Crisi, le illusioni dei super ottimisti
“L’Italia sta meglio degli altri”?
Per quanto tempo ancora il Paese potrà vivere di solo “passato”?di Enrico Cisnetto - 12 ottobre 2009
Rieccoli, quelli che “l’Italia sta meglio degli altri”. Alla notizia che la produzione industriale è andata meglio ad agosto che a luglio – mesi notoriamente decisivi per valutare l’andamento delle imprese! – e di fronte alla benedizione dell’Ocse, che ci assegna la palma, insieme ai francesi, di migliori “agganciatori” della ripresa, l’adrenalina degli “ottimisti duri e puri” è salita a mille. “Ecco la conferma, brutti pessimisti-disfattisti-menagramo che non siete altro, che noi ottimisti abbiamo sempre avuto ragione a non dubitare che il declino fosse un’invenzione, se non addirittura uno strumento del complotto anti-berlusconiano in atto”, hanno subito urlato all’indirizzo di chi si è permesso di dubitare.
Peccato che, come dice lo stesso Istat, agosto sia un mese scarsamente significativo e che su base annua (agosto su agosto) il dato grezzo corretto dagli effetti di calendario registri una caduta niente meno che del 18,3%. E peccato che la Confindustria – non certo annoverabile tra i disfattisti – abbia già detto che a settembre, mese decisivo per capire se le fabbriche abbiano o meno riaperto dopo le ferie, la produzione è scesa rispetto ad agosto del 3,2%, il che significa che sarà circa -15% su base annua. Cosa che non consente neppure di parlare di ricostituzione, se non molto parziale, delle scorte.
Ergo: se nell’annus horribilis che comprende il secondo semestre del 2008 e il primo del 2009 l’industria italiana ha perso un quarto della sua produzione, viceversa l’inizio dell’anno di transizione dalla crisi (luglio 2009-giugno 2010), è contrassegnato da un rallentamento – probabilmente da -25% a -15-18% – della perdita di dimensione, ma non da un rovesciamento della tendenza. Forse nella seconda metà dell’anno prossimo si potrà ulteriormente ridurre a -10%, ma questo significa che pur sempre un pezzo considerevole della nostra muscolatura produttiva sarebbe andato perduto.
E siccome il terziario è ancora troppo dipendente dalla manifattura per considerarsi esente da problemi, e la stessa agricoltura – o meglio, la filiera agroalimentare, che complessivamente pesa sul pil per un 16-17% – è afflitta da crisi settoriali di non poco conto, ecco spiegata la riduzione del pil di quest’anno superiore al 5% e la crescita zero (se va bene) del prossimo.
Che poi questi dati possano scatenare incontenibili pulsioni positive, beh, diciamo che ognuno è libero di autosuggestionarsi come crede. Diverso, però, è che su valutazioni arbitrarie – che tali sono anche perché non tengono conto della permanente caduta di produttività, competitività e quote di mercato del commercio mondiale di cui il nostro capitalismo soffre da oltre tre lustri – si illuda un paese e si costruiscano politiche economiche inadeguate se non fallaci.
Quanto alla valutazione dell’Ocse, essa è corretta nella misura in cui si basa sulla curva dei consumi, che mantenendosi abbastanza stabile rappresenta il vero plus rispetto agli altri paesi. Però questa capacità di spesa degli italiani non deriva dal reddito prodotto, che negli ultimi 15 anni ha a malapena compensato l’inflazione, ma dal patrimonio accumulato negli scorsi decenni, cui abbiamo attinto e continuiamo sempre più ad attingere (tanto che fino a qualche anno fa era 9 volte il pil con tendenza a 10 e ora è 8 volte con tendenza a 7). Domanda: può un paese vivere di solo “passato”? E per quanto tempo ancora?
Peccato che, come dice lo stesso Istat, agosto sia un mese scarsamente significativo e che su base annua (agosto su agosto) il dato grezzo corretto dagli effetti di calendario registri una caduta niente meno che del 18,3%. E peccato che la Confindustria – non certo annoverabile tra i disfattisti – abbia già detto che a settembre, mese decisivo per capire se le fabbriche abbiano o meno riaperto dopo le ferie, la produzione è scesa rispetto ad agosto del 3,2%, il che significa che sarà circa -15% su base annua. Cosa che non consente neppure di parlare di ricostituzione, se non molto parziale, delle scorte.
Ergo: se nell’annus horribilis che comprende il secondo semestre del 2008 e il primo del 2009 l’industria italiana ha perso un quarto della sua produzione, viceversa l’inizio dell’anno di transizione dalla crisi (luglio 2009-giugno 2010), è contrassegnato da un rallentamento – probabilmente da -25% a -15-18% – della perdita di dimensione, ma non da un rovesciamento della tendenza. Forse nella seconda metà dell’anno prossimo si potrà ulteriormente ridurre a -10%, ma questo significa che pur sempre un pezzo considerevole della nostra muscolatura produttiva sarebbe andato perduto.
E siccome il terziario è ancora troppo dipendente dalla manifattura per considerarsi esente da problemi, e la stessa agricoltura – o meglio, la filiera agroalimentare, che complessivamente pesa sul pil per un 16-17% – è afflitta da crisi settoriali di non poco conto, ecco spiegata la riduzione del pil di quest’anno superiore al 5% e la crescita zero (se va bene) del prossimo.
Che poi questi dati possano scatenare incontenibili pulsioni positive, beh, diciamo che ognuno è libero di autosuggestionarsi come crede. Diverso, però, è che su valutazioni arbitrarie – che tali sono anche perché non tengono conto della permanente caduta di produttività, competitività e quote di mercato del commercio mondiale di cui il nostro capitalismo soffre da oltre tre lustri – si illuda un paese e si costruiscano politiche economiche inadeguate se non fallaci.
Quanto alla valutazione dell’Ocse, essa è corretta nella misura in cui si basa sulla curva dei consumi, che mantenendosi abbastanza stabile rappresenta il vero plus rispetto agli altri paesi. Però questa capacità di spesa degli italiani non deriva dal reddito prodotto, che negli ultimi 15 anni ha a malapena compensato l’inflazione, ma dal patrimonio accumulato negli scorsi decenni, cui abbiamo attinto e continuiamo sempre più ad attingere (tanto che fino a qualche anno fa era 9 volte il pil con tendenza a 10 e ora è 8 volte con tendenza a 7). Domanda: può un paese vivere di solo “passato”? E per quanto tempo ancora?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.