L'azione economica dell'esecutivo
La coperta è corta. Quindi?
Abbiamo partorito un governo utile, ma stiamo buttando via un'ottima occasionedi Enrico Cisnetto - 14 giugno 2013
Stiamo facendo il gioco della “coperta corta”. E quando si battono i denti, è la cosa più stupida che si possa fare: testa o gambe che restino scoperte, sempre di freddo si muore. Abbiamo miracolosamente partorito un governo di grande coalizione, cioè esattamente quello che ci vuole in situazioni di emergenza, ma stiamo buttando via l’occasione – probabilmente non a caso, visto che il patto di maggioranza è nato per sfinimento, senza alcuna convinzione (specie a sinistra) e soprattutto senza la necessaria consapevolezza – proprio perché anziché provare a fare le cose fino a ieri impossibili, i partiti e gli stessi ministri si dividono sulla priorità da dare alle piccole cose possibili, che per nobilitarle vengono chiamate emergenze.
Esattamente la “coperta corta”: c’è chi la tira per Imu e blocco dell’aumento dell’Iva, c’è chi all’opposto la tira per finanziare la cassa integrazione e inventarsi politiche per il lavoro. Forse si riesce, con fatica e tempi infiniti, a fare in modo che copra un po’ sia le une che le altre parti scoperte. E forse la coperta non si rompe, specie se si trova come elemento unificante la comune invocazione all’Europa di concederci una coperta più larga. Non è detto, e fra poco vediamo perché, ma quand’anche? Non servirebbe a nulla. Una fatica perfettamente inutile: non è così che si salva l’Italia. L’unico modo è cambiare la coperta. E per farlo occorrono terapie choc. Operazioni straordinarie. Un grande piano nazionale, non europeo.
Dunque, non cado nella trappola di dire se è più urgente togliere la tassa sulla prima casa o allungare la cassa integrazione, se è peggio chiudere i negozi (più Iva = meno consumi) o le fabbriche (Confartigianato calcola che la pressione fiscale è il 68,3% sugli utili lordi d’impresa), che sembra diventato lo sport più diffuso. No, va modificato il punto di partenza del ragionamento, vanno cambiati i paradigmi.
Partiamo da alcuni presupposti. Primo: l’Italia viene da 10 anni di crescita modesta, molto più lenta dei competitor (anni Novanta), da sette di crescita zero (fino al 2007) e sta vivendo il sesto anno di recessione (a fine 2013 si saranno persi quasi dieci punti di pil e il 25% della capacità produttiva). Dunque, il mancato sviluppo non è un’emergenza, ma una (gravissima) malattia cronica. Secondo: quando si sono gettate le basi per l’euro, stabilendo i famosi parametri europei, l’Italia era fuori registro sia per il debito che per il deficit. A oltre vent’anni da Maastricht, dopo aver privatizzato per 19 punti di pil, ci ritroviamo con il deficit sotto controllo grazie all’avanzo primario (pagato con una stretta fiscale micidiale, visto che la spesa corrente è cresciuta) ma con un debito nettamente peggiorato. Il che non ci consente, salvo uscire dall’euro (ipotesi che ci impoverirebbe nella misura tra il 30% e il 50%), di avere margini di manovra. Terzo: è certo che l’Europa dell’austerità a tutti i costi è una fregatura per chiunque, compresi gli assertori della linea dura. Ma è inutile illudersi che ci possano fare chissà quali sconti. Sia per via del debito, sia perché siamo il paese che meno e peggio sfrutta le risorse comunitarie messe a disposizione per i vari investimenti, sia infine perché quando ci hanno concesso deroghe, come nel caso dei pagamenti dei debiti arretrati delle amministrazioni pubbliche, ci siamo dimostrati incapaci – incredibile la lentezza e la parzialità con cui le imprese sono messe in condizione di essere pagate – di approfittarne. Quarto: il crollo di ieri della Borsa di Tokyo, il secondo nel giro di poco, segnala che la nuova politica giapponese (abenomics) presenta criticità forti, e che comunque non si può passare dall’austerità a stampare moneta come se niente fosse. Dunque, sulla politica europea non facciamo troppe illusioni.
Tutto questo porta a dire che dobbiamo mettere in campo misure straordinarie (per dimensione) e strutturali (non emergenziali), e che dobbiamo farlo a prescindere dall’Europa. Letta lasci perdere i giochi di equilibrio tra Pd e Pdl, non si illuda che siano le politiche soft – pur necessarie, sia chiaro – tipo le semplificazioni o le normative per i giovani a risolvere la crisi italiana. Usi dosi massicce di coraggio, e prepari una grande iniziativa che: a. metta in gioco il patrimonio pubblico (dello Stato ma anche degli enti locali); b. incentivi ma obblighi il patrimonio privato a rendersi funzionale allo sviluppo; c. converta una fetta tra il 10% e il 20% della spesa pubblica da spesa corrente a investimenti in conto capitale. Un operazione da qualche centinaio di miliardi, da spendersi sia riducendo in modo significativo il carico fiscale su imprese e lavoro, sia dando il via ad alcuni piani di infrastrutturazione (materiali e immateriali) del paese, sia infine favorendo la nascita di nuove realtà industriali.
Al congresso della Cisl, Bonanni lo ha detto a Letta con amicizia ma anche con ruvida convinzione: occorre una cura choc. Ieri lo ha detto Marchionne, evocando un vero e proprio piano Marshall. Questo per dire che il Paese è pronto. Anzi, desideroso che finalmente ci sia qualcuno che sappia fare uno scarto di corsia. Solo la politica, che gioca con la “coperta corta”, non l’ha capito. Ma Letta, che so esserne cosciente, deve battere un colpo. Secco.
Esattamente la “coperta corta”: c’è chi la tira per Imu e blocco dell’aumento dell’Iva, c’è chi all’opposto la tira per finanziare la cassa integrazione e inventarsi politiche per il lavoro. Forse si riesce, con fatica e tempi infiniti, a fare in modo che copra un po’ sia le une che le altre parti scoperte. E forse la coperta non si rompe, specie se si trova come elemento unificante la comune invocazione all’Europa di concederci una coperta più larga. Non è detto, e fra poco vediamo perché, ma quand’anche? Non servirebbe a nulla. Una fatica perfettamente inutile: non è così che si salva l’Italia. L’unico modo è cambiare la coperta. E per farlo occorrono terapie choc. Operazioni straordinarie. Un grande piano nazionale, non europeo.
Dunque, non cado nella trappola di dire se è più urgente togliere la tassa sulla prima casa o allungare la cassa integrazione, se è peggio chiudere i negozi (più Iva = meno consumi) o le fabbriche (Confartigianato calcola che la pressione fiscale è il 68,3% sugli utili lordi d’impresa), che sembra diventato lo sport più diffuso. No, va modificato il punto di partenza del ragionamento, vanno cambiati i paradigmi.
Partiamo da alcuni presupposti. Primo: l’Italia viene da 10 anni di crescita modesta, molto più lenta dei competitor (anni Novanta), da sette di crescita zero (fino al 2007) e sta vivendo il sesto anno di recessione (a fine 2013 si saranno persi quasi dieci punti di pil e il 25% della capacità produttiva). Dunque, il mancato sviluppo non è un’emergenza, ma una (gravissima) malattia cronica. Secondo: quando si sono gettate le basi per l’euro, stabilendo i famosi parametri europei, l’Italia era fuori registro sia per il debito che per il deficit. A oltre vent’anni da Maastricht, dopo aver privatizzato per 19 punti di pil, ci ritroviamo con il deficit sotto controllo grazie all’avanzo primario (pagato con una stretta fiscale micidiale, visto che la spesa corrente è cresciuta) ma con un debito nettamente peggiorato. Il che non ci consente, salvo uscire dall’euro (ipotesi che ci impoverirebbe nella misura tra il 30% e il 50%), di avere margini di manovra. Terzo: è certo che l’Europa dell’austerità a tutti i costi è una fregatura per chiunque, compresi gli assertori della linea dura. Ma è inutile illudersi che ci possano fare chissà quali sconti. Sia per via del debito, sia perché siamo il paese che meno e peggio sfrutta le risorse comunitarie messe a disposizione per i vari investimenti, sia infine perché quando ci hanno concesso deroghe, come nel caso dei pagamenti dei debiti arretrati delle amministrazioni pubbliche, ci siamo dimostrati incapaci – incredibile la lentezza e la parzialità con cui le imprese sono messe in condizione di essere pagate – di approfittarne. Quarto: il crollo di ieri della Borsa di Tokyo, il secondo nel giro di poco, segnala che la nuova politica giapponese (abenomics) presenta criticità forti, e che comunque non si può passare dall’austerità a stampare moneta come se niente fosse. Dunque, sulla politica europea non facciamo troppe illusioni.
Tutto questo porta a dire che dobbiamo mettere in campo misure straordinarie (per dimensione) e strutturali (non emergenziali), e che dobbiamo farlo a prescindere dall’Europa. Letta lasci perdere i giochi di equilibrio tra Pd e Pdl, non si illuda che siano le politiche soft – pur necessarie, sia chiaro – tipo le semplificazioni o le normative per i giovani a risolvere la crisi italiana. Usi dosi massicce di coraggio, e prepari una grande iniziativa che: a. metta in gioco il patrimonio pubblico (dello Stato ma anche degli enti locali); b. incentivi ma obblighi il patrimonio privato a rendersi funzionale allo sviluppo; c. converta una fetta tra il 10% e il 20% della spesa pubblica da spesa corrente a investimenti in conto capitale. Un operazione da qualche centinaio di miliardi, da spendersi sia riducendo in modo significativo il carico fiscale su imprese e lavoro, sia dando il via ad alcuni piani di infrastrutturazione (materiali e immateriali) del paese, sia infine favorendo la nascita di nuove realtà industriali.
Al congresso della Cisl, Bonanni lo ha detto a Letta con amicizia ma anche con ruvida convinzione: occorre una cura choc. Ieri lo ha detto Marchionne, evocando un vero e proprio piano Marshall. Questo per dire che il Paese è pronto. Anzi, desideroso che finalmente ci sia qualcuno che sappia fare uno scarto di corsia. Solo la politica, che gioca con la “coperta corta”, non l’ha capito. Ma Letta, che so esserne cosciente, deve battere un colpo. Secco.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.