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La voglia matta “del voto subito”

La fretta, cattiva maestra

Le fragili tesi politiche dei cantori del “bipolarismo realizzato” non servono al Paese

di Enrico Cisnetto - 01 febbraio 2008

Lascio ai costituzionalisti il compito di giudicare se sia stato ortodosso il comportamento del Capo dello Stato nell’incaricare Franco Marini, anche se non posso non notare che, a dispetto di quanto induce a credere il cosiddetto “porcellum”, la Costituzione non prevede che alla caduta di un governo, pur eletto con premio di maggioranza, debba per forza seguire lo scioglimento delle Camere per un problema di “legittimazione elettorale”. E che sulla base di questa osservazione pareva politicamente assai lucida la provocazione (?) di Giuliano Ferrara sull’opportunità di affidare il mandato a Walter Veltroni. Qui, invece, mi interessa rilevare come siano fragili entrambe le tesi “politiche” che si stanno contrapponendo in queste ore, come esse finiscano per riproporre quella logica e quel clima di scontro frontale che anche i protagonisti e i cantori del “bipolarismo realizzato” sembravano voler abbandonare e disconoscere, e come anche il manifesto di tutte le categorie di imprenditori a favore di un governo che faccia nuove regole, pur apprezzabile, sbagli per difetto nell’approccio riformista.

E’ del tutto evidente che il fronte del “votiamo subito” sia solo animato dalla fretta di liquidare la fallimentare esperienza del governo Prodi e di tornare a palazzo Chigi. Su questa “voglia matta” non solo si è ricostituito il vecchio centro-destra (con l’aggiunta di Mastella e Dini) dopo aver consumato una rottura terribile in nome della necessità di uscire dal vecchio schema bipolare che non aveva consentito nel 2001-2006 di governare meglio del quinquennio precedente e dei due anni successivi, ma non c’è neppure un ragionamento, una proposta, un uomo di governo in più di quanto non ci fosse nella campagna elettorale del 2006. Basta leggere i “sette punti” di Berlusconi, o leggere le analisi che in questi giorni un economista che pure non ha condiviso le responsabilità del passato come Renato Brunetta sta proponendo, o vedere il disinteresse – per non dire del disprezzo del Cavaliere – per il lavoro della commissione francese Attali, per capire che si vuole a tutti i costi andare alle elezioni ma non si ha in testa un’idea che una di come far uscire il Paese dal declino e dal degrado in cui è drammaticamente scivolato.

Dall’altra parte, fa rabbia leggere gli appelli accorati di molti leader del Pd alla costituzione di un governo di “salvezza nazionale” (DAlema) quando, fino a ieri, quegli stessi hanno negato che il Paese fosse da salvare, e tantomeno di doverlo fare in un contesto di larghe intese, nonostante il “pareggio” del 2006 avrebbe dovuto indurli a scegliere quella strada, fermando il tempo Prodi. Ma soprattutto, trovo incongruo che si evochi la “grande convergenza” per poi accontentarsi di un esecutivo che faccia soltanto la nuova legge elettorale. Ma come, per fare el grandi riforme strutturali no e per tirar fuori da un cilindro mai così rovistato come in questi ultimi mesi uno spennacchiato coniglietto elettorale sì?

Nessuno che ragioni – come invece ho visto con grande piacere ha fatto un banchiere, Corrado Passera, in un’intervista sul Corriere della Sera di ieri – sulla necessità di uno “sforzo comune” di ben altra natura e con ben altri traguardi. Almeno sul terreno istituzionale, se proprio non si vuole (o non si è capaci) di andare su quello economico. Mi spiego. Tutti, in questi mesi, hanno detto che sarebbe sbagliato scegliere una legge elettorale senza che non le sia abbinato un sistema istituzionale funzionale. Della serie: non c’è doppio turno alla francese senza semi-presidenzialismo, non c’è proporzionale alla tedesca senza Cancellierato, ecc. Ora, è del tutto evidente che un governo a “sovranità limitata temporale” non può avere né lo spazio né la forza per procedere in entrambe le direzioni e dunque finirebbe per fare – come anche nel caso del referendum – una scelta a dir poco monca. Se a questo si aggiunge che il riassetto istituzionale tocca la Costituzione, e che la disgrazia della riforma del titolo V di marca centro-sinistra e del successivo tentativo poi abortito del centro-destra ha insegnato a tenersi lontano da soluzioni parziali e forzate, se ne deduce che per fare le cose bene occorre ben altro mandato di quello conferito dal Quirinale a Marini.

Proprio per queste valutazioni, ho trovato deludente la pur lodevole iniziativa di nove confederazioni imprenditoriali. E non per le ridicole pruderie di chi ieri ha accusato quell’uscita di essere al servizio degli interessi personali (presunti) di Montezemolo, ma per la visione limitata del “manifesto” che è stato sottoscritto. Cari imprenditori, non sarebbe meglio – come molti di voi hanno coraggiosamente detto nel recente passato – che il reset istituzionale di cui l’Italia ha assoluto bisogno venga affidato ad un’apposita Assemblea Costituente? E non vi appare più che mai opportuno delegare all’Assemblea Costituente anche la definizione delle nuove regole di voto, pur non avendo queste, almeno finora, un profilo costituzionale?

Di conseguenza, non pensate che i tre anni che mancano al termine di questa legislatura potrebbero essere spesi per far compiere a quell’idea l’intero suo percorso, anziché attendere che “costituente” sia la prossima legislatura? E cioè: votazione della legge che convoca l’Assemblea Costituente = 10 mesi; elezione dei Costituenti = 4 mesi; lavori della suprema Assemblea = 18 mesi. Si vogliono – giustamente – evitare le elezioni sapendo che non basta cambiare maggioranza per risolvere i problemi del Paese? E allora si faccia una scelta vera. Tutto il resto, oltre che inutile sarebbe dannoso.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.