L'editoriale di TerzaRepubblica
La crisi è istituzionale
Ma non insegnano nulla le elezioni tedesche? Andare al voto è inutile28 settembre 2013
Siamo alla crisi istituzionale, anticamera del commissariamento europeo dell’Italia. Nella nostra politica sembra ormai aver preso il sopravvento una follia senza limiti italiana che, paradosso dei paradossi, esplode in tutta la sua virulenza proprio quando dall’esito delle elezioni tedesche ci arriva il segnale chiaro di come da questa guerra insensata nessuno uscirà vincitore.
L’ammutinamento aventiniano dei parlamentari berlusconiani, per quanto ancora potenziale, è grave non solo perché segna una rottura istituzionale senza precedenti e senza logica, ma anche perché regala al Pd e al governo Letta un insperato alibi che finirà, inevitabilmente, per peggiorare le cose. E perchè costringe il Presidente della Repubblica ad imboccare – se la minaccia diventerà realtà – la preannunciata (al tempo dell’accettazione del secondo mandato) strada delle dimissioni, con tutte le drammatiche conseguenze che una scelta del genere comporta. Ad essere sinceri questa minacciata apocalisse, ultima stazione di una via crucis fatta di continui capovolgimenti di fronte tra ipotesi di rottura e di conciliazione, non ha come responsabile solo il Cavaliere – incapace di prendere atto di essere finito in un vicolo cieco e privo della lucidità necessaria per capire che separare le sorti della sua persona da quelle istituzionali del Paese è utile pure a lui, oltre che doveroso – ma anche un Pd irragionevole nell’andare a cercare il voto in Giunta sulla decadenza di Berlusconi da senatore prima del pronunciamento di Milano sull’interdizione dai pubblici uffici, e più in generale incapace di capire che rovesciare per via giudiziaria l’avversario significa suicidarsi politicamente un minuto dopo. Ma è colpevole pure un governo che, facendo poco e male, è inevitabilmente rimasto vittima della cosiddetta questione dell’agibilità politica del capo di uno dei tre partiti di maggioranza. Senza contare che ci saremmo aspettati, e tuttora ci aspettiamo, che qualcuno tra i pidiellini, memore di essere stato eletto per dar voce agli italiani moderati e nona quelli esagitati, finalmente trovasse il coraggio e la dignità di chiamarsi fuori da una simile corrida.
A tutti, poi, manca il senso della prospettiva. Ma basta esaminare il caso Germania per capire che non esiste altra possibilità di una convergenza tra centro-destra e centro-sinistra. Infatti, dopo che a caldo si è celebrata la vittoria elettorale della signora Merkel – che pure è stata significativa, in una misura che probabilmente nessun soggetto politico italiano oggi sulla scena sarebbe in grado di ottenere – si è visto che essa, seppure per pochi seggi, non è tale da consentire ai democristiani di governare da soli, tanto da spingerli ad aprire un dialogo con l’Spd per rieditare la Grosse Koalition di qualche anno fa. Ora, se non ce l’ha fatta la Merkel a conquistare la maggioranza senza dover cercare alleati, non si capisce perché ci dovrebbero riuscire Berlusconi, che non sarebbe comunque ricandidabile, o Renzi, ammesso e non concesso che sia lui il candidato (se dovesse riuscire, sarebbe perché si è spostato a sinistra, come già sta facendo, e questo riduce sensibilmente il suo risultato). Dunque, a chi conviene andare ad elezioni che, inesorabilmente, metterebbero Pd e Pdl (o come si chiamerà) nella condizione di dover tornare a fare quel patto che faticosamente hanno stipulato dopo gli assurdi tentativi “alternativi” di Bersani e l’empasse sulla Presidenza della Repubblica e che ora sono entrambi ansiosi di rompere?
Naturalmente, per cercare di evitare in extremis non solo la caduta del governo ma anche l’ancor più grave collasso istituzionale, dopo il passo fatale voluto da Berlusconi e l’insipienza conclamata del vertice del Pd, le speranze sono riposte solo in Letta e Napolitano. Il primo quando andrà alle camere deve pronunciare un discorso alto e forte, prospettando ai partiti un rinnovato patto di responsabilità costruito, questa volta, come un vero e proprio “piano di salvezza nazionale”. Il secondo non deve esitare – ma siamo certi che non avrà esitazioni – a mettere sul tavolo le sue dimissioni per indurre tutti a un minimo di ragionevolezza. Anche perché nel caso, prima di chiudere la legislatura e andare alle urne ci sarebbe da votare il successore di Napolitano, e la storia recente insegna che non è proprio cosa facile, tanto più se in un contesto di rottura Pd-Pdl come quello in atto. Se poi neppure di fronte al fatto che si aprirebbe una crisi istituzionale senza precedenti, e se davvero nessun insegnamento fosse venuto dalle elezioni tedesche, si andrà come alla “guerra per la guerra”, allora sarà giusto che agli italiani sia restituito il diritto di dire la loro. Sapendo fin d’ora che, senza alcun ricambio pronto, a rischio ci sarebbe la democrazia. E che l’Europa sarebbe di fronte al bivio, se lasciarci al nostro triste destino o se commissariarci come nemmeno in Grecia è successo. Epilogo comunque drammatico di una sciagurata Seconda Repubblica.
L’ammutinamento aventiniano dei parlamentari berlusconiani, per quanto ancora potenziale, è grave non solo perché segna una rottura istituzionale senza precedenti e senza logica, ma anche perché regala al Pd e al governo Letta un insperato alibi che finirà, inevitabilmente, per peggiorare le cose. E perchè costringe il Presidente della Repubblica ad imboccare – se la minaccia diventerà realtà – la preannunciata (al tempo dell’accettazione del secondo mandato) strada delle dimissioni, con tutte le drammatiche conseguenze che una scelta del genere comporta. Ad essere sinceri questa minacciata apocalisse, ultima stazione di una via crucis fatta di continui capovolgimenti di fronte tra ipotesi di rottura e di conciliazione, non ha come responsabile solo il Cavaliere – incapace di prendere atto di essere finito in un vicolo cieco e privo della lucidità necessaria per capire che separare le sorti della sua persona da quelle istituzionali del Paese è utile pure a lui, oltre che doveroso – ma anche un Pd irragionevole nell’andare a cercare il voto in Giunta sulla decadenza di Berlusconi da senatore prima del pronunciamento di Milano sull’interdizione dai pubblici uffici, e più in generale incapace di capire che rovesciare per via giudiziaria l’avversario significa suicidarsi politicamente un minuto dopo. Ma è colpevole pure un governo che, facendo poco e male, è inevitabilmente rimasto vittima della cosiddetta questione dell’agibilità politica del capo di uno dei tre partiti di maggioranza. Senza contare che ci saremmo aspettati, e tuttora ci aspettiamo, che qualcuno tra i pidiellini, memore di essere stato eletto per dar voce agli italiani moderati e nona quelli esagitati, finalmente trovasse il coraggio e la dignità di chiamarsi fuori da una simile corrida.
A tutti, poi, manca il senso della prospettiva. Ma basta esaminare il caso Germania per capire che non esiste altra possibilità di una convergenza tra centro-destra e centro-sinistra. Infatti, dopo che a caldo si è celebrata la vittoria elettorale della signora Merkel – che pure è stata significativa, in una misura che probabilmente nessun soggetto politico italiano oggi sulla scena sarebbe in grado di ottenere – si è visto che essa, seppure per pochi seggi, non è tale da consentire ai democristiani di governare da soli, tanto da spingerli ad aprire un dialogo con l’Spd per rieditare la Grosse Koalition di qualche anno fa. Ora, se non ce l’ha fatta la Merkel a conquistare la maggioranza senza dover cercare alleati, non si capisce perché ci dovrebbero riuscire Berlusconi, che non sarebbe comunque ricandidabile, o Renzi, ammesso e non concesso che sia lui il candidato (se dovesse riuscire, sarebbe perché si è spostato a sinistra, come già sta facendo, e questo riduce sensibilmente il suo risultato). Dunque, a chi conviene andare ad elezioni che, inesorabilmente, metterebbero Pd e Pdl (o come si chiamerà) nella condizione di dover tornare a fare quel patto che faticosamente hanno stipulato dopo gli assurdi tentativi “alternativi” di Bersani e l’empasse sulla Presidenza della Repubblica e che ora sono entrambi ansiosi di rompere?
Naturalmente, per cercare di evitare in extremis non solo la caduta del governo ma anche l’ancor più grave collasso istituzionale, dopo il passo fatale voluto da Berlusconi e l’insipienza conclamata del vertice del Pd, le speranze sono riposte solo in Letta e Napolitano. Il primo quando andrà alle camere deve pronunciare un discorso alto e forte, prospettando ai partiti un rinnovato patto di responsabilità costruito, questa volta, come un vero e proprio “piano di salvezza nazionale”. Il secondo non deve esitare – ma siamo certi che non avrà esitazioni – a mettere sul tavolo le sue dimissioni per indurre tutti a un minimo di ragionevolezza. Anche perché nel caso, prima di chiudere la legislatura e andare alle urne ci sarebbe da votare il successore di Napolitano, e la storia recente insegna che non è proprio cosa facile, tanto più se in un contesto di rottura Pd-Pdl come quello in atto. Se poi neppure di fronte al fatto che si aprirebbe una crisi istituzionale senza precedenti, e se davvero nessun insegnamento fosse venuto dalle elezioni tedesche, si andrà come alla “guerra per la guerra”, allora sarà giusto che agli italiani sia restituito il diritto di dire la loro. Sapendo fin d’ora che, senza alcun ricambio pronto, a rischio ci sarebbe la democrazia. E che l’Europa sarebbe di fronte al bivio, se lasciarci al nostro triste destino o se commissariarci come nemmeno in Grecia è successo. Epilogo comunque drammatico di una sciagurata Seconda Repubblica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.