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Public Policy

Tra vocazione industriale e estremismo

L’agricoltura è ad un bivio

I cambiamenti epocali della politica comunitaria osteggiati da una minoranza talebana

di Enrico Cisnetto - 09 luglio 2007

Siccome non ne avevamo già abbastanza dell’ambientalismo anti-industriale – quello del “no” a tutto, dalla Tav agli impianti di riciclaggio dei rifiuti passando per i rigassificatori – adesso tocca sorbirci pure i talebani dell’agricoltura bucolica. Mercoledì 11 luglio a Bologna scenderanno in piazza quelli con le magliette gialle della Coldiretti – appoggiati dai rossi-verdi di sinistra e da qualche nero-verde di destra – per protestare contro Paolo De Castro (tra i pochi ministri sopra la sufficienza del governo Prodi) e il suo approccio moderno al progressivo avvicinamento al mercato del settore agroalimentare italiano, nel solco dei cambiamenti epocali della politica agricola comunitaria. Una scelta che rappresenta la “via pragmatica” alla trasformazione del primario, contro gli opposti estremismi del “protezionismo assistenziale” alla francese e del “localismo terzomondista” che magnifica le marmellate biologiche vendute a prezzi astronomici ai banchetti delle sagre paesane come nelle boutique del cibo per radical chic.

Scelta indispensabile, se si considera che quello agricolo è un comparto che conta 1,8 milioni di realtà, di cui però soltanto un quarto ha un giro d’affari annuo superiore ai 10mila euro (e realizza il 90% del fatturato complessivo), e di queste poco più di 200 mila rappresentano quella “minoranza trainante” che rifiuta l’assistenza, che fa sistema, che guarda oltre i confini nazionali, che investe sulla qualità, che integra in modo efficiente produzione, trasformazione e commercializzazione. Un mondo, dunque, che non ha certo bisogno di massimalismo tipo “nimby agricolo”, bensì di politiche di mercato per crescere. Come quelle decise dalla Ue nel 2003 per combattere gli sprechi legati al cosiddetto “accoppiamento”, in base al quale si finanziavano surplus produttivi prescindendo dalla reale domanda di consumo. Un decoupling che l’Italia ha saggiamente deciso di adottare in modo graduale già nella scorsa legislatura, per consentire agli operatori di adeguare le diverse filiere alle mutate esigenze del mercato. Come nel caso dell’ortofrutta, sul quale è stata lanciata la fatwa della Coldiretti, totalmente isolata rispetto alle 11 sigle (tra cui Confagricoltura, Cia, cooperazione, Cgil-Cisl-Uil) che invece hanno firmato col ministero un’intesa per applicare le nuove regole europee. Una decisione barricadera che non stupisce chi ha seguito la progressiva involuzione dell’associazione che per 40 anni fu di Paolo Bonomi (e che ora ha in Sergio Marini un presidente pro-tempore) da sindacato moderato e filo-governativo – storicamente collaterale alla Dc tanto da esprimere decine di parlamentari – strumento decisivo per l’emancipazione dei coltivatori diretti, a una strana rappresentanza che ibrida produttori e consumatori. Certo, è dai tempi dei Cobas del latte che la Coldiretti ha iniziato a perdere iscritti e potere contrattuale, ma non è con l’anti-storica guerra alle sperimentazioni genetiche o con le forzature nazionalistiche (come nel caso dell’etichettatura obbligatoria, che vorrebbero rendere autarchica anziché concordata con Bruxelles) che si può dare rappresentanza ad un mondo con un disperato bisogno di modernizzarsi. Povera “bonomiana”, ridotta a scendere in piazza con trattori e mucche come un qualsiasi “partito di lotta”, invece di scrivere le leggi come ai bei tempi in cui era “partito di governo”. Pubblicati su Il Messaggero di domenica 8 luglio

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.