Nuove riforme
La corda
Riforma elettorale: interesse comune, ma senza intaccare la contrapposizione tra i due partitidi Davide Giacalone - 09 febbraio 2012
Prima vediamo come sono disposti i pezzi sulla scacchiera, poi chiediamocene il perché e, infine, cerchiamo di capire come può andare a finire. Silvio Berlusconi ha preso in considerazione l’ipotesi di un governo che veda convergere e partecipare il Pdl e il Pd. I segretari dei due partiti, Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, lo hanno escluso. Leggano The Wall Street Journal, che definisce il governo Monti di “unità nazionale”, né si può dargli torto, dato che da lontano certe fumisterie non si vedono. In compenso un terzetto per parte (non a caso senza i segretari) firma un documento congiunto, impegnandosi ad una riforma del sistema elettorale che sia coerente con la riforma del sistema istituzionale. La contraddizione è evidente: per fare la riforma istituzionale occorre un accordo, e un clima, che supera la durata di questa legislatura, quindi occorre quel che si nega. Questa la disposizione, passiamo al perché.
Quando una democrazia deve affrontare momenti difficili, le riforme da farsi sono sia costituzionali che elettorali e le necessità del mercato richiedono la riscrittura del patto sociale che sta a base della convivenza, è possibile che si acceda a governi cui partecipano forze politiche altrimenti alternative. Noi ne abbiamo due, di crisi: una interna, legata al debito pubblico e alla scarsa crescita, una crisi di governance; e una esterna, dovuta alla debolezza istituzionale dell’euro e agli attacchi speculativi contro i debiti sovrani. Doppio buon motivo, quindi. Ma per fare le grandi coalizioni occorrono forze politiche che coltivino una qualche idea del futuro, le nostre, invece, sono ripiegate nel presente e con la testa rivolta al passato, sicché si qualificano essenzialmente per l’essere contrapposte. Ecco perché, caso unico in Europa, preferiscono essere ostaggio di un governo tecnico piuttosto che protagoniste della ripartenza. Orbe di futuro annaspano in contraddizioni irrisolvibili. Il segretario del Pd è andato dal Presidente della Repubblica per lamentarsi di un voto parlamentare, evidentemente dimentico di tante parole sulla centralità del Parlamento. Poi mette il piede su un’altra buccia di banana, rivendicando il diritto-dovere del governo d’influire sulla Rai, così cancellando decenni di loro battaglie, in senso opposto.
Il Pdl, dal canto suo, fa finta che siano delle rivelazioni inaspettate le profondissime divisioni interne che avevano portato il governo Berlusconi ad essere defunto ben prima della caduta, salvo non accorgersi della cosa più rilevante: il Quirinale ha ammesso d’essersi regolato ascoltando un ministro, quindi non osservando il dettato costituzionale. In tema elettorale il segretario di quel partito chiede che gli elettori continuino a potere scegliere il capo del governo, dimenticando che non hanno mai avuto tale possibilità. Sono pugili un po’ suonati, che si reggono a vicenda ma non sono capaci di sospendere lo scontro e puntare ad un nuovo, meno patetico, incontro. Intanto Mario Monti va avanti, con un programma che è il derivato delle lettere inviate, dal precedente governo, alla Banca centrale europea e alla Commissione. A ben guardare, in fondo, con Monti trionfa il berlusconismo: a. i sondaggi hanno preso il posto delle elezioni; b. si governa avendo cancellato i partiti. Noi, vetusti estimatori delle urne e della politica, guardiamo incuriositi e, nei limiti del possibile, anche divertiti. Il governo si regge perché le grosse forze politiche sono state esautorate e commissariate, mentre trasformarlo in una scelta politica comporterebbe, da parte loro, una lucidità e una vitalità di cui non dispongono. Bloccando tale prospettiva cercano la sopravvivenza nella loro identità per negazione: ciascuno vive perché alternativo all’altro. Vale, però, quel che avvertimmo subito alla nascita del governo Monti: se il tempo dei tecnici non fosse anche quello della riforma elettorale i due grossi partiti si vedrebbero abbandonati dagli elettori, il cui rifiuto del voto darebbe maggior peso agli antagonisti.
Da qui la pretesa di coltivare l’interesse comune (la riforma del sistema elettorale) senza far venire meno la contrapposizione. Pretesa così poco retta da idee chiare che, difatti, sia nel Pd che nel Pdl c’è chi punta ad arrivare alle urne incorporando il montismo. In tale scenario il governo procede a colpi di tasse e puntando sull’articolo 18, additando negli autonomi gli evasori e nei lavoratori dipendenti una sopravvivenza del passato, quindi alienando elettori agli uni e agli altri. Poi aggiungendo che i sondaggi registrano il gradimento popolare. Con i giornaloni che deglutiscono tutto, pure che le liberalizzazioni faranno crescere il pil di dieci punti, salvo poi dare corda alle notizie che fiaccano la credibilità dei tecnici (ciarlieri più del dovuto). Difficile non vedere a cosa quella corda s’attorciglia.
Quando una democrazia deve affrontare momenti difficili, le riforme da farsi sono sia costituzionali che elettorali e le necessità del mercato richiedono la riscrittura del patto sociale che sta a base della convivenza, è possibile che si acceda a governi cui partecipano forze politiche altrimenti alternative. Noi ne abbiamo due, di crisi: una interna, legata al debito pubblico e alla scarsa crescita, una crisi di governance; e una esterna, dovuta alla debolezza istituzionale dell’euro e agli attacchi speculativi contro i debiti sovrani. Doppio buon motivo, quindi. Ma per fare le grandi coalizioni occorrono forze politiche che coltivino una qualche idea del futuro, le nostre, invece, sono ripiegate nel presente e con la testa rivolta al passato, sicché si qualificano essenzialmente per l’essere contrapposte. Ecco perché, caso unico in Europa, preferiscono essere ostaggio di un governo tecnico piuttosto che protagoniste della ripartenza. Orbe di futuro annaspano in contraddizioni irrisolvibili. Il segretario del Pd è andato dal Presidente della Repubblica per lamentarsi di un voto parlamentare, evidentemente dimentico di tante parole sulla centralità del Parlamento. Poi mette il piede su un’altra buccia di banana, rivendicando il diritto-dovere del governo d’influire sulla Rai, così cancellando decenni di loro battaglie, in senso opposto.
Il Pdl, dal canto suo, fa finta che siano delle rivelazioni inaspettate le profondissime divisioni interne che avevano portato il governo Berlusconi ad essere defunto ben prima della caduta, salvo non accorgersi della cosa più rilevante: il Quirinale ha ammesso d’essersi regolato ascoltando un ministro, quindi non osservando il dettato costituzionale. In tema elettorale il segretario di quel partito chiede che gli elettori continuino a potere scegliere il capo del governo, dimenticando che non hanno mai avuto tale possibilità. Sono pugili un po’ suonati, che si reggono a vicenda ma non sono capaci di sospendere lo scontro e puntare ad un nuovo, meno patetico, incontro. Intanto Mario Monti va avanti, con un programma che è il derivato delle lettere inviate, dal precedente governo, alla Banca centrale europea e alla Commissione. A ben guardare, in fondo, con Monti trionfa il berlusconismo: a. i sondaggi hanno preso il posto delle elezioni; b. si governa avendo cancellato i partiti. Noi, vetusti estimatori delle urne e della politica, guardiamo incuriositi e, nei limiti del possibile, anche divertiti. Il governo si regge perché le grosse forze politiche sono state esautorate e commissariate, mentre trasformarlo in una scelta politica comporterebbe, da parte loro, una lucidità e una vitalità di cui non dispongono. Bloccando tale prospettiva cercano la sopravvivenza nella loro identità per negazione: ciascuno vive perché alternativo all’altro. Vale, però, quel che avvertimmo subito alla nascita del governo Monti: se il tempo dei tecnici non fosse anche quello della riforma elettorale i due grossi partiti si vedrebbero abbandonati dagli elettori, il cui rifiuto del voto darebbe maggior peso agli antagonisti.
Da qui la pretesa di coltivare l’interesse comune (la riforma del sistema elettorale) senza far venire meno la contrapposizione. Pretesa così poco retta da idee chiare che, difatti, sia nel Pd che nel Pdl c’è chi punta ad arrivare alle urne incorporando il montismo. In tale scenario il governo procede a colpi di tasse e puntando sull’articolo 18, additando negli autonomi gli evasori e nei lavoratori dipendenti una sopravvivenza del passato, quindi alienando elettori agli uni e agli altri. Poi aggiungendo che i sondaggi registrano il gradimento popolare. Con i giornaloni che deglutiscono tutto, pure che le liberalizzazioni faranno crescere il pil di dieci punti, salvo poi dare corda alle notizie che fiaccano la credibilità dei tecnici (ciarlieri più del dovuto). Difficile non vedere a cosa quella corda s’attorciglia.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.