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Giustizia in panne

La masnada

Il nostro capitalismo non può insistere nell’immaginarsi salottiero

di Davide Giacalone - 16 marzo 2011

Escludo che Pippo, Pluto e Paperino siano mai stati fra i clienti di Telecom Italia, ma escludo anche che si possa considerare normale il sovrapporsi dell’inchiesta penale alla nomina dei dirigenti d’una società quotata in Borsa. Anzi, segnalo questa vicenda come emblematica dell’opacità che ammorba il mercato economico, incancrenita da una giustizia che non funziona.

Se Luca Luciani fosse un politico, i suoi amici andrebbero subito alle conclusioni: c’è un complotto della magistratura. Difatti, l’indagine va avanti da tempo, ma non appena Luciani è stato candidato al posto di direttore generale ecco che arriva la perquisizione e l’iscrizione fra gli indagati. Le cose, però, possono essere lette in un altro modo: visto il modo in cui (non) funziona la giustizia, e vista l’eternità che divide l’indagine preliminare dal giudizio definitivo, siamo tutti tenuti a mollo, potenzialmente aggredibili in ogni momento, salvo essere scagionati dopo essere stati eliminati. Non lo si ripeterà mai abbastanza: la malagiustizia corrompe l’intera società, a esclusivo beneficio dei malfattori.

Vi è un secondo aspetto, però, che non va dimenticato: anche gli strumenti di controllo e garanzia interni alle società non funzionano, in un progressivo scivolare collettivo verso il puro rapporto di forza, svincolato da norme ed etica. La “società civile”, tanto per capirsi, è molto meno civile di quel che qualche cantore vuol far credere.

Entrare nel merito aiuta a capire. Telecom Italia stessa ha preso atto che milioni di sim erano false. Prepagate tenute artificialmente in vita con ricariche di un centesimo. Questo falsava i conti aziendali, nonché la distribuzione dei premi, a danno del mercato, della società e degli azionisti (almeno quelli che non comandavano). E’ la società a commissionare un controllo (audit), affidandolo alla Deloitte, anche perché occorreva che qualcuno facesse chiarezza su un altro capitolo nero: il gruppo di spioni e dossieratori che Telecom Italia ha allevato e pagato. E’ sulla base di quel rapporto che la magistratura ha avviato l’indagine. Le società, e specialmente quelle quotate, non subiscono solo controlli dall’esterno, hanno anche strumenti interni, da usarsi per tutelarle da dipendenti e amministratori infedeli.

Gli investitori, il sistema finanziario e i risparmiatori hanno bisogno di potersi fidare di quel che leggono. A questo scopo gli amministratori possono promuove indagini e, successivamente, se lo ritengono, avviare un’azione di responsabilità contro altri amministratori che avessero danneggiato gli interessi sociali. Ebbene, nel caso di Telecom in consiglio d’amministrazione ha escluso quest’eventualità. Ritengono sia tutto regolare. Anzi, chi esercita il controllo della società (Telco) e chi gestisce il comitato nomine ha ritenuto di candidare a più importanti incarichi chi ora finisce indagato, sulla base di documenti forniti dalla società stessa. Non c’è nulla di ragionevole, in ciò.

Può darsi che la procura stia prendendo una cantonata, o può darsi che in quel mondo societario si prediliga il ricatto al riscatto. Le due ipotesi non sono incompatibili. Quel che è certo è che in queste condizioni non si può gestire correttamente neanche una minuscola società di famiglia, il che spiega perché il nostro mercato borsistico è una provincia della provincia.

La trasparenza non può essere un optional. La giustizia non può restare uno sputtanatoio con sentenze postume e pene inesistenti. Il nostro capitalismo non può insistere nell’immaginarsi salottiero e continuare a essere masnadiero.

Pubblicato da Libero

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