E’ necessario un cambio di sistema
L’era della “Grande Innovazione”
Con un clima simile a quello del 1994, la Seconda Repubblica ha le ore contatedi Enrico Cisnetto - 05 ottobre 2009
Sono ovviamente d’accordo con quanto ha scritto su questo giornale Luca Cordero di Montezemolo – e che ripete fin dalla sua nomina a presidente della Confindustria – circa la necessità e l’urgenza di una svolta, quella che ha chiamato “Grande Innovazione”, per un Paese che da quasi due decenni non è governato. E se questo è il senso delle iniziative che il presidente della Fiat intende intraprendere con il suo nuovo pensatoio, ben vengano. Anche se, come ho già detto in una diversa circostanza, in altre sedi – penso, modestamente, a Società Aperta, ma non solo – e da molti (troppi) anni non sono mancate le capacità di analisi e di proposta, bensì quelle di iniziativa politica. Insomma, questo è il tempo dell’azione, se è corretta la valutazione – che so essere condivisa dallo stesso Montezemolo – che il Paese attraversa un momento simile a quello che ebbe a vivere nel 1992-1994 e che dunque in tempi relativamente brevi un processo di implosione spazzerà via quel bipolarismo malato che abbiamo chiamato convenzionalmente Seconda Repubblica, e con esso i sui maggiori protagonisti.
Tuttavia, nell’attesa che i tanti (troppi) indecisionisti che da tempo affabulano di “discese in campo” ma poi attendono un “red carpet” che nessuno gli stenderà mai, si decidano a trarre le debite conseguenze operative delle loro (corrette) valutazioni e delle loro (legittime) aspirazioni – anche per evitare che i Brunetta di turno abbiano materiale per le polemiche sul ruolo delle élite – è bene chiarirsi le idee su alcune questioni di natura programmatica. Non fosse altro per arrivare preparati al fatidico momento in cui la Politica (sì, quella con la maiuscola) avrà la chance di tornare al posto che le spetta. Esercizio che, Montezemolo o meno, farebbe bene anche a chi, come l’Udc, è già in campo – e nel campo giusto: il centro fuori dai due poli – ma ha più che mai bisogno di attrezzarsi nel predisporre un vero e proprio “programma di governo”, un grande progetto-paese per salvare l’Italia dall’inesorabile declino cui si è condannata.
E qui debbo denunciare una diversa valutazione con l’analisi di Montezemolo, quando afferma che in questi anni abbiamo assistito ad una crescente divaricazione tra le virtù del Paese, e in particolare delle imprese, e i vizi della politica. Mi sono ovviamente chiari questi ultimi – che denuncio da 15 anni senza essere mai caduto nella doppia trappola dell’anti-berlusconismo e dell’anti-comunismo – ma non vedo i primi.
O meglio, non mi paiono tali da giustificare il ripetersi del vecchio ritornello della società civile buona e della classe politica cattiva. Ma al di là della sociologia, il punto è decisivo proprio ai fini del lavoro programmatico che occorre fare.
Mi spiego. L’impianto di analisi che il Governo Berlusconi fa circa la crisi economica, si basa proprio su una premessa da cui io dissento profondamente, ma che Montezemolo rischia di avvalorare. Ed è quella che il grosso del capitalismo italiano negli anni scorsi, seppure con un qualche ritardo rispetto ai paesi nostri competitori, aveva provveduto a compiere il necessario turnaround per mettersi al passo con i nuovi paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica che hanno cambiato in modo epocale i termini della competizione economica mondiale. Ne consegue, sempre secondo il Governo, che per noi la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha avuto solo un effetto congiunturale, terminato il quale, con la ripresa globale, tutto tornerà come e meglio di prima.
Di qui l’idea che “durante la crisi non si fanno riforme strutturali”, cui si sono aggiunti altri mantra tipo “non lasceremo indietro nessuno, la pace sociale è un bene primario”, o ancora “tutti i soldi che abbiamo li spendiamo per la cassa integrazione e gli ammortizzatori sociali esistenti”.
Fino al punto di massacrare le banche affermando il principio, pericolosissimo, che “il credito non si nega a nessuno”. Parole d’ordine sbagliate o, come nel caso della pace sociale, obiettivo giusti ma realizzati con mezzi sbagliati (l’immobilismo). Insomma, la logica è quella del puntellare l’esistente.
Logica che, a mio avvio, serve a guadagnare tempo (che in politica è una scelta molto praticata, purtroppo) ma fa male, molto male, al Paese. Invece, occorre capire che quella premessa è infondata – lo dico con dispiacere, ovviamente vorrei che fosse il contrario – e lo è perché altrimenti non si spiegherebbe il declino competitivo del nostro sistema economico, che lo stesso Montezemolo denuncia con molta efficacia, come ha fatto nei quattro anni della sua presidenza di Confindustria.
Perché se è vero che alcun nodi che strozzano la nostra competitività sono di sistema e quindi chiamano in causa le responsabilità politico-amministrative – dal gap infrastrutturale a quello energetico, dal disastro di scuola e università a quello della giustizia – non meno decisive sono le peculiarità negative del mondo produttivo, dalla dimensione micro delle imprese alla loro sotto-capitalizzazione e sotto-managerializzazione, dall’eccesso di presenza in settori maturi o comunque labour intensive (e quindi ad appannaggio delle econome emergenti) alla scarsa capacità di innovazione e di internazionalizzazione. Mali da cui si sono sì emancipate, e con successo, imprese medie e medio-piccole, ma di numero assai limitato.
A star larghi, 100-150 mila imprese e gruppi rispetto ai 5 milioni esistenti. Troppo poche, e troppo di nicchia, per produrre un modello di sviluppo alternativo a quello vecchio e ormai del tutto obsoleto. E, d’altra parte, se così non fosse, come si spiega che l’Italia ha vissuto una lunga fase di stagnazione, che l’ha portata a perdere in quindici anni 15 punti di pil rispetto alla media di Eurolandia e 35 rispetto agli Stati Uniti? Come si spiega che siamo stato l’unico paese Ocse, insieme al Giappone, ad essere già in piena recessione nel 2008 e come mai le previsioni per quest’anno e i prossimi ci inchiodano a differenze di ritmi di crescita persino con gli acciaccati paesi europei? Solo con la cattiva politica?
Ma se queste valutazioni sono fondate, ne consegue che il compito della politica oggi non è quello di difendere l’esistente (le pmi, i posti di lavoro, il welfare, il sistema pensionistico e quello sanitario, il federalismo, ecc.) bensì quello di mettere in campo una straordinaria capacità riformista. Che deve riguardare i “fattori” della produzione – cioè i nodi di sistema – ma anche i “settori”, cioè le imprese e il modello di sviluppo. Ed è su questo che, nel prossimo articolo, bisognerà entrare di più nel merito.
Tuttavia, nell’attesa che i tanti (troppi) indecisionisti che da tempo affabulano di “discese in campo” ma poi attendono un “red carpet” che nessuno gli stenderà mai, si decidano a trarre le debite conseguenze operative delle loro (corrette) valutazioni e delle loro (legittime) aspirazioni – anche per evitare che i Brunetta di turno abbiano materiale per le polemiche sul ruolo delle élite – è bene chiarirsi le idee su alcune questioni di natura programmatica. Non fosse altro per arrivare preparati al fatidico momento in cui la Politica (sì, quella con la maiuscola) avrà la chance di tornare al posto che le spetta. Esercizio che, Montezemolo o meno, farebbe bene anche a chi, come l’Udc, è già in campo – e nel campo giusto: il centro fuori dai due poli – ma ha più che mai bisogno di attrezzarsi nel predisporre un vero e proprio “programma di governo”, un grande progetto-paese per salvare l’Italia dall’inesorabile declino cui si è condannata.
E qui debbo denunciare una diversa valutazione con l’analisi di Montezemolo, quando afferma che in questi anni abbiamo assistito ad una crescente divaricazione tra le virtù del Paese, e in particolare delle imprese, e i vizi della politica. Mi sono ovviamente chiari questi ultimi – che denuncio da 15 anni senza essere mai caduto nella doppia trappola dell’anti-berlusconismo e dell’anti-comunismo – ma non vedo i primi.
O meglio, non mi paiono tali da giustificare il ripetersi del vecchio ritornello della società civile buona e della classe politica cattiva. Ma al di là della sociologia, il punto è decisivo proprio ai fini del lavoro programmatico che occorre fare.
Mi spiego. L’impianto di analisi che il Governo Berlusconi fa circa la crisi economica, si basa proprio su una premessa da cui io dissento profondamente, ma che Montezemolo rischia di avvalorare. Ed è quella che il grosso del capitalismo italiano negli anni scorsi, seppure con un qualche ritardo rispetto ai paesi nostri competitori, aveva provveduto a compiere il necessario turnaround per mettersi al passo con i nuovi paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica che hanno cambiato in modo epocale i termini della competizione economica mondiale. Ne consegue, sempre secondo il Governo, che per noi la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha avuto solo un effetto congiunturale, terminato il quale, con la ripresa globale, tutto tornerà come e meglio di prima.
Di qui l’idea che “durante la crisi non si fanno riforme strutturali”, cui si sono aggiunti altri mantra tipo “non lasceremo indietro nessuno, la pace sociale è un bene primario”, o ancora “tutti i soldi che abbiamo li spendiamo per la cassa integrazione e gli ammortizzatori sociali esistenti”.
Fino al punto di massacrare le banche affermando il principio, pericolosissimo, che “il credito non si nega a nessuno”. Parole d’ordine sbagliate o, come nel caso della pace sociale, obiettivo giusti ma realizzati con mezzi sbagliati (l’immobilismo). Insomma, la logica è quella del puntellare l’esistente.
Logica che, a mio avvio, serve a guadagnare tempo (che in politica è una scelta molto praticata, purtroppo) ma fa male, molto male, al Paese. Invece, occorre capire che quella premessa è infondata – lo dico con dispiacere, ovviamente vorrei che fosse il contrario – e lo è perché altrimenti non si spiegherebbe il declino competitivo del nostro sistema economico, che lo stesso Montezemolo denuncia con molta efficacia, come ha fatto nei quattro anni della sua presidenza di Confindustria.
Perché se è vero che alcun nodi che strozzano la nostra competitività sono di sistema e quindi chiamano in causa le responsabilità politico-amministrative – dal gap infrastrutturale a quello energetico, dal disastro di scuola e università a quello della giustizia – non meno decisive sono le peculiarità negative del mondo produttivo, dalla dimensione micro delle imprese alla loro sotto-capitalizzazione e sotto-managerializzazione, dall’eccesso di presenza in settori maturi o comunque labour intensive (e quindi ad appannaggio delle econome emergenti) alla scarsa capacità di innovazione e di internazionalizzazione. Mali da cui si sono sì emancipate, e con successo, imprese medie e medio-piccole, ma di numero assai limitato.
A star larghi, 100-150 mila imprese e gruppi rispetto ai 5 milioni esistenti. Troppo poche, e troppo di nicchia, per produrre un modello di sviluppo alternativo a quello vecchio e ormai del tutto obsoleto. E, d’altra parte, se così non fosse, come si spiega che l’Italia ha vissuto una lunga fase di stagnazione, che l’ha portata a perdere in quindici anni 15 punti di pil rispetto alla media di Eurolandia e 35 rispetto agli Stati Uniti? Come si spiega che siamo stato l’unico paese Ocse, insieme al Giappone, ad essere già in piena recessione nel 2008 e come mai le previsioni per quest’anno e i prossimi ci inchiodano a differenze di ritmi di crescita persino con gli acciaccati paesi europei? Solo con la cattiva politica?
Ma se queste valutazioni sono fondate, ne consegue che il compito della politica oggi non è quello di difendere l’esistente (le pmi, i posti di lavoro, il welfare, il sistema pensionistico e quello sanitario, il federalismo, ecc.) bensì quello di mettere in campo una straordinaria capacità riformista. Che deve riguardare i “fattori” della produzione – cioè i nodi di sistema – ma anche i “settori”, cioè le imprese e il modello di sviluppo. Ed è su questo che, nel prossimo articolo, bisognerà entrare di più nel merito.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.