Dopo la condanna di Berlusconi
Il processo accusatorio è morto
Perseguendo solo alla fine la falsa testimonianza si crea un cortocircuito giuridico irrisolvibile.di Davide Giacalone - 27 giugno 2013
La sentenza milanese, che condanna Silvio Berlusconi per la faccenda della minorenne, ha un trascurato, ma non trascurabile, effetto collaterale: uccide il processo accusatorio. E’ un aspetto decisivo, largamente prevalente sul resto, il che rende ancora più significativo e inquietante che lo si sia rimosso.
Siccome conosco i miei polli, sicché son tutti pronti a dire che questa è una trovata per non parlare della faccenda grave, vale a dire della (ex) minorenne e della condanna, sbrigo la faccenda all’inizio: a. l’imputato è (in questo procedimento) al suo primo grado, e ricordo alla diffusa ignoranza che, in Italia, il processo è uno solo, talché la presunzione d’innocenza vale fino alla fine, mentre la colpevolezza solo dopo la condanna definitiva; b. il governante (di allora) si abbandonò a condotte incompatibili con il ruolo, non perché sia io moralista o me ne importi alcunché di quel che ciascuno fa in brachette, ma perché l’insieme delle cose avvenivano rendendo aleatoria la riservatezza, da ciò discendendo che, secondo me, quella è colpa rilevante, a prescindere dall’esistenza o meno del reato, che una volta svelata non è rimediabile; c. il leader politico era già minacciato da altre, imminenti e definitive, pendenze penali, al punto che la condanna in oggetto potrebbe fungere più da galvanizzante che da desertificante elettorale. Ora che non mi sono sottratto, veniamo alla questione seria.
Condannando l’imputato (da questo punto in poi la sua identità è irrilevante, a meno che non si voglia sostenere che per farlo fuori ogni mezzo è lecito, così avvalorando la tesi della persecuzione) il tribunale ha chiesto di sottoporre a procedimento penale i testimoni della difesa. Ciò significa che, a giudizio del tribunale, le loro testimonianze non sono state tali da smentire l’accusa, ma l’hanno avversata con il falso. Qui si crea un non risolvibile cortocircuito. E’ vero che la sentenza di primo grado è appellabile, ma come si fa a fare l’appello se gli stessi testimoni non potranno essere ascoltati? Né potrebbe essere diversamente, perché ove si presentassero a sostenere le stesse cose, magari perché convinti di dire il vero, il loro comportamento potrebbe essere rubricato quale reiterazione del reato. Una eventuale assoluzione dell’imputato originario diventerebbe inquinamento delle prove, nel procedimento a carico dei testimoni. Senza contare che, una volta divenuti imputati proprio per quanto detto in aula, quegli stessi potrebbero non testimoniare, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Sotto al peso di questa contraddizione il processo penale è morto, in Italia. Non “quel” processo, ma tutti i processi.
E che doveva fare, il tribunale, non segnalare quella che suppone essere una falsa testimonianza? Qui è il nodo. Nel processo accusatorio, non a caso detto “all’americana”, la falsa testimonianza viene proclamata immediatamente, con susseguente penalità per il reo. Se, invece, all’italiana, la si persegue successivamente e in separata sede, come cavolo si fa a chiudere un processo in cui la veridicità e genuinità della prova è solo supposta, ma non dimostrata come irregolare? All’americana, del resto, giustamente, non viene riconosciuto all’imputato il diritto di mentire e imbrogliare, ma solo quello di tacere. Da noi abbiamo impostato un guazzabuglio che a Milano ha esalato l’ultimo respiro. Ma non è evidente che chi ieri pagò la minorenne per accompagnarvisi la paga oggi (maggiorenne) per tacere? Questa è la santa inquisizione, perché occorre prima dimostrare il reato principale. Cosa impossibile in un processo inficiato dalla persecuzione dei testimoni, o dalla proclamazione del loro mendacio per superare la loro avversità.
A Milano ha preso corpo il disfacimento giuridico, a sua volta prodotto di una selezione a dir poco superficiale del personale giudicante. Lo fo’ per Berlusconi? No, per piacer mio.
Siccome conosco i miei polli, sicché son tutti pronti a dire che questa è una trovata per non parlare della faccenda grave, vale a dire della (ex) minorenne e della condanna, sbrigo la faccenda all’inizio: a. l’imputato è (in questo procedimento) al suo primo grado, e ricordo alla diffusa ignoranza che, in Italia, il processo è uno solo, talché la presunzione d’innocenza vale fino alla fine, mentre la colpevolezza solo dopo la condanna definitiva; b. il governante (di allora) si abbandonò a condotte incompatibili con il ruolo, non perché sia io moralista o me ne importi alcunché di quel che ciascuno fa in brachette, ma perché l’insieme delle cose avvenivano rendendo aleatoria la riservatezza, da ciò discendendo che, secondo me, quella è colpa rilevante, a prescindere dall’esistenza o meno del reato, che una volta svelata non è rimediabile; c. il leader politico era già minacciato da altre, imminenti e definitive, pendenze penali, al punto che la condanna in oggetto potrebbe fungere più da galvanizzante che da desertificante elettorale. Ora che non mi sono sottratto, veniamo alla questione seria.
Condannando l’imputato (da questo punto in poi la sua identità è irrilevante, a meno che non si voglia sostenere che per farlo fuori ogni mezzo è lecito, così avvalorando la tesi della persecuzione) il tribunale ha chiesto di sottoporre a procedimento penale i testimoni della difesa. Ciò significa che, a giudizio del tribunale, le loro testimonianze non sono state tali da smentire l’accusa, ma l’hanno avversata con il falso. Qui si crea un non risolvibile cortocircuito. E’ vero che la sentenza di primo grado è appellabile, ma come si fa a fare l’appello se gli stessi testimoni non potranno essere ascoltati? Né potrebbe essere diversamente, perché ove si presentassero a sostenere le stesse cose, magari perché convinti di dire il vero, il loro comportamento potrebbe essere rubricato quale reiterazione del reato. Una eventuale assoluzione dell’imputato originario diventerebbe inquinamento delle prove, nel procedimento a carico dei testimoni. Senza contare che, una volta divenuti imputati proprio per quanto detto in aula, quegli stessi potrebbero non testimoniare, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Sotto al peso di questa contraddizione il processo penale è morto, in Italia. Non “quel” processo, ma tutti i processi.
E che doveva fare, il tribunale, non segnalare quella che suppone essere una falsa testimonianza? Qui è il nodo. Nel processo accusatorio, non a caso detto “all’americana”, la falsa testimonianza viene proclamata immediatamente, con susseguente penalità per il reo. Se, invece, all’italiana, la si persegue successivamente e in separata sede, come cavolo si fa a chiudere un processo in cui la veridicità e genuinità della prova è solo supposta, ma non dimostrata come irregolare? All’americana, del resto, giustamente, non viene riconosciuto all’imputato il diritto di mentire e imbrogliare, ma solo quello di tacere. Da noi abbiamo impostato un guazzabuglio che a Milano ha esalato l’ultimo respiro. Ma non è evidente che chi ieri pagò la minorenne per accompagnarvisi la paga oggi (maggiorenne) per tacere? Questa è la santa inquisizione, perché occorre prima dimostrare il reato principale. Cosa impossibile in un processo inficiato dalla persecuzione dei testimoni, o dalla proclamazione del loro mendacio per superare la loro avversità.
A Milano ha preso corpo il disfacimento giuridico, a sua volta prodotto di una selezione a dir poco superficiale del personale giudicante. Lo fo’ per Berlusconi? No, per piacer mio.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.