Le peculiarità del “non-regime” berlusconiano
L’azzardo del Cavaliere
Senza i “mediatori di interessi” il Governo rischia di sobbarcarsi tutto il peso della crisidi Enrico Cisnetto - 02 marzo 2009
Questo non è un regime. E tantomeno è un ritorno di fascismo. Non dobbiamo far caso al culto del leader, all’uso forsennato della decretazione d’urgenza, all’abuso della fiducia in sede parlamentare. Di una caratteristica tipica del Fascismo, cioè il corporativismo, questo “ventennio berlusconiano” è proprio sprovvisto. Anzi, si può dire che lo stile berlusconiano è esattamente il contrario: più passano i giorni, e più è evidente il fastidio dell’uomo solo al comando per tutti quei “corpi intermedi”, dai sindacati alle associazioni imprenditoriali di categoria.
Ne abbiamo avuto diverse prove anche recentemente: prima con gli attacchi alla Confindustria, poi con il pugno di ferro sugli scioperi che cerca il muro contro muro con i sindacati; infine, con lo schiaffo del decreto Zaia sulle quote latte che sta facendo infuriare i rappresentanti degli agricoltori in regola. La prima vittima di questo trend è stata Emma Marcegaglia: quando, per una volta, la première dame di Viale dell’Astronomia ha osato alzare la testa e dire un po’ timidamente che le misure anticrisi varate dal Governo sono – forse – insufficienti, subito si è sentita accusare di corvaggine. Strano destino per una leader degli industriali che si era semmai distinta nel non dare fastidio al Governo fino ad apparire – anche agli occhi di molti suoi associati che per questo hanno vivacemente protestato, chiedendo ben più ampie rivendicazioni – un vero e proprio supporter. Eppure il presidente del Consiglio non si era mai posto il problema della legittimazione della Marcegaglia come interlocutore autonomo, tanto da convocare a palazzo Grazioli a suo piacimento alcuni “uomini del fare”, naturalmente scelti senza tener conto di alcuna delega confindustriale, di fatto privando la Confindustria di rappresentatività.
Come dire: è il premier che sceglie con chi parlare, avere un ruolo in Confindustria è inutile. Ma la Marcegaglia si consoli, non è l’unica a dover subire – ammesso e non concesso che la signora viva la cosa come una limitazione – le riunioni de “l’Italia del fare”: nei prossimi giorni anche un gruppo di banchieri sono stati convocati a cena a palazzo Grazioli, prescindendo dall’Abi e dai suoi rappresentanti.
L’altra “bestia nera” nel mirino del Governo sono i sindacati, e in particolare la Cgil. La quale, pur portatrice di responsabilità gravissime per quanto riguarda il declino del Paese, si è vista recapitare improvvisamente il pacco-bomba del ddl sulla nuova disciplina degli scioperi negoziato come al solito prima con la Cisl di Bonanni poi con la Uil di Angeletti. Il decreto, pur partendo da esigenze comprensibili e condivisibili (evitare blocchi selvaggi nei trasporti e nei servizi di pubblica utilità), rischia di apparire più una provocazione che non il frutto di una seria volontà riformistica. Prevedere la possibilità di “scioperi virtuali” o indicare il divieto di “blocchi della circolazione” nell’articolazione delle manifestazioni sono, specie al cospetto degli eccessi fin qui praticati, scelte giustificate dall’esigenza di tutelare l’interesse dei terzi. Ma un conto è condividere opzioni così importanti, altro è presentarle come un “prendere o lasciare”.
Ultima “corporazione” ad essere finita nel mirino del Governo è quella degli agricoltori. Che lunedì prossimo convergeranno in massa, con un migliaio di trattori, proprio ad Arcore, per manifestare direttamente al premier il loro disagio profondo. In particolare, per chiedere misure serie in grado di sostenere quello che in fin dei conti si chiama “settore primario” dell’economia, e per denunciare la soluzione-bluff della questione delle quote latte, che di fatto ha penalizzato la gran parte degli allevatori onesti, circa 40 mila, a vantaggio di qualche centinaio di furbi “graziati” dal ministro Zaia.
Cosa, questa, che crea una situazione paradossale: a protestare saranno gli iscritti di Confagricoltura, che nella grande maggioranza hanno sempre votato centro-destra, e che nel contestare le scelte del governo hanno a maggior ragione il dente avvelenato di chi si sente tradito. Sindacati, mondo dell’industria, agricoltori: difficile riuscire a scontentare tre fondamentali rappresentanze come queste allo stesso tempo. Difficile per queste “corporazioni” riuscire a trovare un loro “modus agendi” in un momento storico in cui Palazzo Chigi sembra cercare un dialogo diretto con gli elettori-cittadini-consumatori, scevro da qualunque ruolo di mediazione. Da una parte, si può provare ad essere fiancheggiatori, come è riuscito a Lady Emma finché non si è sentita tirare le orecchie dai suoi, o, sul fronte sindacale, come riesce sempre bene a Bonanni. E tuttavia, in questo caso la “amicizia” con Palazzo Chigi, a parte una medaglia da appendere sul doppiopetto o sul tailleur, non ha risvolti pratici. Così, una Cisl o una Confindustria totalmente appiattite sulle posizioni del Governo rischiano tanto l’inconsistenza politica quanto la ribellione dei propri rappresentati.
Spetterà dunque a tutti questi “corpi intermedi” trovare il loro “ubi consistam”, destreggiandosi tra rappresentanza e legittimazione politica. Ma sappiano, se non se ne sono già accorti, che, in quanto “non-regime” e “non-fascista”, il ventennio berlusconiano li considera soltanto come degli inutili ammennicoli. “Il mio programma è il vostro”, è stato sempre il migliore mantra del cavaliere nei confronti delle diverse categorie padronali. “Forza Italia è un partito di lavoratori che fa riforme di sinistra”, è stato il messaggio rivolto spesso ai sindacati.
In realtà, di questi “mediatori di interessi”, Berlusconi non sa che farsene. Lui mira ad un dialogo “vis à vis” con l’elettore, l’unico interlocutore che considera interessante tanto da sondarne quotidianamente gli umori per potergli dire sempre quello che si vuole sentir dire. Ma, attenzione: perché se questo neo-populismo potesse anche funzionare in tempi normali, è molto difficile che possa reggere in anni (come questi, come i prossimi) in cui la recessione porterà un livello di disagio sociale devastante. Un livello di conflitto che dovrà essere necessariamente intercettato, gestito, declinato, proprio da quelle “corporazioni” che lui tanto sdegna. In caso contrario, in mancanza di questi corpi intermedi, il Governo rischia di prendere su di sé, senza mediazioni e filtri, tutto il contraccolpo che arriverà dalla crisi. Ed è un’esperienza che non auguriamo neanche al nostro peggiore nemico.
Ne abbiamo avuto diverse prove anche recentemente: prima con gli attacchi alla Confindustria, poi con il pugno di ferro sugli scioperi che cerca il muro contro muro con i sindacati; infine, con lo schiaffo del decreto Zaia sulle quote latte che sta facendo infuriare i rappresentanti degli agricoltori in regola. La prima vittima di questo trend è stata Emma Marcegaglia: quando, per una volta, la première dame di Viale dell’Astronomia ha osato alzare la testa e dire un po’ timidamente che le misure anticrisi varate dal Governo sono – forse – insufficienti, subito si è sentita accusare di corvaggine. Strano destino per una leader degli industriali che si era semmai distinta nel non dare fastidio al Governo fino ad apparire – anche agli occhi di molti suoi associati che per questo hanno vivacemente protestato, chiedendo ben più ampie rivendicazioni – un vero e proprio supporter. Eppure il presidente del Consiglio non si era mai posto il problema della legittimazione della Marcegaglia come interlocutore autonomo, tanto da convocare a palazzo Grazioli a suo piacimento alcuni “uomini del fare”, naturalmente scelti senza tener conto di alcuna delega confindustriale, di fatto privando la Confindustria di rappresentatività.
Come dire: è il premier che sceglie con chi parlare, avere un ruolo in Confindustria è inutile. Ma la Marcegaglia si consoli, non è l’unica a dover subire – ammesso e non concesso che la signora viva la cosa come una limitazione – le riunioni de “l’Italia del fare”: nei prossimi giorni anche un gruppo di banchieri sono stati convocati a cena a palazzo Grazioli, prescindendo dall’Abi e dai suoi rappresentanti.
L’altra “bestia nera” nel mirino del Governo sono i sindacati, e in particolare la Cgil. La quale, pur portatrice di responsabilità gravissime per quanto riguarda il declino del Paese, si è vista recapitare improvvisamente il pacco-bomba del ddl sulla nuova disciplina degli scioperi negoziato come al solito prima con la Cisl di Bonanni poi con la Uil di Angeletti. Il decreto, pur partendo da esigenze comprensibili e condivisibili (evitare blocchi selvaggi nei trasporti e nei servizi di pubblica utilità), rischia di apparire più una provocazione che non il frutto di una seria volontà riformistica. Prevedere la possibilità di “scioperi virtuali” o indicare il divieto di “blocchi della circolazione” nell’articolazione delle manifestazioni sono, specie al cospetto degli eccessi fin qui praticati, scelte giustificate dall’esigenza di tutelare l’interesse dei terzi. Ma un conto è condividere opzioni così importanti, altro è presentarle come un “prendere o lasciare”.
Ultima “corporazione” ad essere finita nel mirino del Governo è quella degli agricoltori. Che lunedì prossimo convergeranno in massa, con un migliaio di trattori, proprio ad Arcore, per manifestare direttamente al premier il loro disagio profondo. In particolare, per chiedere misure serie in grado di sostenere quello che in fin dei conti si chiama “settore primario” dell’economia, e per denunciare la soluzione-bluff della questione delle quote latte, che di fatto ha penalizzato la gran parte degli allevatori onesti, circa 40 mila, a vantaggio di qualche centinaio di furbi “graziati” dal ministro Zaia.
Cosa, questa, che crea una situazione paradossale: a protestare saranno gli iscritti di Confagricoltura, che nella grande maggioranza hanno sempre votato centro-destra, e che nel contestare le scelte del governo hanno a maggior ragione il dente avvelenato di chi si sente tradito. Sindacati, mondo dell’industria, agricoltori: difficile riuscire a scontentare tre fondamentali rappresentanze come queste allo stesso tempo. Difficile per queste “corporazioni” riuscire a trovare un loro “modus agendi” in un momento storico in cui Palazzo Chigi sembra cercare un dialogo diretto con gli elettori-cittadini-consumatori, scevro da qualunque ruolo di mediazione. Da una parte, si può provare ad essere fiancheggiatori, come è riuscito a Lady Emma finché non si è sentita tirare le orecchie dai suoi, o, sul fronte sindacale, come riesce sempre bene a Bonanni. E tuttavia, in questo caso la “amicizia” con Palazzo Chigi, a parte una medaglia da appendere sul doppiopetto o sul tailleur, non ha risvolti pratici. Così, una Cisl o una Confindustria totalmente appiattite sulle posizioni del Governo rischiano tanto l’inconsistenza politica quanto la ribellione dei propri rappresentati.
Spetterà dunque a tutti questi “corpi intermedi” trovare il loro “ubi consistam”, destreggiandosi tra rappresentanza e legittimazione politica. Ma sappiano, se non se ne sono già accorti, che, in quanto “non-regime” e “non-fascista”, il ventennio berlusconiano li considera soltanto come degli inutili ammennicoli. “Il mio programma è il vostro”, è stato sempre il migliore mantra del cavaliere nei confronti delle diverse categorie padronali. “Forza Italia è un partito di lavoratori che fa riforme di sinistra”, è stato il messaggio rivolto spesso ai sindacati.
In realtà, di questi “mediatori di interessi”, Berlusconi non sa che farsene. Lui mira ad un dialogo “vis à vis” con l’elettore, l’unico interlocutore che considera interessante tanto da sondarne quotidianamente gli umori per potergli dire sempre quello che si vuole sentir dire. Ma, attenzione: perché se questo neo-populismo potesse anche funzionare in tempi normali, è molto difficile che possa reggere in anni (come questi, come i prossimi) in cui la recessione porterà un livello di disagio sociale devastante. Un livello di conflitto che dovrà essere necessariamente intercettato, gestito, declinato, proprio da quelle “corporazioni” che lui tanto sdegna. In caso contrario, in mancanza di questi corpi intermedi, il Governo rischia di prendere su di sé, senza mediazioni e filtri, tutto il contraccolpo che arriverà dalla crisi. Ed è un’esperienza che non auguriamo neanche al nostro peggiore nemico.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.