Impossibile trasferire competenze senza soldi
La pietra tombale sul federalismo
La scelta di tagliare i fondi agli enti locali non solo è iniqua, ma accentua gli equivocidi Enrico Cisnetto - 07 ottobre 2005
Amen. Proprio mentre la devolution affronta la fase decisiva dell’iter parlamentare, la Finanziaria di Tremonti – con i suoi tre miliardi di euro in meno di trasferimenti agli enti locali – mette una pietra tombale sul federalismo. Per chi, come me, ha sofferto di solitudine nel definire le spinte localistiche di questi anni – alternativamente esaltate sia a destra che a sinistra – come uno dei frutti più avvelenati del “nuovismo” della stagione 1992-1996, la cosa va salutata più che positivamente. Anche se il contesto è ricco di paradossi estremi e inquietanti contraddizioni. A cominciare dal fatto che, appunto, il governo che vuole la devolution e che ha trovato nella Lega il suo fattore di maggior condizionamento, è poi lo stesso che costringe le amministrazioni locali, per far quadrare i loro conti, ad inasprire i prelievi fiscali con aumenti fino a oltre il 10% (dati Eurispes). Ora, anche ammesso – e concesso – che la scelta dipenda sia dalla mancanza di alternative a disposizione di Tremonti per la Finanziaria sia soprattutto dal calcolo politico di costringere enti locali in maggioranza governati dal centro-sinistra ad apparire agli occhi dei contribuenti come i cattivi che impongono tasse e balzelli, tutto questo non rende meno stridente la scelta stessa. Anche perchè lascia a dir poco perplessi la modalità, niente affatto selettiva, con cui si abbassano i costi del federalismo. Fatte salve la sanità, il sociale e gli stipendi della pubblica amministrazione, la scure tremontiana si è abbattuta sulle realtà locali senza alcun distinguo dei loro criteri di spesa. Si è quindi innescato un meccanismo perverso, che vede Comuni, Province e Regioni o impegnati a tagliare investimenti e minacciare di ridurre i servizi ai cittadini – per scaricarne la responsabilità sul governo “affamatore” – o costretti ad aumentare le tasse locali per mantenere alta la spesa (specie quella che può generare un qualche ritorno elettorale). Si prenda come esempio il turismo. Da un lato il localismo imperante ha prodotto in questi anni una proliferazione di piccole iniziative e di strumenti promozionali. Dall’altro, gli enti locali più grandi e ricchi hanno fatto sfoggio di una grandeur troppo priva di coerenza per dare un ritorno commisurato all’entità della spesa. Ora, con meno fondi a disposizione, non è difficile prevedere che i difetti si accentueranno, a scapito della valorizzazione del territorio. Il risultato è disastroso non solo sul piano economico, ma anche e soprattutto in termini strategici.
Questi paradossi sono comunque la cartina tornasole di un federalismo che non funziona, le cui responsabilità sono molte. In primis la riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra, sciagurata tanto nel merito – ha comportato costi altissimi e ha confuso le competenze, moltiplicando il contenzioso tra Stato ed enti locali – quanto nel metodo di approvazione (maggioranza risicata a fine legislatura). Ma anche la devoluzione promossa dalla Lega ha reiterato gli errori. Inorridisco, per esempio, al pensiero di cosa potrebbe accadere se i costi dell’istruzione e della sicurezza locale (40-50 miliardi di euro), si trasferissero alle Regioni. E’ proprio il proliferare dei livelli di governo che ha generato complessità, riducendo la trasparenza (impossibili i controlli), creando difficoltà nell’attuazione delle regole e generando una buorocrazia sicuramente meno preparata di quella centrale. Si pensi che i soggetti istituzionali italiani sono oltre 120, numero imbattibile in qualunque classifica internazionale.
Ma una bella fetta di responsabilità va data anche alla nostra intellighentia, che imbevuta di qualunquismo anti-Stato e anti-politica non ha saputo resistere al fascino del decentramento. Ora, però, con l’aiuto della Finanziaria di Tremonti – che solo per questo merita la sufficienza – il “mito” federalista subisce un duro colpo. D’altra parte, la fine ormai prossima della Seconda Repubblica è destinata a chiudere la (ahinoi) lunga stagione del “nuovismo”. E tra i tanti “ismi” che si porterà via, uno dei primi sarà il federalismo all’italiana, che divide ciò che è già unito anzichè unire ciò che è diviso. Solo in quel momento di potrà ragionare seriamente su come riorganizzare un assetto istituzionale vecchio e pletorico, magari cominciando con l’abolire le Province e accorpare le Regioni secondo il modello tedesco dei Lander, che unisce territori dalle caratteristiche omogenee. Per ora accontentiamoci della scure di Tremonti e cerchiamo di fermare la devolution prima del traguardo.
Pubblicato sul Foglio del 7 ottobre 2005
Questi paradossi sono comunque la cartina tornasole di un federalismo che non funziona, le cui responsabilità sono molte. In primis la riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra, sciagurata tanto nel merito – ha comportato costi altissimi e ha confuso le competenze, moltiplicando il contenzioso tra Stato ed enti locali – quanto nel metodo di approvazione (maggioranza risicata a fine legislatura). Ma anche la devoluzione promossa dalla Lega ha reiterato gli errori. Inorridisco, per esempio, al pensiero di cosa potrebbe accadere se i costi dell’istruzione e della sicurezza locale (40-50 miliardi di euro), si trasferissero alle Regioni. E’ proprio il proliferare dei livelli di governo che ha generato complessità, riducendo la trasparenza (impossibili i controlli), creando difficoltà nell’attuazione delle regole e generando una buorocrazia sicuramente meno preparata di quella centrale. Si pensi che i soggetti istituzionali italiani sono oltre 120, numero imbattibile in qualunque classifica internazionale.
Ma una bella fetta di responsabilità va data anche alla nostra intellighentia, che imbevuta di qualunquismo anti-Stato e anti-politica non ha saputo resistere al fascino del decentramento. Ora, però, con l’aiuto della Finanziaria di Tremonti – che solo per questo merita la sufficienza – il “mito” federalista subisce un duro colpo. D’altra parte, la fine ormai prossima della Seconda Repubblica è destinata a chiudere la (ahinoi) lunga stagione del “nuovismo”. E tra i tanti “ismi” che si porterà via, uno dei primi sarà il federalismo all’italiana, che divide ciò che è già unito anzichè unire ciò che è diviso. Solo in quel momento di potrà ragionare seriamente su come riorganizzare un assetto istituzionale vecchio e pletorico, magari cominciando con l’abolire le Province e accorpare le Regioni secondo il modello tedesco dei Lander, che unisce territori dalle caratteristiche omogenee. Per ora accontentiamoci della scure di Tremonti e cerchiamo di fermare la devolution prima del traguardo.
Pubblicato sul Foglio del 7 ottobre 2005
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.