Oltre il Cav
La giustizia va riformata
La malagiustizia continua a mietere vittime e a procurare danni economici al Paesedi Davide Giacalone - 13 settembre 2013
Il brodo andrebbe ristretto, non allungato. Anziché consumarsi in cavilli per rinviare un esito scontato, i parlamentari del centro destra dovrebbero saltare sul cavallo della giustizia, chiedendo di far valere subito le ragioni di un Paese umiliato e offeso dalla malagiustizia. Piuttosto che puntare sull’amnesia (talché ci si dimentichi che la legge che ora detestano furono loro stessi a volerla, votarla e festeggiarla) meglio rinverdire la memoria e ricordare le tante vite innocenti massacrate da una magistratura irresponsabile. Ai loro colleghi della sinistra pongano il problema degli italiani, senza lasciare spazi a chi si ripara dietro le toghe e dimentica il diritto e i diritti. Silvio Berlusconi sarà portato alle dimissioni, la cui alternativa sarebbe la decadenza e l’interdizione. Non è sensata la partita del prendere tempo, utile solo ad allungare lo strazio.
Tanto più che il Paese sarà ancora straziato da una crisi la cui fine vedono solo quelli che sono finiti a far da propagandisti di sé medesimi. Non ci limitiamo a chiudere l’anno in recessione e a essere considerati più a rischio della Spagna, ma accediamo al vento della ripresa con meno vele e senza timone. E la Bce ci fa sapere quello che da tempo avvertiamo, ovvero che l’obiettivo del deficit sotto il 3%, così andando i conti, non sarà centrato. Altro che meno tasse per favorire produzione e consumi, si continuerà a giocare alla tassa che si sposta, traveste, cambia nome e resta lì a pesare sulle stesse tasche. Tutto indica che si proverà a sostenere che gli italiani pagheranno perché la destra ha fatto saltare, o anche solo messo in dubbio, la stabilità. Perché Berlusconi non s’è rassegnato a fare il condannato.
Sul tema economico siamo già tornati tante volte. Ma anche sul terreno della giustizia una via d’uscita c’è. Seria e fruttuosa: il leader della destra è stato oggetto di un’aggressione giudiziaria senza pari, durata quattro lustri e giunta a compimento con una sentenza che verrà studiata nel museo degli orrori giudiziari; posto ciò, il condannato si ritiene e proclama innocente, ma, non potendo fermare l’esecuzione l’esecuzione, piuttosto provi a fermare lo scempio generale. (Al contrario, invece, inseguire l’ipotesi della grazia è del tutto lecito, ma comporta la fine del ruolo politico). Come? Chiedendo che, dopo e a causa della condanna, la collaborazione di governo sia subordinata al riconoscimento che non solo è necessaria una profonda riforma della giustizia, ma che questa deve rientrare nel cantiere aperto delle riforme costituzionali. Laddove il partito togato suppone d’avere trionfato può essere affondato. Voglio vedere la sinistra che risponde: no, le cose vanno bene così. Li voglio vedere andare a spiegarlo non a quei quattro manettari assatanati che si ritrovano alle feste, ma agli italiani che conoscono il Paese nel quale vivono.
Che succederebbe? Se la proposta passasse, anche con una mozione parlamentare immediata e sulla quale si registrasse la convergenza, allora il condannato andrebbe a scontare da trionfatore. Potrebbe ben sostenere d’avere pensato al bene generale. Potrebbe presentare le dimissioni, bloccando la farsa della decadenza. Se non passasse, allora che la sinistra vada a raccontarlo agli elettori. E se ne hanno paura, come ne hanno, allora provino a farsi il governo con qualche parlamentare della destra che mangia con la sinistra e con gli ortotteri che divorano l’orto elettorale. Si accomodino. E se il Quirinale si mettesse di traverso ci sarà modo di riordinare anche le responsabilità di ciascuno, smettendola con questa sciocca finzione dell’unico e ultimo argine al disfacimento: ne è una delle cause, cui ha aggiunto lo sfregio arrogante di quei quattro senatori a vita.
Il tempo non va sprecato, come fin qui si è fatto. E se c’è una cosa che proprio non ha senso è attardarsi in una battaglia di retroguardia, persa. Come se la non decadenza cambiasse qualche cosa. Quella legge, la Severino, è nata dall’ipocrisia e dalla falsa coscienza di una politica che, rinunciando a funzionare, prova a fare il verso alla piazza. E’ un’offesa alla libertà del Parlamento, quindi di noi tutti. Un’offesa portata da una maggioranza tanto vasta quanto cieca e insensibile. Deve essere cancellata, non momentaneamente sospesa. Nell’immediato va disinnescata, con le dimissioni.
Tanto più che il Paese sarà ancora straziato da una crisi la cui fine vedono solo quelli che sono finiti a far da propagandisti di sé medesimi. Non ci limitiamo a chiudere l’anno in recessione e a essere considerati più a rischio della Spagna, ma accediamo al vento della ripresa con meno vele e senza timone. E la Bce ci fa sapere quello che da tempo avvertiamo, ovvero che l’obiettivo del deficit sotto il 3%, così andando i conti, non sarà centrato. Altro che meno tasse per favorire produzione e consumi, si continuerà a giocare alla tassa che si sposta, traveste, cambia nome e resta lì a pesare sulle stesse tasche. Tutto indica che si proverà a sostenere che gli italiani pagheranno perché la destra ha fatto saltare, o anche solo messo in dubbio, la stabilità. Perché Berlusconi non s’è rassegnato a fare il condannato.
Sul tema economico siamo già tornati tante volte. Ma anche sul terreno della giustizia una via d’uscita c’è. Seria e fruttuosa: il leader della destra è stato oggetto di un’aggressione giudiziaria senza pari, durata quattro lustri e giunta a compimento con una sentenza che verrà studiata nel museo degli orrori giudiziari; posto ciò, il condannato si ritiene e proclama innocente, ma, non potendo fermare l’esecuzione l’esecuzione, piuttosto provi a fermare lo scempio generale. (Al contrario, invece, inseguire l’ipotesi della grazia è del tutto lecito, ma comporta la fine del ruolo politico). Come? Chiedendo che, dopo e a causa della condanna, la collaborazione di governo sia subordinata al riconoscimento che non solo è necessaria una profonda riforma della giustizia, ma che questa deve rientrare nel cantiere aperto delle riforme costituzionali. Laddove il partito togato suppone d’avere trionfato può essere affondato. Voglio vedere la sinistra che risponde: no, le cose vanno bene così. Li voglio vedere andare a spiegarlo non a quei quattro manettari assatanati che si ritrovano alle feste, ma agli italiani che conoscono il Paese nel quale vivono.
Che succederebbe? Se la proposta passasse, anche con una mozione parlamentare immediata e sulla quale si registrasse la convergenza, allora il condannato andrebbe a scontare da trionfatore. Potrebbe ben sostenere d’avere pensato al bene generale. Potrebbe presentare le dimissioni, bloccando la farsa della decadenza. Se non passasse, allora che la sinistra vada a raccontarlo agli elettori. E se ne hanno paura, come ne hanno, allora provino a farsi il governo con qualche parlamentare della destra che mangia con la sinistra e con gli ortotteri che divorano l’orto elettorale. Si accomodino. E se il Quirinale si mettesse di traverso ci sarà modo di riordinare anche le responsabilità di ciascuno, smettendola con questa sciocca finzione dell’unico e ultimo argine al disfacimento: ne è una delle cause, cui ha aggiunto lo sfregio arrogante di quei quattro senatori a vita.
Il tempo non va sprecato, come fin qui si è fatto. E se c’è una cosa che proprio non ha senso è attardarsi in una battaglia di retroguardia, persa. Come se la non decadenza cambiasse qualche cosa. Quella legge, la Severino, è nata dall’ipocrisia e dalla falsa coscienza di una politica che, rinunciando a funzionare, prova a fare il verso alla piazza. E’ un’offesa alla libertà del Parlamento, quindi di noi tutti. Un’offesa portata da una maggioranza tanto vasta quanto cieca e insensibile. Deve essere cancellata, non momentaneamente sospesa. Nell’immediato va disinnescata, con le dimissioni.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.