Guardiamo a una politica industriale seria
La crisi non è solo congiunturale
Non ci si può illudere di poter superare la “nottata” senza pagare daziodi Enrico Cisnetto - 22 maggio 2009
Forse ha ragione Berlusconi: almeno a leggere la relazione di Emma Marcegaglia all’assemblea di Confindustria di ieri, la crisi non c’è. Sì, per carità, la presidente degli industriali esordisce dicendo che “siamo nel mezzo di una crisi violentissima”, ma la parola recessione non compare mai e non c’è un riferimento che uno alla spaventosa caduta della produzione, del fatturato e degli ordinativi dell’industria italiana. Eppure non si tratta di roba da poco.
La produzione, per esempio, dopo alcuni anni piuttosto piatti, aveva cominciato a perdere colpi già nel dicembre 2007 (-5,6%), e poi giù per tutto il 2008 (tranne gennaio, febbraio e aprile), con un crescendo che culmina nel -10,2% dell’ultimo trimestre e prosegue nei primi tre mesi del 2009 con cadute rispettivamente del 17,6%, del 21,2% e del 23,8%. E con punte del -25,6% per i beni strumentali e del -31,9% per quelli intermedi.
Questo significa che la capacità produttiva nazionale ha perso 6,75 punti percentuali negli ultimi 16 mesi (dicembre 2007-marzo 2009), 15,6 punti negli ultimi sei mesi e ben 21 punti nel primo trimestre di quest’anno.
Non molto diverso si presenta lo scenario se si guardano i dati Istat sia del fatturato industriale – sceso dell’8,3% nel quarto trimestre 2008 e del 22,4% nel primo di quest’anno – sia degli ordinativi, che rispettivamente con -20,3% e -30,6% negli stessi due trimestri, si presentano ancora peggiori e soprattutto presaghi di difficoltà anche nel corso di tutto il 2009.
Si tratta di numeri che avrebbero meritato non solo una citazione, ma anche e soprattutto una riflessione sulla forza con cui la crisi finanziaria si è trasferita sul terreno dell’economia produttiva. Anche perché Marcegaglia – giustamente – ha messo in rilievo come questa recessione sia destinata a cambiare il mondo. Questo significa che la crisi non è solo congiunturale, e dunque sarebbe bene che Confindustria capisse che la sua prima responsabilità è quella di indicare come il capitalismo che rappresenta debba riorganizzarsi sia per uscire dalla crisi prima e meglio possibile, sia per rendere domani duratura la nuova fase di crescita che si fosse imboccata.
Invece, la sensazione è che si guardi – in questo in modo speculare al sindacato – al mantenimento, il più possibile, dell’esistente. Da un lato, la Confindustria vuole il mantenimento delle imprese esistenti – tanto che chiede a governo e banche di sostenerle senza pregiudiziali di merito – anche se ben prima della crisi avevano mostrato la fragilità che ha portato il nostro pil alla “crescita zero” e comunque all’accumulo di un gap che negli ultimi 15 anni (1992-2007) è stato di 15 punti nei confronti di Eurolandia e di 35 punti verso gli Stati Uniti, e che dalla metà degli anni Novanta a oggi ha fatto scendere del 42% la quota che l’Italia detiene nel commercio mondiale (dal 4,5% al 2,6%).
Dall’altro, il sindacato, che vuole difendere a tutti i costi i posti di lavoro, anche quando si rivelano obsoleti. Se poi ci aggiungiamo il presidente Berlusconi che ieri ha parlato senza colpo ferire di “3,5 milioni di dipendenti pubblici che non rischiano il posto” (in realtà sono 3 milioni e 650 mila) – mentre l’egregio lavoro del ministro Brunetta s’incaricherà, se mai ce ne fosse bisogno, di dimostrare che una parte è decisamente eccedente – ecco la fotografia di un’Italia che fa finta che non sia successo niente e che s’illude di poter superare la “nottata” senza pagare dazio.
Certo, la Marcegaglia ha ragione da vendere quando chiede al governo di fare le riforme strutturali, asserendo che è nei momenti di crisi che occorre rivedere i vecchi assetti del sistema economico, sociale e istituzionale. Ma, a parte che la sua accorata richiesta avrebbe dovuto indurre la presidente a dare un giudizio sul Governo quantomeno più articolato e a mostrare più autonomia dallo stesso (la relazione consegnata il giorno prima al premier va oltre la normale cortesia), è proprio questa invocazione di riforme che dovrebbe indurre Confindustria a fare un’analisi più spietata della condizione del capitalismo italiano e quindi a entrare molto di più nel merito di una politica industriale che ancora non si vede.
Ci sono settori manifatturieri da abbandonare perché nella nuova “divisione internazionale della produzione” non c’è spazio per i costi italiani, così come ci sono settori in cui occorre rafforzarci e altri ancora in cui entrare. Non basta auspicare che le imprese aumentino il size, che s’internazionalizzino di più, che rafforzino il patrimonio, che investano e che facciano innovazione. Queste, dopo la crisi, sono solo pre-condizioni.
La produzione, per esempio, dopo alcuni anni piuttosto piatti, aveva cominciato a perdere colpi già nel dicembre 2007 (-5,6%), e poi giù per tutto il 2008 (tranne gennaio, febbraio e aprile), con un crescendo che culmina nel -10,2% dell’ultimo trimestre e prosegue nei primi tre mesi del 2009 con cadute rispettivamente del 17,6%, del 21,2% e del 23,8%. E con punte del -25,6% per i beni strumentali e del -31,9% per quelli intermedi.
Questo significa che la capacità produttiva nazionale ha perso 6,75 punti percentuali negli ultimi 16 mesi (dicembre 2007-marzo 2009), 15,6 punti negli ultimi sei mesi e ben 21 punti nel primo trimestre di quest’anno.
Non molto diverso si presenta lo scenario se si guardano i dati Istat sia del fatturato industriale – sceso dell’8,3% nel quarto trimestre 2008 e del 22,4% nel primo di quest’anno – sia degli ordinativi, che rispettivamente con -20,3% e -30,6% negli stessi due trimestri, si presentano ancora peggiori e soprattutto presaghi di difficoltà anche nel corso di tutto il 2009.
Si tratta di numeri che avrebbero meritato non solo una citazione, ma anche e soprattutto una riflessione sulla forza con cui la crisi finanziaria si è trasferita sul terreno dell’economia produttiva. Anche perché Marcegaglia – giustamente – ha messo in rilievo come questa recessione sia destinata a cambiare il mondo. Questo significa che la crisi non è solo congiunturale, e dunque sarebbe bene che Confindustria capisse che la sua prima responsabilità è quella di indicare come il capitalismo che rappresenta debba riorganizzarsi sia per uscire dalla crisi prima e meglio possibile, sia per rendere domani duratura la nuova fase di crescita che si fosse imboccata.
Invece, la sensazione è che si guardi – in questo in modo speculare al sindacato – al mantenimento, il più possibile, dell’esistente. Da un lato, la Confindustria vuole il mantenimento delle imprese esistenti – tanto che chiede a governo e banche di sostenerle senza pregiudiziali di merito – anche se ben prima della crisi avevano mostrato la fragilità che ha portato il nostro pil alla “crescita zero” e comunque all’accumulo di un gap che negli ultimi 15 anni (1992-2007) è stato di 15 punti nei confronti di Eurolandia e di 35 punti verso gli Stati Uniti, e che dalla metà degli anni Novanta a oggi ha fatto scendere del 42% la quota che l’Italia detiene nel commercio mondiale (dal 4,5% al 2,6%).
Dall’altro, il sindacato, che vuole difendere a tutti i costi i posti di lavoro, anche quando si rivelano obsoleti. Se poi ci aggiungiamo il presidente Berlusconi che ieri ha parlato senza colpo ferire di “3,5 milioni di dipendenti pubblici che non rischiano il posto” (in realtà sono 3 milioni e 650 mila) – mentre l’egregio lavoro del ministro Brunetta s’incaricherà, se mai ce ne fosse bisogno, di dimostrare che una parte è decisamente eccedente – ecco la fotografia di un’Italia che fa finta che non sia successo niente e che s’illude di poter superare la “nottata” senza pagare dazio.
Certo, la Marcegaglia ha ragione da vendere quando chiede al governo di fare le riforme strutturali, asserendo che è nei momenti di crisi che occorre rivedere i vecchi assetti del sistema economico, sociale e istituzionale. Ma, a parte che la sua accorata richiesta avrebbe dovuto indurre la presidente a dare un giudizio sul Governo quantomeno più articolato e a mostrare più autonomia dallo stesso (la relazione consegnata il giorno prima al premier va oltre la normale cortesia), è proprio questa invocazione di riforme che dovrebbe indurre Confindustria a fare un’analisi più spietata della condizione del capitalismo italiano e quindi a entrare molto di più nel merito di una politica industriale che ancora non si vede.
Ci sono settori manifatturieri da abbandonare perché nella nuova “divisione internazionale della produzione” non c’è spazio per i costi italiani, così come ci sono settori in cui occorre rafforzarci e altri ancora in cui entrare. Non basta auspicare che le imprese aumentino il size, che s’internazionalizzino di più, che rafforzino il patrimonio, che investano e che facciano innovazione. Queste, dopo la crisi, sono solo pre-condizioni.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.