Il moralismo fiscale
La faglia
Ascolto con fastidio quando i governanti, compreso Mario Monti, vestono i panni dei demagoghi e dicono: la differenza non è fra destra e sinistra, ma fra chi paga le tasse e chi le evade. E’ falso.di Davide Giacalone - 10 ottobre 2012
Il moralismo fiscale annebbia la mente. Consente a chi ha torto di supporsi dalla parte della ragione. Rende incapaci di valutare i dati, facendo scivolare verso un luogocomunismo penitenziale e gettando nelle braccia della superstizione. Purtroppo il moralismo fiscale ha anche un’altra caratteristica: accumula legna secca vicino al fuoco della rabbia e della paura, propiziando un rogo di ricchezza e ragionevolezza. Una pira sulla quale può incenerirsi un Paese pur forte e ricco, come l’Italia. I dati ultimi, del Fondo monetario internazionale, raccontano quanto quel pregiudizio moralistico ci stia impoverendo.
Ascolto con fastidio quando i governanti, compreso Mario Monti, vestono i panni dei demagoghi e dicono: la differenza non è fra destra e sinistra, ma fra chi paga le tasse e chi le evade. E’ falso. La faglia, la linea di frattura che può provocare un terremoto devastante, passa da un’altra parte: fra chi vive del proprio lavoro, accettando le regole del mercato, esposto alla concorrenza globale, quindi misurato secondo produttività e merito e chi, invece, vive a ridosso della spesa pubblica, protetto da ogni concorrenza, respingendo anche la sola ipotesi di potere essere valutato. Ed è facile capire che l’evasione e l’elusione fiscale si trovano più nel primo gruppo che nel secondo (ma non sfuggono neanche i lavoratori dipendenti, come non sfuggono gli insegnanti che fanno ripetizioni private in nero). Solo che isolare questo aspetto e ingigantirlo non fa che martellare sulle ginocchia di quelli che ancora portano sulle spalle l’onere di tenere alto il benessere collettivo. Per questo il moralismo fiscale non è solo una teoria immorale, ma anche un preludio di distruzione.
Guardiamo i dati. Il Fmi ha rivisto le previsioni per l’anno prossimo, correggendole al ribasso. Conta molto lo scostamento fra la vecchia e la nuova previsione, conta il confronto fra le diverse aree e contano le balle che si vanno raccontando in Italia. Dunque: il mercato globale crescerà del 3,6%, anziché del 3,9; l’Unione europea dello 0,5 anziché dell’1; l’Unione monetaria (l’area dell’euro) dello 0,2 piuttosto che dello 0,7; mentre l’Italia recederà di un -0,7, rispetto al -0,3 prima previsto e al -0,2 di cui parla il governo. Le previsioni possono essere sbagliate, ma non lo è l’andamento che mettono in evidenza. Del resto, se il potere d’acquisto delle famiglie scende più del pil (annientando il risparmio) è segno che da qualche parte c’è una falla e da lì fuoriesce ricchezza. Quella falla è la pressione fiscale.
Prima considerazione: ma dove diavolo la vedono, la ripresa imminente? L’orizzonte è ancora buio. Seconda considerazione: il mondo cresce e le aziende italiane che lo navigano avranno risultati ottimi, come già oggi accade; l’ossigeno si fa rado se dall’Europa si passa all’Europa dell’euro, perché la politica restrittiva è fallimentare; mentre in Italia non si respira neanche con le bombole, perché impegnati a far compiti a casa che non solo sono di per sé recessivi, ma neanche alleviano il rapporto fra debito e pil (dato che il primo cresce con gli interessi e il secondo decresce). A fronte di questo quadro cosa facciamo, diciamo che tutti devono pagare più tasse? Ma allora tanto vale chiamare il reverendo James Warren Jones e procedere al rituale del suicidio di massa.
Quegli stessi dati, invece, ci dicono che ben diversa sarebbe la nostra sorte se ci mettessimo nelle condizioni di cavalcare i mercati. Abbiamo dimostrato, nel passato e nel presente, di saperlo fare. Questo comporta far crescere le aziende (ovvero l’esatto contrario di quel che si prevede con il sadomasochismo delle startup e delle varie legislazioni del lavoro e fiscali) e diminuire il costo del lavoro (non i salari). Possibile se il debito si abbatte con le dismissioni e non lo si serve mediante salassi. Possibile se si liberalizza e apre alla competizione, esaltando la meritocrazia in ogni campo. Possibile, insomma, se si limitano le protezioni a quelli che suppongono di avere ragione e si accresce la libertà di quelli cui si pretende di dare torto. Alternativa? L’avete davanti agli occhi, godetevela.
Ascolto con fastidio quando i governanti, compreso Mario Monti, vestono i panni dei demagoghi e dicono: la differenza non è fra destra e sinistra, ma fra chi paga le tasse e chi le evade. E’ falso. La faglia, la linea di frattura che può provocare un terremoto devastante, passa da un’altra parte: fra chi vive del proprio lavoro, accettando le regole del mercato, esposto alla concorrenza globale, quindi misurato secondo produttività e merito e chi, invece, vive a ridosso della spesa pubblica, protetto da ogni concorrenza, respingendo anche la sola ipotesi di potere essere valutato. Ed è facile capire che l’evasione e l’elusione fiscale si trovano più nel primo gruppo che nel secondo (ma non sfuggono neanche i lavoratori dipendenti, come non sfuggono gli insegnanti che fanno ripetizioni private in nero). Solo che isolare questo aspetto e ingigantirlo non fa che martellare sulle ginocchia di quelli che ancora portano sulle spalle l’onere di tenere alto il benessere collettivo. Per questo il moralismo fiscale non è solo una teoria immorale, ma anche un preludio di distruzione.
Guardiamo i dati. Il Fmi ha rivisto le previsioni per l’anno prossimo, correggendole al ribasso. Conta molto lo scostamento fra la vecchia e la nuova previsione, conta il confronto fra le diverse aree e contano le balle che si vanno raccontando in Italia. Dunque: il mercato globale crescerà del 3,6%, anziché del 3,9; l’Unione europea dello 0,5 anziché dell’1; l’Unione monetaria (l’area dell’euro) dello 0,2 piuttosto che dello 0,7; mentre l’Italia recederà di un -0,7, rispetto al -0,3 prima previsto e al -0,2 di cui parla il governo. Le previsioni possono essere sbagliate, ma non lo è l’andamento che mettono in evidenza. Del resto, se il potere d’acquisto delle famiglie scende più del pil (annientando il risparmio) è segno che da qualche parte c’è una falla e da lì fuoriesce ricchezza. Quella falla è la pressione fiscale.
Prima considerazione: ma dove diavolo la vedono, la ripresa imminente? L’orizzonte è ancora buio. Seconda considerazione: il mondo cresce e le aziende italiane che lo navigano avranno risultati ottimi, come già oggi accade; l’ossigeno si fa rado se dall’Europa si passa all’Europa dell’euro, perché la politica restrittiva è fallimentare; mentre in Italia non si respira neanche con le bombole, perché impegnati a far compiti a casa che non solo sono di per sé recessivi, ma neanche alleviano il rapporto fra debito e pil (dato che il primo cresce con gli interessi e il secondo decresce). A fronte di questo quadro cosa facciamo, diciamo che tutti devono pagare più tasse? Ma allora tanto vale chiamare il reverendo James Warren Jones e procedere al rituale del suicidio di massa.
Quegli stessi dati, invece, ci dicono che ben diversa sarebbe la nostra sorte se ci mettessimo nelle condizioni di cavalcare i mercati. Abbiamo dimostrato, nel passato e nel presente, di saperlo fare. Questo comporta far crescere le aziende (ovvero l’esatto contrario di quel che si prevede con il sadomasochismo delle startup e delle varie legislazioni del lavoro e fiscali) e diminuire il costo del lavoro (non i salari). Possibile se il debito si abbatte con le dismissioni e non lo si serve mediante salassi. Possibile se si liberalizza e apre alla competizione, esaltando la meritocrazia in ogni campo. Possibile, insomma, se si limitano le protezioni a quelli che suppongono di avere ragione e si accresce la libertà di quelli cui si pretende di dare torto. Alternativa? L’avete davanti agli occhi, godetevela.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.