Il limite del 3%
L’alleato olandese
Con le riforme, vincoli europei di bilancio più morbidi. Due piccioni con una favadi Enrico Cisnetto - 21 febbraio 2014
Uomo avvisato… uomo fortunato. Renzi, stretto tra le difficoltà che si rivelano più grandi di quanto le avesse (erroneamente) calcolate e le sceneggiate inutili, come l’incontro con Grillo di mercoledì (che non ha vincitori, hanno perso entrambi ben più di quanto abbiano potuto guadagnarci), ha trovato un inedito e inaspettato alleato sulla strada che lo porta a formare il governo: l’olandese Jeroen Dijsselbloem (si pronuncia Yerùn Dàisselblùm). Ministro delle Finanze nel governo lib-lab di Mark Rutte, è da un mese presidente dell’Eurogruppo in sostituzione di Jean-Claude Juncker, il lussemburghese che occupava quel posto dal 2005.
Voluto fortemente dai tedeschi, e per questo automaticamente bollato come “falco”, Dijsselbloem ha annunciato ieri di aver convinto il pluri-riluttante commissario Olli Rehn ad accettare la sua proposta di “riforme in cambio di più tempo per risanare i bilanci”, che prevede una maggiore flessibilità rispetto alla rigida applicazione delle regole su deficit e debito in cambio di interventi strutturali da definire preventivamente con la Commissione e da realizzare prima che Bruxelles conceda più tempo. Anche perché “molte delle riforme hanno anche effetti positivi sul bilancio, e quindi c’è connessione tra le due cose”, aggiunge con saggia prudenza Dijsselbloem.
Quindi, non solo i paesi debbono dimostrare il loro reale impegno riformatore, ma negoziare le riforme in sede comunitaria in modo puntuale. Il che, da un lato, significa ulteriore perdita di sovranità, ma dall’altro comporta due grandi vantaggi. Primo: vincolare il buon fine delle riforme, riducendo il margine di frenata delle opposizioni parlamentari e delle opinioni pubbliche. Secondo: togliersi di dosso il basto dei parametri europei, creandosi così maggiori margini di azione. Musica per le orecchie del presidente incaricato, immagino. Il quale farà bene a cogliere al volo l’aspetto positivo del messaggio del riccioluto 47enne ministro olandese, tenendone conto nel programma di governo che si accinge a formulare. E siccome quella è la questione delle questioni, per Renzi diventa la quadratura del cerchio. Lo schema di Dijsselbloem, infatti, gli consente di negoziare con l’Europa, senza pericolose forzature, e portare a casa quei margini di manovra che i suoi due ultimi predecessori non avevano nemmeno osato immaginare di poter trattare. Nello stesso tempo, si assicura la possibilità di mettere in cantiere alcune riforme vere, avendo l’onere di doverle pre-definire ma il vantaggio di “blindarle”. E infine, si guadagna margini di manovra per il rilancio dell’economia, che potrà spendersi in termini di riduzione delle tasse (cuneo fiscale e Irap) e/o di investimenti in conto capitale. Cosa di cui ha estremo bisogno, Renzi, visto che anche gli ultimi dati congiunturali relativi al fatturato e agli ordinativi dell’industria dimostrano – ove mai ce ne fosse ancora bisogno – che dicembre 2013 vanifica il trend migliorativo di ottobre e novembre e che comunque l’anno scorso, oltre a una caduta del pil dell1,9%, ha registrato una contrazione del 3,8% del fatturato e dell’1,3% degli ordinativi industriali, per colpa dei ribassi del mercato interno, che hanno vanificato i risultati conseguiti fuori confine.
Come hanno scritto Antonio Polito e Roberto Napoletano, c’è solo una via mediana tra l’obbedienza cieca ai dettami europei (di fatto espressi in lingua tedesca) e la ribellione, che presuppone una credibilità che l’Italia non ha. Ed è proprio quella intelligentemente e coraggiosamente indicata dall’olandese dal nome impronunciabile. Uno schema, questo, che tra l’altro renderebbe persino meno importante, se non addirittura marginale, la questione dell’uomo da mettere all’Economia (che peraltro, suggerirei di rispacchettare, almeno separando le Finanze da Tesoro e Bilancio, e portando la titolarità delle partecipazioni, con le relative indicazioni di nomina, alla presidenza del Consiglio). Perché a quel punto sarà palazzo Chigi a decidere il programma di riforme e negoziarlo in sede Ue, e poi a tenere la tabella di marcia della sua attuazione. Togliendo anche peso, almeno quello improprio, ai burocrati. Per esempio, in questo quadro, la spending review può essere riformulata, come è bene che sia, da lavoro di “spulcio delle voci di spesa” al ben più proficuo “risultato delle riforme”, dove il taglio dei costi è obiettivo succedaneo.
Un conto è cambiare il sistema sanitario, ricavandone “anche” un vantaggio economico, e altro è individuare sprechi – ammesso e non concesso che ci si riesca – con l’unico obiettivo di ridurre i costi, e dunque lasciando il sistema così com’è. Ed è solo uno dei tanti esempi di quelle riforme che Dijsselbloem individua come la “merce di scambio” con l’Europa.
Il nostro baldanzoso presidente in pectore farà propria e percorrerà la “via Dijsselbloem”? Spero che lui e i suoi consiglieri, tra un Grillo e l’altro, abbiano il tempo di accorgersene e studiarla.
Voluto fortemente dai tedeschi, e per questo automaticamente bollato come “falco”, Dijsselbloem ha annunciato ieri di aver convinto il pluri-riluttante commissario Olli Rehn ad accettare la sua proposta di “riforme in cambio di più tempo per risanare i bilanci”, che prevede una maggiore flessibilità rispetto alla rigida applicazione delle regole su deficit e debito in cambio di interventi strutturali da definire preventivamente con la Commissione e da realizzare prima che Bruxelles conceda più tempo. Anche perché “molte delle riforme hanno anche effetti positivi sul bilancio, e quindi c’è connessione tra le due cose”, aggiunge con saggia prudenza Dijsselbloem.
Quindi, non solo i paesi debbono dimostrare il loro reale impegno riformatore, ma negoziare le riforme in sede comunitaria in modo puntuale. Il che, da un lato, significa ulteriore perdita di sovranità, ma dall’altro comporta due grandi vantaggi. Primo: vincolare il buon fine delle riforme, riducendo il margine di frenata delle opposizioni parlamentari e delle opinioni pubbliche. Secondo: togliersi di dosso il basto dei parametri europei, creandosi così maggiori margini di azione. Musica per le orecchie del presidente incaricato, immagino. Il quale farà bene a cogliere al volo l’aspetto positivo del messaggio del riccioluto 47enne ministro olandese, tenendone conto nel programma di governo che si accinge a formulare. E siccome quella è la questione delle questioni, per Renzi diventa la quadratura del cerchio. Lo schema di Dijsselbloem, infatti, gli consente di negoziare con l’Europa, senza pericolose forzature, e portare a casa quei margini di manovra che i suoi due ultimi predecessori non avevano nemmeno osato immaginare di poter trattare. Nello stesso tempo, si assicura la possibilità di mettere in cantiere alcune riforme vere, avendo l’onere di doverle pre-definire ma il vantaggio di “blindarle”. E infine, si guadagna margini di manovra per il rilancio dell’economia, che potrà spendersi in termini di riduzione delle tasse (cuneo fiscale e Irap) e/o di investimenti in conto capitale. Cosa di cui ha estremo bisogno, Renzi, visto che anche gli ultimi dati congiunturali relativi al fatturato e agli ordinativi dell’industria dimostrano – ove mai ce ne fosse ancora bisogno – che dicembre 2013 vanifica il trend migliorativo di ottobre e novembre e che comunque l’anno scorso, oltre a una caduta del pil dell1,9%, ha registrato una contrazione del 3,8% del fatturato e dell’1,3% degli ordinativi industriali, per colpa dei ribassi del mercato interno, che hanno vanificato i risultati conseguiti fuori confine.
Come hanno scritto Antonio Polito e Roberto Napoletano, c’è solo una via mediana tra l’obbedienza cieca ai dettami europei (di fatto espressi in lingua tedesca) e la ribellione, che presuppone una credibilità che l’Italia non ha. Ed è proprio quella intelligentemente e coraggiosamente indicata dall’olandese dal nome impronunciabile. Uno schema, questo, che tra l’altro renderebbe persino meno importante, se non addirittura marginale, la questione dell’uomo da mettere all’Economia (che peraltro, suggerirei di rispacchettare, almeno separando le Finanze da Tesoro e Bilancio, e portando la titolarità delle partecipazioni, con le relative indicazioni di nomina, alla presidenza del Consiglio). Perché a quel punto sarà palazzo Chigi a decidere il programma di riforme e negoziarlo in sede Ue, e poi a tenere la tabella di marcia della sua attuazione. Togliendo anche peso, almeno quello improprio, ai burocrati. Per esempio, in questo quadro, la spending review può essere riformulata, come è bene che sia, da lavoro di “spulcio delle voci di spesa” al ben più proficuo “risultato delle riforme”, dove il taglio dei costi è obiettivo succedaneo.
Un conto è cambiare il sistema sanitario, ricavandone “anche” un vantaggio economico, e altro è individuare sprechi – ammesso e non concesso che ci si riesca – con l’unico obiettivo di ridurre i costi, e dunque lasciando il sistema così com’è. Ed è solo uno dei tanti esempi di quelle riforme che Dijsselbloem individua come la “merce di scambio” con l’Europa.
Il nostro baldanzoso presidente in pectore farà propria e percorrerà la “via Dijsselbloem”? Spero che lui e i suoi consiglieri, tra un Grillo e l’altro, abbiano il tempo di accorgersene e studiarla.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.