Lo spread di Ferragosto.
La calma prima della tempesta
Stiamo per giungere ad una settimana decisiva per l'Euro: ecco gli scenari possibili dopo le ferie di Ferragosto, dove lo spread sembra un anestesticodi Enrico Cisnetto - 17 agosto 2012
Il Ferragosto anestetizzante, con lo spread italiano vicino a quota 400 e quello spagnolo sotto quota 500, può solo fare l’effetto della morfina: calma il dolore, ma lascia intatta la malattia. Il rischio, conoscendoci, è che ci si illuda del contrario. Era già successo a marzo, quando per un momento lo scarto tra i rendimenti dei Btp e dei Bund era sceso sotto i 300 punti: non erano ancora finite le frasi di compiacimento, che in poche battute lo spread erano tornato a volare. Ma tant’è, ci ricaschiamo. Pronosticato che la speculazione avrebbe rinunciato alle vacanze pur di portare l’attacco finale a Italia e Spagna, una volta visto che così (finora) non è, ecco che tutti si sono già dimenticati dell’odiato nemico. Ricordo la scorsa estate, di segno completamente diverso: c’erano ancora i riflettori accesi di “Cortina InConTra” – questa è la prima estate senza, come ricorda il “tormentone” di Pigi Battista – e ogni giorno la gente voleva sapere come erano andate le Borse e gli spread, tanto che gli avevamo dovuto dedicare uno spazio fisso, quale che fosse l’argomento dell’evento in programma. L’ansia si tagliava con il coltello. La gente mi fermava per strada per chiedermi cosa sarebbe stato di noi. Eppure, il top toccato in quella caldissima estate era stato 389 punti il 4 agosto. Vero che in tutto il primo semestre 2011 l’andamento era stato altalenante, toccando la quota minima di 122 punti il 4 aprile e quella massima di 214 punti il 24 giugno. Poi in 34 giorni lo spread era quasi raddoppiato. Ma stiamo pur sempre parlando di un livello più basso di quello odierno (ieri ha chiuso a 428). Ciononostante, dello spread non parla più nessuno. Sarà che ci abbiamo fatto l’abitudine, ma è tornata ad essere una questione tecnica, per addetti ai lavori.
Eppure, le prossime settimane potrebbero rivelarsi cruciali per il futuro dell’euro. Già il 23 agosto, quando Hollande si recherà a Berlino ad incontrare la Merkel, sapremo se la Francia confermerà di non essere, come mai lo è stata nonostante certe illusioni italiote, il paese leader del fronte mediterraneo, o se avrà cambiato idea. A giudicare dal gioco allo scavalco nazionalistico dei leader dell’Spd nei confronti della cancelliera tedesca, cui non vogliono lasciare la primazia del “rigorismo”, la sinistra europea non ha alcuna intenzione di offrire sponde a Italia e Spagna, così come non le ha offerte alla Grecia (e non gliene offre neanche oggi quando chiede una moratoria di due anni sugli impegni presi). Per arrivare al 12 settembre, quando in Germania ci sarà la tanto attesa decisione della Corte Costituzionale sulla compatibilità del Fondo salva-Stati Esm e del Fiscal compact con la carta fondamentale tedesca.
Cosa potrà succedere? Che la Bce sarà autorizzata ad intervenire, ma che la pressione speculativa riprenderà pesantemente, finendo per rendere inutili (nel senso di non decisivi) gli acquisti dei titoli degli Stati in difficoltà. Noi arriviamo a quel passaggio “importante ma non decisivo” senza aver scelto se lanciare l’help, aggiungendo così incertezza a incertezza. Il rischio è che, una volta constatata la transitorietà dell’intervento della Bce – non certo per colpa sua, sia chiaro – nel giro di breve tempo si chieda a noi e agli spagnoli di uscire parzialmente dalla moneta unica, (ri)costituendo divise nazionali ma “agganciate” all’euro, in modo che la Bce possa sostenerne il cambio in cambio del fatto che non verrebbe restituita la piena sovranità monetaria. Poi qui le tecnicalità possono essere diverse: si va dal “cambio fisso” (tipo corona danese) a, più realisticamente, una “banda stretta di oscillazione” (tipo zloty polacco). Ma tutte basate sul principio che costerebbe meno sostenere il cambio esterno di lira e peseta che acquistare indefinitamente titoli del debito pubblico per calmierare gli spread. Per carità, una trattativa più serrata di quella del 1997 potrebbe consentirci un’uscita ad un cambio con l’euro ragionevole (per esempio, 2.200 lire come valore centrale della banda di oscillazione). Ma è illusorio (vedo che aumentano le adesioni al “partito degli illusi”) credere che riguadagneremmo competitività sufficiente a rimettere in moto la nostra economia e compensare i gap che abbiamo accumulato. Anche perché, il nostro export è forte ma limitato, mentre dopo 20 anni di specializzazione globale, per quel che resta del nostro apparato produttivo l’aumento dei prezzi dei beni intermedi importati che seguirebbe alla “svalutazione” probabilmente si rivelerebbe esiziale.
Ma questo è quello che, volenti o nolenti, ci aspetta in autunno. Appena saranno finite le ferie con l’anestetico.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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