La fotografia della crisi italiana
La lezione di Trieste
Non è caduto solo Geronzi, ma l'intero sistemadi Enrico Cisnetto - 11 aprile 2011
C’è Terza Repubblica e Terza Repubblica. Non basta chiudere il capitolo tormentato e fallimentare della Seconda – e Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno e urgenza – per essere sicuri che ciò che seguirà sia meglio. Capisco che la stanchezza per ciò che ci circonda sia tanta, ogni giorno crescente, ma non si deve cadere nella tentazione del “tanto nuovo tanto meglio”. Prima di tutto perché non è necessariamente “nuovo” ciò che si autodefinisce tale, magari per far dimenticare in fretta di essere stato pienamente partecipe del “vecchio”.
E in secondo luogo, perché il “nuovismo” è la malattia che all’inizio degli anni Novanta ci ha fatto commettere errori esiziali – per intenderci: maggioritario, bipolarismo, demonizzazione dei partiti ed esaltazione del leaderismo – che oggi stiamo pagando con interessi usurari. Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho l’impressione che la storia si ripeta e che anche ora – in una fase per molti versi somigliante a quella del 1992-1994, purtroppo – corriamo il rischio di “sporcare” il passaggio da una stagione che ineluttabilmente sta per chiudersi ad una i cui connotati devono ancora essere tutti definiti, commettendo errori non dissimili da quelli commessi vent’anni fa.
Un esempio? Le lotte intestine al capitalismo nostrano, o per meglio dire a quel che resta del “salotto buono” della finanza made in Italy, e in particolare il caso delle dimissioni “spintanee” di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali. Ebbene, sono tanti i motivi che inducono a pensare che ci sia un approccio sbagliato: dal riflesso condizionato che è scattato nel dare le patenti di “buoni” e “cattivi” in una storia che invece è un classico scontro d’interessi, alla lettura tutta politica che si è voluta dare alla vicenda, che porta a clamorose forzature della realtà – dire che esista un “polo” anti-Berlusconi che somma Tremonti, Montezemolo, Casini e Fini contrasta con quanto si è visto finora sulla scena – fino alla contraddizione in cui sono caduti tutti coloro che sostengono che a Geronzi fosse imputato di voler fare delle Generali uno strumento del “sistema Italia” e poi attribuiscono l’ordito al ministro Tremonti, cioè proprio a colui che più di ogni altro sta lavorando in senso concertista. Insomma, non c’è dubbio che le lotte di potere, quelle più cruente, accompagnano sempre i cambi di stagione politica, tanto più quelli che riguardano un intero sistema politico come la Seconda Repubblica. Ma immaginare che esse servano da cartina di tornasole per stabilire vincitori e vinti, significa non aver imparato la lezione della fine della Prima Repubblica, quando tutti hanno perso a favore di un outsider (Berlusconi).
Ricordiamoci che allora la scelta di Cesare Romiti di dare il benservito alla classe politica, in particolare a democristiani e socialisti, in nome della presa del potere anche politico da parte degli imprenditori – che non a caso appoggiarono Segni – fino al punto di cavalcare Mani Pulite si trasformò ben presto in un clamoroso boomerang: Romiti e la Fiat furono inquisiti, tanto che l’uomo forte di Torino dovette battersi il petto al cospetto di Borrelli; Cuccia di lì a poco dovette subire le prime sconfitte della sua lunga carriera, nonostante che il “nemico” Craxi fosse stato tolto di mezzo; a vincere la partita in politica fu l’unico dei grandi imprenditori a non far parte dei salotti buoni e che Cuccia considerava un impresario televisivo da quattro soldi.
Ma al di là della prudenza nei giudizi su fatti e persone, questi ricordi dovrebbero indurre soprattutto a ragionare sul fatto che ciò cui stiamo assistendo non ha nulla a che fare con la costruzione della Terza Repubblica, ma solo con la progressiva consunzione della Seconda. Pensare, per esempio, che si possa uscire da questo confuso e drammatico momento in cui stiamo vivendo – e che sta ingenerando una sfiducia così diffusa nel mondo del business da bloccare ogni investimento, anche da parte di chi i soldi li ha – con un capitalismo non solo non pacificato, ma addirittura nel pieno di una guerra senza quartiere, è un errore grave da evitare. Anche perché il paese non se lo può permettere, vista l’esiguità della sua crescita.
Il fatto che, saggiamente, si voglia ricostruire un tessuto sistemico di ciò che resta – tra banche che devono recuperare una quarantina di miliardi per sistemare i loro traballanti patrimoni, grandi gruppi che hanno sempre più la testa e il corpo altrove (Fiat docet) e imprese medie e piccole che soffrono, tra le altre cose, di eccesso di individualismo – la dice lunga sulla necessità di evitare come la peste una guerra dei poveri tra poteri che amano sentirsi e farsi definire “forti” e che invece sono drammaticamente deboli.
Potere politico e potere economico declinanti rischiano di crollare insieme rovinosamente. Anzi, già sono in piena caduta libera. Tuttavia questa è condizione necessaria ma non sufficiente per aprire una fase nuova.
Nella quale occorre traghettare quello che c’è rimasto – poco, purtroppo – e per la quale, soprattutto, occorre avere la capacità di ridisegnare il profilo del Paese, del suo assetto economico come di quello politico e istituzionale. Finora si vede solo un grande tramestio per buttar giù. Impalcature ricostruttive, poco o niente. Torno a ripetere: ci vogliono gli “stati generali” della Terza Repubblica. E “generali” è scritto minuscolo.
E in secondo luogo, perché il “nuovismo” è la malattia che all’inizio degli anni Novanta ci ha fatto commettere errori esiziali – per intenderci: maggioritario, bipolarismo, demonizzazione dei partiti ed esaltazione del leaderismo – che oggi stiamo pagando con interessi usurari. Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho l’impressione che la storia si ripeta e che anche ora – in una fase per molti versi somigliante a quella del 1992-1994, purtroppo – corriamo il rischio di “sporcare” il passaggio da una stagione che ineluttabilmente sta per chiudersi ad una i cui connotati devono ancora essere tutti definiti, commettendo errori non dissimili da quelli commessi vent’anni fa.
Un esempio? Le lotte intestine al capitalismo nostrano, o per meglio dire a quel che resta del “salotto buono” della finanza made in Italy, e in particolare il caso delle dimissioni “spintanee” di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali. Ebbene, sono tanti i motivi che inducono a pensare che ci sia un approccio sbagliato: dal riflesso condizionato che è scattato nel dare le patenti di “buoni” e “cattivi” in una storia che invece è un classico scontro d’interessi, alla lettura tutta politica che si è voluta dare alla vicenda, che porta a clamorose forzature della realtà – dire che esista un “polo” anti-Berlusconi che somma Tremonti, Montezemolo, Casini e Fini contrasta con quanto si è visto finora sulla scena – fino alla contraddizione in cui sono caduti tutti coloro che sostengono che a Geronzi fosse imputato di voler fare delle Generali uno strumento del “sistema Italia” e poi attribuiscono l’ordito al ministro Tremonti, cioè proprio a colui che più di ogni altro sta lavorando in senso concertista. Insomma, non c’è dubbio che le lotte di potere, quelle più cruente, accompagnano sempre i cambi di stagione politica, tanto più quelli che riguardano un intero sistema politico come la Seconda Repubblica. Ma immaginare che esse servano da cartina di tornasole per stabilire vincitori e vinti, significa non aver imparato la lezione della fine della Prima Repubblica, quando tutti hanno perso a favore di un outsider (Berlusconi).
Ricordiamoci che allora la scelta di Cesare Romiti di dare il benservito alla classe politica, in particolare a democristiani e socialisti, in nome della presa del potere anche politico da parte degli imprenditori – che non a caso appoggiarono Segni – fino al punto di cavalcare Mani Pulite si trasformò ben presto in un clamoroso boomerang: Romiti e la Fiat furono inquisiti, tanto che l’uomo forte di Torino dovette battersi il petto al cospetto di Borrelli; Cuccia di lì a poco dovette subire le prime sconfitte della sua lunga carriera, nonostante che il “nemico” Craxi fosse stato tolto di mezzo; a vincere la partita in politica fu l’unico dei grandi imprenditori a non far parte dei salotti buoni e che Cuccia considerava un impresario televisivo da quattro soldi.
Ma al di là della prudenza nei giudizi su fatti e persone, questi ricordi dovrebbero indurre soprattutto a ragionare sul fatto che ciò cui stiamo assistendo non ha nulla a che fare con la costruzione della Terza Repubblica, ma solo con la progressiva consunzione della Seconda. Pensare, per esempio, che si possa uscire da questo confuso e drammatico momento in cui stiamo vivendo – e che sta ingenerando una sfiducia così diffusa nel mondo del business da bloccare ogni investimento, anche da parte di chi i soldi li ha – con un capitalismo non solo non pacificato, ma addirittura nel pieno di una guerra senza quartiere, è un errore grave da evitare. Anche perché il paese non se lo può permettere, vista l’esiguità della sua crescita.
Il fatto che, saggiamente, si voglia ricostruire un tessuto sistemico di ciò che resta – tra banche che devono recuperare una quarantina di miliardi per sistemare i loro traballanti patrimoni, grandi gruppi che hanno sempre più la testa e il corpo altrove (Fiat docet) e imprese medie e piccole che soffrono, tra le altre cose, di eccesso di individualismo – la dice lunga sulla necessità di evitare come la peste una guerra dei poveri tra poteri che amano sentirsi e farsi definire “forti” e che invece sono drammaticamente deboli.
Potere politico e potere economico declinanti rischiano di crollare insieme rovinosamente. Anzi, già sono in piena caduta libera. Tuttavia questa è condizione necessaria ma non sufficiente per aprire una fase nuova.
Nella quale occorre traghettare quello che c’è rimasto – poco, purtroppo – e per la quale, soprattutto, occorre avere la capacità di ridisegnare il profilo del Paese, del suo assetto economico come di quello politico e istituzionale. Finora si vede solo un grande tramestio per buttar giù. Impalcature ricostruttive, poco o niente. Torno a ripetere: ci vogliono gli “stati generali” della Terza Repubblica. E “generali” è scritto minuscolo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.