Una giustizia da film di Alberto Sordi
L’insostenibile inferno delle carceri
Urge un percorso riformista, ispirato alla severità della leggedi Davide Giacalone - 05 novembre 2009
Nel gran minestrone dell’informazione i fatti si gettano a casaccio, in attesa d’essere dimenticati, lasciando irrisolti i problemi. Si sono ritrovati assieme, nei commenti e nelle invettive pubbliche, il suicidio di Diana Blefari Melazzi, la morte di Stefano Cucchi, il sovraffollamento della carceri ed il relativo sciopero convocato dagli avvocati penalisti, per il prossimo 27 novembre. Ingredienti disomogenei, destinati a creare una sbobba indigeribile.
La signora Blefari meritava, tutto quanto, il carcere a vita. Non è una vittima, ma un carnefice. Non paga di avere avuto un ruolo decisivo nell’accoppare un uomo inerte, colpito solo per le sue idee, arrivò a rimproverarsi di non averlo prima torturato. E’ stata condannata, in primo e secondo grado, all’ergastolo. La seconda sentenza fu annullata dalla cassazione, sicché si rifece l’appello e fu ancora condannata all’ergastolo, poi confermato in cassazione. Pare fosse depressa. Di gente giuliva, in carcere, se ne vede poca. Nessuno l’ha uccisa, né indotta a togliersi la vita, s’è suicidata. Il personale di sorveglianza l’ha soccorsa, trovandola ancora viva, ma, purtroppo, non in tempo per rimediare al suo gesto. Dopo di che, può ben darsi che si dovesse fare di più, ma, francamente, non vesto il lutto.
Mi dispiace, se taluno valuterà troppo dure queste parole, ma quel che ho letto è assai preoccupante. “Onore alla compagna”?! Poi un pietismo fuor di luogo, che ha un senso se privato, ma è stucchevole se si cerca di farne costume perdonista. La pretesa punitiva dello Stato è legittima, in questo caso ottimamente riposta, e si chiama giustizia. Mescolare questa vicenda a quella degli altri detenuti, che vivono in condizioni disumane, è, per loro, offensivo.
Il caso di Cucchi è diverso, apparentemente dissennato. Prima si è detto che era stato pestato durante la notte, dai carabinieri. Ma è comparso in giudizio il giorno dopo e nessuno, padre ed avvocato compresi, ha visto segni di maltrattamento. Stava male, certo, come capita ai tossicodipendenti, tanto che sia il giudice che il pm gli hanno suggerito di farsi vedere, gli hanno chiesto se aveva bisogno di qualche cosa. In carcere è rimasto delle ore, poi il ricovero e la morte. Una questione tutta da chiarire, ma nella quale il sovraffollamento ed il resto non c’entrano.
Queste due storie, ed il giudizio che se ne da, non devono distogliere dal dato più generale e drammatico, relativo alla condizione di tutti i detenuti. Qui la politica ha le sue colpe più grandi, prima di tutto perché distratta appresso a bandiere del tutto prive di senso, come quella su cui si stampa la “durezza” e quella in cui si disegna “l’umanità”. Alla fine c’è solo un sistema colabrodo e feroce.
E’ vero, le carceri scoppiano, c’è troppa gente. Ma il dato ancora più scandaloso è che più della metà dei detenuti è in attesa di giudizio. Secondo quanto stabilisce l’articolo 27 della Costituzione, da noi, in carcere, per più della metà ci sono dei non colpevoli. Abominevole. Tale percentuale è sconosciuta in ogni altro Paese civile, ed è in netta crescita mano a mano che passa il tempo e la giustizia sprofonda. Quindi, sia detto sia ai fautori del pugno duro che ai cultori del cuore d’oro, l’unico modo per far passare le loro speranze, sia le une che le altre, è che la giustizia funzioni. E qui sospendo, perché ne ho scritto tante volte ed altrettante ne scriverò. Il punto essenziale è: deve essere al servizio dei cittadini e non delle toghe.
Posta quella condizione, non solo non è affatto detto che l’unica pena sia il carcere, ma neanche che l’unico carcere possibile sia quello che conosciamo. Ci vogliono pene alternative (dal domicilio al soggiorno, al braccialetto) e istituti diversi. Non tutti i detenuti hanno la stessa pericolosità sociale. Un pedofilo devo tenerlo chiuso, un corruttore lo posso anche mettere in una comune agricola, avvertendolo: spendo poco per controllarti e mi fido che tu abbia capito che ti conviene rigare dritto, ma se ti allontani ti ripiglio e ti faccio scontare il decuplo della pena. Rimarrebbero quasi tutti, perché solo la delinquenza organizzata può assicurare la vivibilità della latitanza.
Una volta sfollate le carceri, ed ampliati i posti, sarà possibile rendere produttivo il tempo che ci si trascorre, non dedicandole solo all’inscatolamento di carne umana. L’Unione Camere Penali, convocando lo sciopero, fa riferimento al principio costituzionale della pena come “rieducazione”. Il termine è datato, ed anche un filino (maoisticamente) pericoloso. Diciamo che la pena dovrebbe essere utile al futuro ritorno in società. Quindi: curare i malati (l’epatite riguarda moltissimi); disintossicare i drogati (circa il 30%); istruire gli ignoranti; insegnare un lavoro. Accanto allo scopo più evidente: pagare per il reato commesso.
In questi anni di falsa severità sono state date molte colpe alla legge Gozzini, limitandola e smozzicandola. Sbagliato, quella è una buona legge, che premia chi si comporta bene, ma richiede buoni magistrati e buone strutture. Si deve curare la febbre, non spezzare il termometro.
Infine, un accenno ad una sacrosanta rivendicazione dei penalisti: ai detenuti a regime di 41 bis (carcere duro, sul quale qui ometto ogni altra considerazione) sono limitati, nel numero e nella durata, i colloqui con il difensore. E’ intollerabile. Se ci sono avvocati collusi con i criminali, li si accusi e condanni. Ma questo non può comportare limitazioni al diritto di difesa, senza il quale non c’è giustizia.
Quello sommariamente descritto, chiedendo anticipatamente scusa per ciò che manca e ciò che è stato brutalmente riassunto, è un percorso riformista, ispirato alla severità della legge, alla certezza ed equità della pena. Se non lo si percorre ci terremo le carceri trasformate in inferno, le guardie trasformate in aguzzini, la criminalità che la fa da padrona ed i poveri disgraziati che ne impazziscono. Questo film, con Alberto Sordi, è ora che finisca.
Pubblicato da Libero
Mi dispiace, se taluno valuterà troppo dure queste parole, ma quel che ho letto è assai preoccupante. “Onore alla compagna”?! Poi un pietismo fuor di luogo, che ha un senso se privato, ma è stucchevole se si cerca di farne costume perdonista. La pretesa punitiva dello Stato è legittima, in questo caso ottimamente riposta, e si chiama giustizia. Mescolare questa vicenda a quella degli altri detenuti, che vivono in condizioni disumane, è, per loro, offensivo.
Il caso di Cucchi è diverso, apparentemente dissennato. Prima si è detto che era stato pestato durante la notte, dai carabinieri. Ma è comparso in giudizio il giorno dopo e nessuno, padre ed avvocato compresi, ha visto segni di maltrattamento. Stava male, certo, come capita ai tossicodipendenti, tanto che sia il giudice che il pm gli hanno suggerito di farsi vedere, gli hanno chiesto se aveva bisogno di qualche cosa. In carcere è rimasto delle ore, poi il ricovero e la morte. Una questione tutta da chiarire, ma nella quale il sovraffollamento ed il resto non c’entrano.
Queste due storie, ed il giudizio che se ne da, non devono distogliere dal dato più generale e drammatico, relativo alla condizione di tutti i detenuti. Qui la politica ha le sue colpe più grandi, prima di tutto perché distratta appresso a bandiere del tutto prive di senso, come quella su cui si stampa la “durezza” e quella in cui si disegna “l’umanità”. Alla fine c’è solo un sistema colabrodo e feroce.
E’ vero, le carceri scoppiano, c’è troppa gente. Ma il dato ancora più scandaloso è che più della metà dei detenuti è in attesa di giudizio. Secondo quanto stabilisce l’articolo 27 della Costituzione, da noi, in carcere, per più della metà ci sono dei non colpevoli. Abominevole. Tale percentuale è sconosciuta in ogni altro Paese civile, ed è in netta crescita mano a mano che passa il tempo e la giustizia sprofonda. Quindi, sia detto sia ai fautori del pugno duro che ai cultori del cuore d’oro, l’unico modo per far passare le loro speranze, sia le une che le altre, è che la giustizia funzioni. E qui sospendo, perché ne ho scritto tante volte ed altrettante ne scriverò. Il punto essenziale è: deve essere al servizio dei cittadini e non delle toghe.
Posta quella condizione, non solo non è affatto detto che l’unica pena sia il carcere, ma neanche che l’unico carcere possibile sia quello che conosciamo. Ci vogliono pene alternative (dal domicilio al soggiorno, al braccialetto) e istituti diversi. Non tutti i detenuti hanno la stessa pericolosità sociale. Un pedofilo devo tenerlo chiuso, un corruttore lo posso anche mettere in una comune agricola, avvertendolo: spendo poco per controllarti e mi fido che tu abbia capito che ti conviene rigare dritto, ma se ti allontani ti ripiglio e ti faccio scontare il decuplo della pena. Rimarrebbero quasi tutti, perché solo la delinquenza organizzata può assicurare la vivibilità della latitanza.
Una volta sfollate le carceri, ed ampliati i posti, sarà possibile rendere produttivo il tempo che ci si trascorre, non dedicandole solo all’inscatolamento di carne umana. L’Unione Camere Penali, convocando lo sciopero, fa riferimento al principio costituzionale della pena come “rieducazione”. Il termine è datato, ed anche un filino (maoisticamente) pericoloso. Diciamo che la pena dovrebbe essere utile al futuro ritorno in società. Quindi: curare i malati (l’epatite riguarda moltissimi); disintossicare i drogati (circa il 30%); istruire gli ignoranti; insegnare un lavoro. Accanto allo scopo più evidente: pagare per il reato commesso.
In questi anni di falsa severità sono state date molte colpe alla legge Gozzini, limitandola e smozzicandola. Sbagliato, quella è una buona legge, che premia chi si comporta bene, ma richiede buoni magistrati e buone strutture. Si deve curare la febbre, non spezzare il termometro.
Infine, un accenno ad una sacrosanta rivendicazione dei penalisti: ai detenuti a regime di 41 bis (carcere duro, sul quale qui ometto ogni altra considerazione) sono limitati, nel numero e nella durata, i colloqui con il difensore. E’ intollerabile. Se ci sono avvocati collusi con i criminali, li si accusi e condanni. Ma questo non può comportare limitazioni al diritto di difesa, senza il quale non c’è giustizia.
Quello sommariamente descritto, chiedendo anticipatamente scusa per ciò che manca e ciò che è stato brutalmente riassunto, è un percorso riformista, ispirato alla severità della legge, alla certezza ed equità della pena. Se non lo si percorre ci terremo le carceri trasformate in inferno, le guardie trasformate in aguzzini, la criminalità che la fa da padrona ed i poveri disgraziati che ne impazziscono. Questo film, con Alberto Sordi, è ora che finisca.
Pubblicato da Libero
L'EDITORIALE
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.