Scuola e università
Istruzione sott'esame
I giovani guadagnano se la formazione è un valore, mentre da noi è spesa. Abbiamo il sistema meno selettivo e che produce meno laureati. Il che è coerente, ma umiliante.di Davide Giacalone - 11 giugno 2013
Il sovrapporsi degli esami di maturità e dei test per l’ammissione all’università non è solo un problema di calendari, ma di modelli. Incompatibili. I ministri dell’istruzione hanno malamente pasticciato e si continua a farlo, a dispetto dell’essere, gli ultimi due, non solo professori universitari, ma anche ex rettori. Ai politici si rimprovera di non avere competenze specifiche e quelli che dovrebbero averle (dubitativo d’obbligo) commettono gli stessi errori. Ciò dipende dal fatto che sono tutti prigionieri di una gabbia culturale, della quale non sono più capaci neanche di vedere le sbarre.
Gli esami di maturità sono esami di Stato. La loro ragione d’esistenza è legata al valore legale del titolo di studio. Il dibattito sulla loro abolizione si trascina da talmente tanti anni, è talmente ozioso, talmente condotto su canoni surreali (tipo: misurarsi con lo stress dell’esame è formativo), che gli astanti si sono dimenticati il perché della discussione: vanno eliminati perché va cancellato il valore legale del titolo di studio.
Il che non significa affatto avere meno selezione (ma il contrario), né toglie valore allo studio (ma il contrario). Significa solo che il pezzo di carta non può essere l’esclusiva e decisiva chiave per l’accesso a determinate carriere o lo scatto in determinate graduatorie. Naturalmente tutte legate al mondo della pubblica amministrazione, perché fuori da lì a nessuno importa un fico secco che il Tizio abbia la laurea in filosofia, se gli devono far fare l’archivista. Fate ora attenzione al salto mortale: da una parte non si vuole mollare il valore legale, perché la classe dirigente italiana è inguaribilmente statalista, conservatrice delle rendite, nonché disperatamente provinciale, ma siccome sappiamo tutti che è una gran cavolata ecco che al pezzo di carta tolgono il valore di passaporto per entrare all’università. Da qui il via libera ai test per l’accesso.
Quei test sono figli di un sistema, culturale e di mercato, totalmente diverso: siccome le singole università sono in competizione fra di loro, siccome mandarci i figli a studiare è un investimento delle famiglie, non solo è necessario conoscerne la collocazione nelle graduatorie (nazionali e internazionali), ma è evidente che se ne deve filtrare l’accesso, sottoponendo i candidati a un preventivo esame. In quel modello è interesse dell’università avere test affidabili (non terni al lotto), in modo da non farsi sfuggire possibili studenti di valore. E non vogliono farseli sfuggire perché da quelli dipenderanno le graduatorie future, con le quali andranno a chiedere soldi alle famiglie. E’ una catena virtuosa, che si regge su una logica ferrea (non perfetta, perché anche lì si fanno errori, ma logica). Se le università non sono in competizione fra di loro, però, se gli studenti le scelgono misurando non la qualità dei titoli che rilasciano, ma la distanza da dove dormono, se il loro prezzo è amministrato, a che servono i test d’ingresso? Risposta (desolante): a limitare il numero delle matricole, in modo da non far lievitare i costi della loro gestione.
E’ grazie a questo modo di ragionare che nella graduatoria del Times la prima università italiana è quella di Bologna, che si colloca a un vergognoso 226° posto. E vi pare che, a fronte di ciò, il problema è se i test li facciamo o no troppo a ridosso degli esami di maturità? E’ un problema idiota. Dove funzionano si fanno un anno prima, ma, appunto, funzionano dove non c’è il valore legale. Il capolavoro italico consiste nel volere mantenere un valore che, però, si nega proprio nella continuazione degli studi. Una barzelletta macabra.
I giovani guadagnano se la formazione è un valore, mentre da noi è spesa. Spesa che mantiene sé stessa, alimentando il sistema meno selettivo e che produce meno laureati. Il che è coerente, ma umiliante. Si può tagliare la spesa promuovendo la qualità, ma solo facendo correre la libertà. Il problema non è sincronizzare esami e test, ma risincronizzare le teste.
Gli esami di maturità sono esami di Stato. La loro ragione d’esistenza è legata al valore legale del titolo di studio. Il dibattito sulla loro abolizione si trascina da talmente tanti anni, è talmente ozioso, talmente condotto su canoni surreali (tipo: misurarsi con lo stress dell’esame è formativo), che gli astanti si sono dimenticati il perché della discussione: vanno eliminati perché va cancellato il valore legale del titolo di studio.
Il che non significa affatto avere meno selezione (ma il contrario), né toglie valore allo studio (ma il contrario). Significa solo che il pezzo di carta non può essere l’esclusiva e decisiva chiave per l’accesso a determinate carriere o lo scatto in determinate graduatorie. Naturalmente tutte legate al mondo della pubblica amministrazione, perché fuori da lì a nessuno importa un fico secco che il Tizio abbia la laurea in filosofia, se gli devono far fare l’archivista. Fate ora attenzione al salto mortale: da una parte non si vuole mollare il valore legale, perché la classe dirigente italiana è inguaribilmente statalista, conservatrice delle rendite, nonché disperatamente provinciale, ma siccome sappiamo tutti che è una gran cavolata ecco che al pezzo di carta tolgono il valore di passaporto per entrare all’università. Da qui il via libera ai test per l’accesso.
Quei test sono figli di un sistema, culturale e di mercato, totalmente diverso: siccome le singole università sono in competizione fra di loro, siccome mandarci i figli a studiare è un investimento delle famiglie, non solo è necessario conoscerne la collocazione nelle graduatorie (nazionali e internazionali), ma è evidente che se ne deve filtrare l’accesso, sottoponendo i candidati a un preventivo esame. In quel modello è interesse dell’università avere test affidabili (non terni al lotto), in modo da non farsi sfuggire possibili studenti di valore. E non vogliono farseli sfuggire perché da quelli dipenderanno le graduatorie future, con le quali andranno a chiedere soldi alle famiglie. E’ una catena virtuosa, che si regge su una logica ferrea (non perfetta, perché anche lì si fanno errori, ma logica). Se le università non sono in competizione fra di loro, però, se gli studenti le scelgono misurando non la qualità dei titoli che rilasciano, ma la distanza da dove dormono, se il loro prezzo è amministrato, a che servono i test d’ingresso? Risposta (desolante): a limitare il numero delle matricole, in modo da non far lievitare i costi della loro gestione.
E’ grazie a questo modo di ragionare che nella graduatoria del Times la prima università italiana è quella di Bologna, che si colloca a un vergognoso 226° posto. E vi pare che, a fronte di ciò, il problema è se i test li facciamo o no troppo a ridosso degli esami di maturità? E’ un problema idiota. Dove funzionano si fanno un anno prima, ma, appunto, funzionano dove non c’è il valore legale. Il capolavoro italico consiste nel volere mantenere un valore che, però, si nega proprio nella continuazione degli studi. Una barzelletta macabra.
I giovani guadagnano se la formazione è un valore, mentre da noi è spesa. Spesa che mantiene sé stessa, alimentando il sistema meno selettivo e che produce meno laureati. Il che è coerente, ma umiliante. Si può tagliare la spesa promuovendo la qualità, ma solo facendo correre la libertà. Il problema non è sincronizzare esami e test, ma risincronizzare le teste.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.