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Fondi pensione: serve uno sprint maggiore

La lentezza del settore previdenziale

In Italia c’è bisogno di previdenza integrativa. Incentivarla è l’unica via percorribile

di Enrico Cisnetto - 14 aprile 2008

Se c’è un settore che cresce a ritmo tipicamente italiano, e che invece avrebbe maledettamente bisogno di sprint, magari anche grazie a qualche “ritocco” legislativo, questo è la previdenza integrativa. Nonostante le timidezze e le titubanze della politica (assolutamente bipartisan), la riforma del Tfr e l’esordio dei fondi di previdenza integrativi hanno avuto un avvio moderatamente positivo: nel primo anno di attività della riforma Maroni solo il 2% dei 12 milioni di lavoratori dipendenti del privato non ha compiuto alcuna scelta esplicita in merito alla destinazione della propria liquidazione.

Ad oggi sono iscritti alla previdenza integrativa 4, 67 milioni di persone (autonomi, professionisti ed atipici compresi), per una massa di risorse amministrata arrivata a 58 miliardi (dai 51,4 dell’anno precedente). Chi ha aderito ha scelto in larga misura i fondi di categoria o negoziali, cresciuti del 69,7% a 1,86 milioni di lavoratori dipendenti. Ottima la crescita dei fondi pensione aperti, pari al 290% mentre le polizze previdenziali, i cosiddetti Pip, hanno raccolto il favore di circa 296 mila dipendenti. Numeri discreti, che però non devono farci dimenticare che la crescita delle adesioni è stata “solo” del 31%, rispetto a quel 40% posto come obiettivo dal governo. E che essa non sana, ma semmai replica, molte delle differenze strutturali italiche: così al Nord-Ovest si è iscritto oltre un lavoratore su tre, mentre al Centro la percentuale oscilla intorno al 22% e al Sud è sotto il 14%; come pure l’incremento dell’adesione femminile, arrivata al 29%, è più basso di quello maschile.

Insomma, una crescita con il freno a mano tirato. Peccato, perché in Italia c’è un grande bisogno di previdenza integrativa visto che il secondo pilastro pensionistico è fondamentale per un sistema che, nel passaggio dal retributivo al contributivo, rischia di mettere in difficoltà molti lavoratori, che rischiano di accorgersi di aver commesso un errore nel sottovalutarne gli effetti solo quando sarà ormai troppo tardi. E poi perché con la riforma del Tfr si sperava anche di contribuire a rimettere in circolo il risparmio nazionale – storicamente, l’unica nostra commodity – favorendone l’affluenza, seppure per via indiretta, al sistema produttivo, troppo povero di capitali, specie dopo la crisi del credito bancario, per affrontare la radicale trasformazione di cui ha bisogno. Allora, è necessario che il prossimo governo si impegni per incentivare ancora di più la previdenza integrativa. Da un lato, continuando con una campagna di comunicazione che spieghi, al contrario delle demonizzazioni della sinistra massimalista, che i fondi pensione non sono il male. Dall’altro, modificando quelle parti della legge che generano ancora molte resistenze. Ad esempio, l’impossibilità, una volta scelto un fondo pensione, di poter riportare il Tfr in azienda: inutile dire che se si è costretti a fare una “scelta per la vita”, questo non incentiva certo i lavoratori a lasciare la strada vecchia per la nuova.

Poi, si dovrebbero mettere su un piano di parità tutti i fondi rendendo obbligatorio anche per i prodotti individuali come per quelli di categoria il versamento dei contributi del datore di lavoro. Modifiche ragionevoli, da concordare con le parti in causa. Farle dovrebbe costare solo un po’ di buona volontà e intelligenza. E’ troppo?

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