Dov'è finito il virtuosismo nostrano?
La débâcle del belpaese
E' ora di rimboccarsi le maniche se vogliamo risalire seriamente la chinadi Enrico Cisnetto - 26 giugno 2010
Dio ci scampi e liberi dalla retorica. E il calcio è fonte inesauribile di retorica, tanto quando si vince come quando si perde. E se poi a perdere è la Nazionale, e per di più in una maniera come mai era accaduto nella sua storia, allora le frasi fatte e le iperbole si sprecano. Ed è quello che accaduto a botta calda, puntualmente.
Non senza qualche incursione fuori dal perimetro del campo di football, come solo certa sociologia da strapazzo sa fare. Per di più, il calcio è fatto di episodi, e quindi se giovedì con la Slovacchia l’arbitro avesse concesso il goal sul tiro respinto sulla linea ma forse un pelo oltre, o se il guardalinee non avesse segnalato il fuorigioco millimetrico (ma esistente) di Quagliarella, oggi saremmo qui a raccontare un film diverso. O forse sarebbe bastato avere in panchina un allenatore meno cieco e presuntuoso, per avere nella rosa qualche campione rimasto a casa o vedere in campo qualcuno meno bolso di quelli su cui si è ostinato a insistere Lippi, e così superare agevolmente il turno (come era possibilissimo fare) e salvare decorosamente la faccia.
Insomma, le equazioni tra i risultati sportivi e le condizioni politiche e socio-economiche di un paese sono sempre un azzardo. Tuttavia, non credo di contraddire la premessa se osservo che nella rovinosa – e meritata – caduta dell’Italia ai Mondiali del Sudafrica si possono intravedere i segni del declino più complessivo che blocca da tempo questo nostro benedetto paese. Perché le analogie sono molte, e non c’è bisogno di ricorrere all’armamentario sgangherato dell’anti-politica, tipo “ci sono troppi stranieri nelle nostre squadre”, per capire che tra la Nazionale vecchia e priva degli stimoli necessari per conquistare traguardi sportivi e una classe politica autoreferenziale priva di visioni strategiche per il futuro del paese, c’è una linea di continuità magari sottile ma resistente.
E che tra una Nazionale capace solo di offrire “vecchie glorie”, intese come giocatori e schemi di gioco, e un capitalismo che fatica a tenere il passo con la velocità del cambiamento imposta al mondo dalle economie emergenti che hanno “fame di affermazione”, il passo è davvero breve.
Si dirà: ma il declino politico, economico e morale dell’Italia inizia ben prima di questa sconfitta calcistica, e quattro anni fa quando lo stesso allenatore e la stessa squadra (più o meno) erano diventati campioni del mondo, la decadenza italica già esisteva, dunque perché allora le condizioni del paese reale e di quello pallonaro divergevano e oggi invece convergono al ribasso? A parte il fatto che la vittoria del 2006 non fu molto meritata, tanto è vero che tutti parlarono di fortuna sfacciata, ma in realtà tra allora e oggi una differenza fondamentale c’è: quattro anni fa la crisi finanziaria mondiale non si era ancora manifestata – partirà un anno dopo la nostra vittoria in finale sulla Francia, con l’esplodere della bolla immobiliare – mentre oggi quella crisi, la più grave dal 1929 in poi, ha dispiegato tutta la sua furia devastatrice.
Con molte gravi conseguenze. La più importante delle quali è aver imposto al mondo globalizzato nuovi rapporti di forza, a tutto danno delle aree occidentali più ricche e appagate. Un processo di trasformazione che era già in atto da tempo, ma che la crisi ha brutalmente reso molto più evidente. E in questa situazione, a pagare il prezzo più alto è proprio l’Italia, che quando è scoppiata la crisi aveva accumulato di suo un gap di crescita economica misurabile in 15 punti di pil in 15 anni rispetto alla media europea e 35 punti rispetto agli Usa. Ma mentre fino a tutto il 2006 e inizio 2007 questa realtà era occultata da una classe dirigente che non vedeva o non voleva vedere e da una società civile troppo avvezza a cercare le scappatoie ai problemi per guardare in faccia la realtà, dopo, con la crisi, tutto è apparso più chiaro e nitido: l’Italia, come buona parte dell’Europa, è in declino, e in tutte le manifestazioni della vita – quelle economiche in primis, ma non solo – è ragionevolmente più destinata a soccombere che a vincere. Di qui la sconfitta in Sudafrica di Italia e Francia, e la fatica delle nazionali blasonate del Vecchio Continente a tener testa alle giovani e fresche nazionali dei paesi che vogliono emergere a tutti costi, che siano posizionati a Est, in Asia o in Africa.
E siccome ha ragione Mario Sechi, direttore del Tempo, quando dice che “il calcio è geopolitica allo stato puro, espressione della potenza e della vitalità di un paese”, ecco perché credo che ci sia una relazione profonda tra la condizione di declino dell’Italia – dovuto a stanchezza, appagamento, mancanza di rabbia nel combattere le avversità e i competitor, mancanza di visione strategica, inclinazione a sacrificare il futuro a favore del presente – e la debacle calcistica della Nazionale. Siamo ultimi. Prendiamone finalmente atto – e la sconfitta sul campo cui teniamo di più può aiutarci ad aprire gli occhi – e rimbocchiamoci. Per risalire. In tutte le classifiche.
Pubblicato da Liberal
Non senza qualche incursione fuori dal perimetro del campo di football, come solo certa sociologia da strapazzo sa fare. Per di più, il calcio è fatto di episodi, e quindi se giovedì con la Slovacchia l’arbitro avesse concesso il goal sul tiro respinto sulla linea ma forse un pelo oltre, o se il guardalinee non avesse segnalato il fuorigioco millimetrico (ma esistente) di Quagliarella, oggi saremmo qui a raccontare un film diverso. O forse sarebbe bastato avere in panchina un allenatore meno cieco e presuntuoso, per avere nella rosa qualche campione rimasto a casa o vedere in campo qualcuno meno bolso di quelli su cui si è ostinato a insistere Lippi, e così superare agevolmente il turno (come era possibilissimo fare) e salvare decorosamente la faccia.
Insomma, le equazioni tra i risultati sportivi e le condizioni politiche e socio-economiche di un paese sono sempre un azzardo. Tuttavia, non credo di contraddire la premessa se osservo che nella rovinosa – e meritata – caduta dell’Italia ai Mondiali del Sudafrica si possono intravedere i segni del declino più complessivo che blocca da tempo questo nostro benedetto paese. Perché le analogie sono molte, e non c’è bisogno di ricorrere all’armamentario sgangherato dell’anti-politica, tipo “ci sono troppi stranieri nelle nostre squadre”, per capire che tra la Nazionale vecchia e priva degli stimoli necessari per conquistare traguardi sportivi e una classe politica autoreferenziale priva di visioni strategiche per il futuro del paese, c’è una linea di continuità magari sottile ma resistente.
E che tra una Nazionale capace solo di offrire “vecchie glorie”, intese come giocatori e schemi di gioco, e un capitalismo che fatica a tenere il passo con la velocità del cambiamento imposta al mondo dalle economie emergenti che hanno “fame di affermazione”, il passo è davvero breve.
Si dirà: ma il declino politico, economico e morale dell’Italia inizia ben prima di questa sconfitta calcistica, e quattro anni fa quando lo stesso allenatore e la stessa squadra (più o meno) erano diventati campioni del mondo, la decadenza italica già esisteva, dunque perché allora le condizioni del paese reale e di quello pallonaro divergevano e oggi invece convergono al ribasso? A parte il fatto che la vittoria del 2006 non fu molto meritata, tanto è vero che tutti parlarono di fortuna sfacciata, ma in realtà tra allora e oggi una differenza fondamentale c’è: quattro anni fa la crisi finanziaria mondiale non si era ancora manifestata – partirà un anno dopo la nostra vittoria in finale sulla Francia, con l’esplodere della bolla immobiliare – mentre oggi quella crisi, la più grave dal 1929 in poi, ha dispiegato tutta la sua furia devastatrice.
Con molte gravi conseguenze. La più importante delle quali è aver imposto al mondo globalizzato nuovi rapporti di forza, a tutto danno delle aree occidentali più ricche e appagate. Un processo di trasformazione che era già in atto da tempo, ma che la crisi ha brutalmente reso molto più evidente. E in questa situazione, a pagare il prezzo più alto è proprio l’Italia, che quando è scoppiata la crisi aveva accumulato di suo un gap di crescita economica misurabile in 15 punti di pil in 15 anni rispetto alla media europea e 35 punti rispetto agli Usa. Ma mentre fino a tutto il 2006 e inizio 2007 questa realtà era occultata da una classe dirigente che non vedeva o non voleva vedere e da una società civile troppo avvezza a cercare le scappatoie ai problemi per guardare in faccia la realtà, dopo, con la crisi, tutto è apparso più chiaro e nitido: l’Italia, come buona parte dell’Europa, è in declino, e in tutte le manifestazioni della vita – quelle economiche in primis, ma non solo – è ragionevolmente più destinata a soccombere che a vincere. Di qui la sconfitta in Sudafrica di Italia e Francia, e la fatica delle nazionali blasonate del Vecchio Continente a tener testa alle giovani e fresche nazionali dei paesi che vogliono emergere a tutti costi, che siano posizionati a Est, in Asia o in Africa.
E siccome ha ragione Mario Sechi, direttore del Tempo, quando dice che “il calcio è geopolitica allo stato puro, espressione della potenza e della vitalità di un paese”, ecco perché credo che ci sia una relazione profonda tra la condizione di declino dell’Italia – dovuto a stanchezza, appagamento, mancanza di rabbia nel combattere le avversità e i competitor, mancanza di visione strategica, inclinazione a sacrificare il futuro a favore del presente – e la debacle calcistica della Nazionale. Siamo ultimi. Prendiamone finalmente atto – e la sconfitta sul campo cui teniamo di più può aiutarci ad aprire gli occhi – e rimbocchiamoci. Per risalire. In tutte le classifiche.
Pubblicato da Liberal
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.