Una contraddizione istituzionale
La forza e la debolezza
La forza di Monti è la debolezza dei partiti politicidi Davide Giacalone - 18 aprile 2012
La forza di Mario Monti è data dalla debolezza dei partiti politici e dall’inconcludenza parlamentare. La sopraggiunta debolezza del governo è data dall’avere associato le forze politiche, segnatamente quelle accomunate dall’avere dato vita ad una non-maggioranza, alla propria azione. Ieri s’è ripetuto il rito del “vertice” (essendo estinta la stirpe dei costituzionalisti domenicali, che chiassosamente ritenevano illegittimi tali consessi). Non si tratta di un mero errore tattico, ma di un equivoco istituzionale e di una contraddizione politica.
L’equivoco istituzionale è dato dalla natura stessa del governo in carica: non sarebbe mai nato se non avesse una natura commissariale e se non fosse stato innescato dal presidente della Repubblica, ma ciò non autorizza a parlare di sospensione delle regole democratiche, perché alla sua origine c’è la misera implosione della maggioranza votata dagli italiani. Vedemmo quel processo degenerativo, indicando per tempo la via delle elezioni anticipate. Loro lo negarono, finendo esautorati prima che sconfitti. Discutere la legittimità del governo Monti, quindi, non è solo ozioso, ma profondamente sbagliato dal punto di vista sia istituzionale che politico. Ciò non toglie che anche il “semplice” commissariamento non è fra le previsioni costituzionali, sicché Monti ha dovuto prima porre l’accento sul ruolo delle forze politiche e del sostegno parlamentare, poi associarle in una specie di direttorio. Gli va riconosciuto come segno di correttezza istituzionale, ma, al tempo stesso, è contraddittorio rispetto alla natura del suo governo. Una cosa abborracciata, insomma, non destinata a portare bene. Alla correttezza ha aggiunto una scorrettezza, ovvero il richiamo ai consensi popolari, evocati dai sondaggi. Le democrazie, però, non funzionano ad applausometro e, se si pone orecchio alla piazza, il passaggio dall’osanna al crucifigge può essere repentino. La contraddizione politica è conseguente, esplodendo con la proposta di riforma del mercato del lavoro, non a caso originariamente migliore del mostriciattolo in ultimo partorito. Il governo emergenziale ha un senso se mette mano a riforme strutturali, com’è stata quella delle pensioni (che ha completato un percorso già avviato). Quando agisce in questo modo la sua maggioranza parlamentare si depoliticizzata, perché altrimenti quel genere di lavoro lo fa chi è stato eletto. Sull’articolo 18 la contraddizione ha fulminato il Pd: si può rompere il rapporto con la Cgil in nome di una riforma che, se si fosse rimasti all’opposizione, si sarebbe avversata con tutte le forze? Da qui la convocazione del direttorio, credo anche su sollecitazione del Colle. Una volta riunito, però, si è in trappola: o chi è in difficoltà cede, suicidandosi politicamente, o cede il governo, cambiando la propria natura e perdendo ragione d’esistere. E’ successa la seconda cosa.
Era una sorte segnata? No, poteva andare diversamente: il governo avrebbe dovuto continuare per la sua strada, coerentemente con quanto fatto all’inizio della propria attività, mentre il compito dei partiti più grossi non sarebbe dovuto essere far pesare il proprio appoggio al governo, ma lavorare alla riforma delle regole, mettendo in sintonia sistema elettorale e quadro costituzionale. Entrambe sono stati al di sotto delle aspettative: il governo ha preso a mediare, salvo poi attaccarsi a provvedimenti disperati, come i cinque centesimi sulla benzina; mentre le forze politiche hanno proposto una riforma del finanziamento pubblico che fa ridere e arrabbiare. L’insufficienza complessiva ha innescato la confusione, sicché un governo di destra, la cui base programmatica è data dagli impegni contratti in sede europea, la cui base parlamentare è costituita dall’eredità del centro destra, si ritrova ad avere la sinistra fra gli azionisti. Un governo predisposto alla riforma del welfare si ritrova a fare i conti con chi fa dipendere dalla sopravvivenza del welfare la propria identità. Come la moneta cattiva scaccia la buona, così le debolezze hanno intaccato le forze. Davanti agli occhi abbiamo un governo senza alternative in questa legislatura, ma non riusciamo a capacitarci di come possa reggere fino alla sua fine. Non è un caso che non si riesca a vedere oltre l’orizzonte dell’autunno, o che le ipotesi di equilibri politici futuri oscillino fra il fantasioso e l’inesistente. Mediazione e rappresentanza devono riconciliarsi, perché così funzionano le democrazie. Sospenderne la vita per sospenderne i malanni non funziona.
L’equivoco istituzionale è dato dalla natura stessa del governo in carica: non sarebbe mai nato se non avesse una natura commissariale e se non fosse stato innescato dal presidente della Repubblica, ma ciò non autorizza a parlare di sospensione delle regole democratiche, perché alla sua origine c’è la misera implosione della maggioranza votata dagli italiani. Vedemmo quel processo degenerativo, indicando per tempo la via delle elezioni anticipate. Loro lo negarono, finendo esautorati prima che sconfitti. Discutere la legittimità del governo Monti, quindi, non è solo ozioso, ma profondamente sbagliato dal punto di vista sia istituzionale che politico. Ciò non toglie che anche il “semplice” commissariamento non è fra le previsioni costituzionali, sicché Monti ha dovuto prima porre l’accento sul ruolo delle forze politiche e del sostegno parlamentare, poi associarle in una specie di direttorio. Gli va riconosciuto come segno di correttezza istituzionale, ma, al tempo stesso, è contraddittorio rispetto alla natura del suo governo. Una cosa abborracciata, insomma, non destinata a portare bene. Alla correttezza ha aggiunto una scorrettezza, ovvero il richiamo ai consensi popolari, evocati dai sondaggi. Le democrazie, però, non funzionano ad applausometro e, se si pone orecchio alla piazza, il passaggio dall’osanna al crucifigge può essere repentino. La contraddizione politica è conseguente, esplodendo con la proposta di riforma del mercato del lavoro, non a caso originariamente migliore del mostriciattolo in ultimo partorito. Il governo emergenziale ha un senso se mette mano a riforme strutturali, com’è stata quella delle pensioni (che ha completato un percorso già avviato). Quando agisce in questo modo la sua maggioranza parlamentare si depoliticizzata, perché altrimenti quel genere di lavoro lo fa chi è stato eletto. Sull’articolo 18 la contraddizione ha fulminato il Pd: si può rompere il rapporto con la Cgil in nome di una riforma che, se si fosse rimasti all’opposizione, si sarebbe avversata con tutte le forze? Da qui la convocazione del direttorio, credo anche su sollecitazione del Colle. Una volta riunito, però, si è in trappola: o chi è in difficoltà cede, suicidandosi politicamente, o cede il governo, cambiando la propria natura e perdendo ragione d’esistere. E’ successa la seconda cosa.
Era una sorte segnata? No, poteva andare diversamente: il governo avrebbe dovuto continuare per la sua strada, coerentemente con quanto fatto all’inizio della propria attività, mentre il compito dei partiti più grossi non sarebbe dovuto essere far pesare il proprio appoggio al governo, ma lavorare alla riforma delle regole, mettendo in sintonia sistema elettorale e quadro costituzionale. Entrambe sono stati al di sotto delle aspettative: il governo ha preso a mediare, salvo poi attaccarsi a provvedimenti disperati, come i cinque centesimi sulla benzina; mentre le forze politiche hanno proposto una riforma del finanziamento pubblico che fa ridere e arrabbiare. L’insufficienza complessiva ha innescato la confusione, sicché un governo di destra, la cui base programmatica è data dagli impegni contratti in sede europea, la cui base parlamentare è costituita dall’eredità del centro destra, si ritrova ad avere la sinistra fra gli azionisti. Un governo predisposto alla riforma del welfare si ritrova a fare i conti con chi fa dipendere dalla sopravvivenza del welfare la propria identità. Come la moneta cattiva scaccia la buona, così le debolezze hanno intaccato le forze. Davanti agli occhi abbiamo un governo senza alternative in questa legislatura, ma non riusciamo a capacitarci di come possa reggere fino alla sua fine. Non è un caso che non si riesca a vedere oltre l’orizzonte dell’autunno, o che le ipotesi di equilibri politici futuri oscillino fra il fantasioso e l’inesistente. Mediazione e rappresentanza devono riconciliarsi, perché così funzionano le democrazie. Sospenderne la vita per sospenderne i malanni non funziona.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.