Verso il 2013
Il partito che non c'è. E' quello che bisogna fare
Personalismi e fughe in avanti rischiano di far abortire il "partito che non c'è£. Come sempre, e specialmente in questi momenti, è necessario l'impegnoe la responsabilità. CHi c'è?di Enrico Cisnetto - 15 settembre 2012
Si può morire prima ancora di essere concepiti? È il rischio che corre il “partito che non c’è” – e di cui si sente assoluta necessità – se si continua così. L’idea viene da lontano. E nasce da quando è apparso chiaro il fallimento della Seconda Repubblica. Ad essere precisi, nasce ancor prima, quando erano evidenti i limiti del bipolarismo italico, basato sulla delegittimazione reciproca, ed era necessario un “terzo polo” che rompesse il gioco di alternanza tra i due poli incapaci di governare perché costruiti su alleanze improbabili, con programmi eterei e classe dirigente a dir poco mediocre.
Purtroppo quel terzo polo si è fermato alla sola Udc, che peraltro scontava la colpa di essere stata partecipe del sistema bipolare per i lunghi anni di alleanza con Berlusconi, e non ha dunque avuto la forza di far saltare il sistema. La cui rottura è quindi avvenuta per fatto traumatico – l’emergenza spread di novembre scorso – e di conseguenza si è dovuti ricorrere ad un soccorso tecnico, il governo Monti, per gestire la fase di transizione. Questo percorso “non virtuoso” ha cambiato i termini della questione e provocato un ritardo che, ora, si sta facendo foriero di gravi problemi. Intanto non c’è più bisogno di una “terza forza”, ma di qualcuno che vinca le elezioni. E che sappia vincerle per aver detto la verità al Paese – siamo ancora in una drammatica emergenza economico-finanziaria, e ci vorrà almeno una legislatura per fare le riforme strutturali che sono necessarie per uscirne – non per averlo narcotizzato raccontandogli che il più è fatto e che dopo le elezioni tutto tornerà come prima. Dunque un nuovo partito, e nello stesso tempo un partito nuovo, che possa raccogliere il voto moderato in fuga dal vecchio centro-destra e quello riformista preoccupato che un Pd incapace di rinnovare la sua classe dirigente finisca per costruire un’alleanza a sinistra che o non arriva neppure alla meta (Occhetto bis) o se anche arriva al 51% non riesce a governare (Prodi del 2006) per deficit di coesione programmatica e per esiguità di margini parlamentari.
Invece, l’Udc prima si è attardata a costruire un’alleanza inutile con Rutelli e Fini, e poi si è schiacciata su Monti (arrivando a definirsi d’accordo con lui a priori e a prescindere), finendo per risultare indigesto a chi ha usato critiche ragionevoli e costruttive nei confronti del Professore prestato alla politica, e viceversa finendo per dare ai tifosi di Monti l’idea che sia indispensabile il Monti-bis e la discesa in campo del premier. Mentre tutti quelli che sono fuori dal recinto della politica e da tempo guardano ad un loro possibile impegno, hanno preso tempo (troppo) in attesa di capire con quale legge elettorale si andrà a votare e che scenario si configurasse a destra come a sinistra. Risultato: il bipolarismo ha ripreso fiato – quantomeno nell’attenzione mediatica – inducendo sia Bersani che Alfano a escludere una grande coalizione nella prossima legislatura a meno che nessuna vinca (come probabile) le elezioni.
E il “partito che non c’è” è rimasto tale e corre il rischio di non fare in tempo a nascere. Anche perché nel frattempo hanno preso il sopravvento fastidiosi personalismi e acide rivalità, che sono l’opposto di ciò che serve per creare una nuova forza politica basata non più sul carisma di leader o presunti tali, ma sul cemento programmatico delle idee. Così come servono solo privatamente a chi le costruisce iniziative di un qualche rilievo mediatico ma prive di consistenza strategica e di vera intenzione aggregatrice. Non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, sono fin troppo chiari gli episodi a cui mi riferisco.
In soldoni: l’Udc non può pensare di lanciare il “partito per l’Italia” prendendo come base se stessa, gli outsider non possono avere la presunzione di poter fare a meno della forza consolidata dell’Udc. Le forze vanno unite con umiltà e tenacia, senza egoismi e settarismi. Bisogna che qualcuno prenda l’iniziativa: un campo neutro, tutti i protagonisti che accettano di sedersi con pari dignità ad un medesimo tavolo. Molte cose sono in movimento: da Renzi, che con intelligenza tattica sta costringendo la sinistra a fare i conti con la sua storia sempre incompiuta, ai cattolici che con il cardinal Bagnasco s’interrogano su come tornare centrali nella politica italiana; dai laici, che devono ritrovare la dignità di se stessi senza cadere nella tentazione di antistorici e controproducenti contro-integralismi, alla stessa anti-politica, che dovrà pur domandarsi che uso sarà fatto dei suoi voti se ranno dati a coloro che predicano la democrazia dal basso e poi praticano le peggiori logiche padronali. Vanno tutte intercettate.
Agli italiani va data la possibilità di voltar pagina e nello stesso tempo di avere maggiori chance di governo del Paese e dei suoi complessi problemi, togliendo loro la tentazione (per mancanza di alternative) di usare il voto come arma di generica (e qualunquistica) protesta. Altrimenti il voto sarà inevitabilmente di stampo greco. E saranno dolori. Chi non vuole prendersi questa responsabilità alzi la mano.
Purtroppo quel terzo polo si è fermato alla sola Udc, che peraltro scontava la colpa di essere stata partecipe del sistema bipolare per i lunghi anni di alleanza con Berlusconi, e non ha dunque avuto la forza di far saltare il sistema. La cui rottura è quindi avvenuta per fatto traumatico – l’emergenza spread di novembre scorso – e di conseguenza si è dovuti ricorrere ad un soccorso tecnico, il governo Monti, per gestire la fase di transizione. Questo percorso “non virtuoso” ha cambiato i termini della questione e provocato un ritardo che, ora, si sta facendo foriero di gravi problemi. Intanto non c’è più bisogno di una “terza forza”, ma di qualcuno che vinca le elezioni. E che sappia vincerle per aver detto la verità al Paese – siamo ancora in una drammatica emergenza economico-finanziaria, e ci vorrà almeno una legislatura per fare le riforme strutturali che sono necessarie per uscirne – non per averlo narcotizzato raccontandogli che il più è fatto e che dopo le elezioni tutto tornerà come prima. Dunque un nuovo partito, e nello stesso tempo un partito nuovo, che possa raccogliere il voto moderato in fuga dal vecchio centro-destra e quello riformista preoccupato che un Pd incapace di rinnovare la sua classe dirigente finisca per costruire un’alleanza a sinistra che o non arriva neppure alla meta (Occhetto bis) o se anche arriva al 51% non riesce a governare (Prodi del 2006) per deficit di coesione programmatica e per esiguità di margini parlamentari.
Invece, l’Udc prima si è attardata a costruire un’alleanza inutile con Rutelli e Fini, e poi si è schiacciata su Monti (arrivando a definirsi d’accordo con lui a priori e a prescindere), finendo per risultare indigesto a chi ha usato critiche ragionevoli e costruttive nei confronti del Professore prestato alla politica, e viceversa finendo per dare ai tifosi di Monti l’idea che sia indispensabile il Monti-bis e la discesa in campo del premier. Mentre tutti quelli che sono fuori dal recinto della politica e da tempo guardano ad un loro possibile impegno, hanno preso tempo (troppo) in attesa di capire con quale legge elettorale si andrà a votare e che scenario si configurasse a destra come a sinistra. Risultato: il bipolarismo ha ripreso fiato – quantomeno nell’attenzione mediatica – inducendo sia Bersani che Alfano a escludere una grande coalizione nella prossima legislatura a meno che nessuna vinca (come probabile) le elezioni.
E il “partito che non c’è” è rimasto tale e corre il rischio di non fare in tempo a nascere. Anche perché nel frattempo hanno preso il sopravvento fastidiosi personalismi e acide rivalità, che sono l’opposto di ciò che serve per creare una nuova forza politica basata non più sul carisma di leader o presunti tali, ma sul cemento programmatico delle idee. Così come servono solo privatamente a chi le costruisce iniziative di un qualche rilievo mediatico ma prive di consistenza strategica e di vera intenzione aggregatrice. Non c’è bisogno di fare nomi e cognomi, sono fin troppo chiari gli episodi a cui mi riferisco.
In soldoni: l’Udc non può pensare di lanciare il “partito per l’Italia” prendendo come base se stessa, gli outsider non possono avere la presunzione di poter fare a meno della forza consolidata dell’Udc. Le forze vanno unite con umiltà e tenacia, senza egoismi e settarismi. Bisogna che qualcuno prenda l’iniziativa: un campo neutro, tutti i protagonisti che accettano di sedersi con pari dignità ad un medesimo tavolo. Molte cose sono in movimento: da Renzi, che con intelligenza tattica sta costringendo la sinistra a fare i conti con la sua storia sempre incompiuta, ai cattolici che con il cardinal Bagnasco s’interrogano su come tornare centrali nella politica italiana; dai laici, che devono ritrovare la dignità di se stessi senza cadere nella tentazione di antistorici e controproducenti contro-integralismi, alla stessa anti-politica, che dovrà pur domandarsi che uso sarà fatto dei suoi voti se ranno dati a coloro che predicano la democrazia dal basso e poi praticano le peggiori logiche padronali. Vanno tutte intercettate.
Agli italiani va data la possibilità di voltar pagina e nello stesso tempo di avere maggiori chance di governo del Paese e dei suoi complessi problemi, togliendo loro la tentazione (per mancanza di alternative) di usare il voto come arma di generica (e qualunquistica) protesta. Altrimenti il voto sarà inevitabilmente di stampo greco. E saranno dolori. Chi non vuole prendersi questa responsabilità alzi la mano.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.