non al centro-destra – e invece di prendervi la vostra parte di responsabilità, siete capaci solo di inveire contro il governo e la politica. Nel secondo caso, il premier, dopo aver ascoltato sempre più paonazzo un’arringa al popolo degli artigiani che metteva palazzo Chigi sul banco degli accusati, e irritato dagli applausi a Guerrini e i fischi a lui, è saltato sul palco per rispedire al mittente le accuse, certificando così – e per il Cavaliere in perenne campagna elettorale non è stata una gran furbata – il distacco suo e del governo dal mondo degli imprenditori, che siano quelli col gessato di Confindustria o quelli con la Lacoste di Confartigianato. Distacco che ha poi trovato nella stessa serata di mercoledì la certificazione con il rinvio sull’Irap (secondo me premeditato da parte di Berlusconi, che continua a preferire, per ragioni puramente elettorali, un intervento sull’Irpef).
Ma al di là delle situazioni contingenti, tra i due fatti e il loro significato più profondo c’è una relazione decisamente strutturale. Voglio dire che essi sono la palese dimostrazione della crisi della politica in queste Paese. Da un lato, infatti, ci si adonta perché le confederazioni degli imprenditori fanno i loro interessi e rappresentano le aspettative – necessariamente un po’ corporative – dei loro associati. E dall’altro si grida poi allo scandalo se esse stesse indicano ricette per l’economia, quasi che ciò potesse rappresentare una lesa sovranità della politica. Ora, chi antepone sistematicamente gli interessi personali e di bottega (non dico di partito perché non ci sono più) a quelli generali, dovrebbe per decenza evitare di dare lezioni agli altri. Ma soprattutto, bisognerebbe capire che non è rimproverando la presunta invasione di campo degli imprenditori che la politica guadagna la centralità che le compete e l’autorevolezza che le è necessaria. Perché è vero che le istanze dei diversi comparti del mondo economico esaltano interessi specifici – spesso in conflitto tra loro, si pensi per esempio al conflitto tra “meno Irap = più Iva” che coinvolge i commercianti o quali voci dell’Irap vanno toccate, che contrappone industriali e artigiani – è anche vero che spetta proprio alla politica il compito di mediare quegli interessi, per quanto grandi e rappresentativi, in nome dell’interesse nazionale. Vale per gli imprenditori, vale per i sindacati dei lavoratori. Non solo. Sono molto spesso fondate le accuse che si fanno agli imprenditori per certe loro “tendenze”: è vero che, se possono, preferiscono fare finanza o speculare sugli immobili, è vero che cercano le nicchie protette, i settori non liberalizzati, la mancanza di concorrenza, che lasciano il manifatturiero per le utilities. O che, di fronte ai grandi cambiamenti, diventano conservatori a prova di bomba: è il caso di molti settori aggrediti dalla concorrenza dei paesi emergenti, che vorrebbero un protezionismo oltretutto impossibile da realizzare (tentare di fermare la Cina con i dazi o le guerre commerciali è come cercare di svuotare il mare con il cucchiaino). Così come è il caso della piccola impresa, che vorrebbe perpetuare in eterno le fortune del passato senza capire che il nanismo è una delle cause fondamentali della nostra deindustrializzazione (caro Guerrini, capisco l’orgoglio e la bandiera, ma nella sua relazione non ha speso neppure una parola sul declino del Paese e le sue cause).
Ma detto tutto questo, non si può non rimandare la palla alla politica, e in particolare al governo. Ebbene sì, ci sono gli interessi specifici e perfino quelli particolari, il nostro capitalismo è quello che è, ma questo fa parte del gioco e tocca a voi trovare i rimedi. Se paga più la rendita del profitto, prendete provvedimenti che rovescino le convenienze. Se le imprese sono troppo piccole, favorite la loro crescita. Se investono nel manifatturiero a scarso contenuto tecnologico o nei servizi a basso valore aggiunto, create le condizioni (anche con politiche settoriali) perché ciò cambi. Basta con gli alibi: l’euro, la Cina, i poteri forti, il sindacato. Sennò la politica che ci sta a fare?
Pubblicato sul Foglio del 17 giugno 2005
Ma al di là delle situazioni contingenti, tra i due fatti e il loro significato più profondo c’è una relazione decisamente strutturale. Voglio dire che essi sono la palese dimostrazione della crisi della politica in queste Paese. Da un lato, infatti, ci si adonta perché le confederazioni degli imprenditori fanno i loro interessi e rappresentano le aspettative – necessariamente un po’ corporative – dei loro associati. E dall’altro si grida poi allo scandalo se esse stesse indicano ricette per l’economia, quasi che ciò potesse rappresentare una lesa sovranità della politica. Ora, chi antepone sistematicamente gli interessi personali e di bottega (non dico di partito perché non ci sono più) a quelli generali, dovrebbe per decenza evitare di dare lezioni agli altri. Ma soprattutto, bisognerebbe capire che non è rimproverando la presunta invasione di campo degli imprenditori che la politica guadagna la centralità che le compete e l’autorevolezza che le è necessaria. Perché è vero che le istanze dei diversi comparti del mondo economico esaltano interessi specifici – spesso in conflitto tra loro, si pensi per esempio al conflitto tra “meno Irap = più Iva” che coinvolge i commercianti o quali voci dell’Irap vanno toccate, che contrappone industriali e artigiani – è anche vero che spetta proprio alla politica il compito di mediare quegli interessi, per quanto grandi e rappresentativi, in nome dell’interesse nazionale. Vale per gli imprenditori, vale per i sindacati dei lavoratori. Non solo. Sono molto spesso fondate le accuse che si fanno agli imprenditori per certe loro “tendenze”: è vero che, se possono, preferiscono fare finanza o speculare sugli immobili, è vero che cercano le nicchie protette, i settori non liberalizzati, la mancanza di concorrenza, che lasciano il manifatturiero per le utilities. O che, di fronte ai grandi cambiamenti, diventano conservatori a prova di bomba: è il caso di molti settori aggrediti dalla concorrenza dei paesi emergenti, che vorrebbero un protezionismo oltretutto impossibile da realizzare (tentare di fermare la Cina con i dazi o le guerre commerciali è come cercare di svuotare il mare con il cucchiaino). Così come è il caso della piccola impresa, che vorrebbe perpetuare in eterno le fortune del passato senza capire che il nanismo è una delle cause fondamentali della nostra deindustrializzazione (caro Guerrini, capisco l’orgoglio e la bandiera, ma nella sua relazione non ha speso neppure una parola sul declino del Paese e le sue cause).
Ma detto tutto questo, non si può non rimandare la palla alla politica, e in particolare al governo. Ebbene sì, ci sono gli interessi specifici e perfino quelli particolari, il nostro capitalismo è quello che è, ma questo fa parte del gioco e tocca a voi trovare i rimedi. Se paga più la rendita del profitto, prendete provvedimenti che rovescino le convenienze. Se le imprese sono troppo piccole, favorite la loro crescita. Se investono nel manifatturiero a scarso contenuto tecnologico o nei servizi a basso valore aggiunto, create le condizioni (anche con politiche settoriali) perché ciò cambi. Basta con gli alibi: l’euro, la Cina, i poteri forti, il sindacato. Sennò la politica che ci sta a fare?
Pubblicato sul Foglio del 17 giugno 2005
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.