Non servono gli anatemi, ma una riflessione seria
Il Paese del “potere senza poteri”
Che disastro, quando i leader contano più delle regoledi Enrico Cisnetto - 15 febbraio 2010
Mi stupisco che ci si stupisca. Di fronte all’ennesimo “caso” di presunto malaffare e malcostume – la vicenda Bertolaso – vedo gente sempre più attonita assistere al crescente imbarbarimento della lotta politica, sia che assuma le sembianze del conflitto tra magistratura e mondo politico-istituzionale, sia che si tratti di incursioni nella vita privata della classe dirigente operate dai media, con i magistrati sempre pronti ad aprire fascicoli e inviare avvisi di garanzia. Eppure era scritto che tutto questo dovesse accadere. Era scritto nello specifico della Protezione Civile, perché nel momento in cui il “potere senza poteri” rappresentato da governo e maggioranza parlamentare – gli attuali, ma la condizione del centro-sinistra era pure peggiore – rinuncia a riscrivere norme e regole che impediscono a qualunque ente o amministrazione pubblica di realizzare qualsivoglia opera o anche semplicemente di gestire la cosa pubblica e preferisce usare l’emergenza come corsia preferenziale anti-burocrazia, ecco che si pongono le premesse per un’inevitabile conflitto giudiziario.
Che in Italia sia impossibile governare e amministrare senza incorrere in un’ipotesi di reato è assodato, ma la risposta della politica – concordemente, nell’interesse di tutte le parti – avrebbe dovuto essere quella di porre rimedio a questo, non di tentare di aggirare l’ostacolo. Perché così facendo nell’ostacolo ci si finisce per inciampare, senza scampo. Ma anche questa debolezza della politica, che opta per la scorciatoia anziché per la via maestra, è cosa scontata. Oggi come ieri.
E’ caratteristica della Seconda Repubblica. Cioè di quella stagione della storia d’Italia in cui si è scelto di dare al paese un sistema politico di tipo maggioritario e di smantellare i partiti dopo averli demonizzati. Già allora era in atto quel fenomeno che potremmo chiamare “americanizzazione” della politica e vita pubblica più in generale, che cancella il confronto delle idee e lo sostituisce con quello delle persone. Non contano i programmi, la capacità progettuale, ma le biografie e l’immagine.
Un fenomeno che si accentua con la caduta delle ideologie, da noi più forte che altrove per il ruolo egemone che in precedenza avevano avuto le “grandi chiese”. La discesa in campo del “grande venditore” e la contemporanea crisi irrisolta della sinistra hanno fatto il resto, consegnandoci la versione peggiore, patologica e persino farsesca, della “politica spettacolo” importata da altri lidi. Ovvio che se altrove imperava il marketing, da noi avrebbe imperato – come impera sempre più – il “marchetting”.
Si dirà: che c’entra la personalizzazione e teatralizzazione della politica con gli scandali, il prevalere del gossip, l’invasione di campo della magistratura? C’entra eccome, perché nel paese delle trame, vere e presunte, il passaggio dai partiti ai leader (o presunti tali) non poteva che produrre una lotta politica basata sulle contrapposizioni personali, fatta sul proscenio di reciproca delegittimazione e dietro le quinte di dossier, di spie, di registrazioni telefoniche, di foto, di filmati. E in questo contesto, peggio per chi crede di poter manovrare il ventilatore che spande liquami: quando si mette in moto la macchina dello sputtanamento, non c’è nessuno che possa né guidarla né fermarla. C’è solo spazio per il gioco al rialzo, per il dossieraggio sempre più spinto.
Perciò, se gli obiettivi che ci si era dati quando si è passati dalla Prima alla Seconda Repubblica erano da un lato fermare la deriva della corruzione imperante nella politica e nella pubblica amministrazione, e dall’altro sanare lo squilibrio formatosi a suon di forzature tra la magistratura e il potere legislativo ed esecutivo, si può ben dire non solo che quegli obiettivi non sono stati raggiunti, ma anche che si è prodotta una condizione della vita pubblica ben peggiore di quella che si voleva cambiare. Da ciò ne discende che è inutile affrontare le tante sfaccettature di questa situazione – la magistratura, il ruolo dei media, il confine tra privacy e vita pubblica, e così via fino ai compiti e ai poteri della Protezione Civile – se prima non si affronta il tema del sistema politico che ci siamo dati e della cultura politica che lo alimenta. Non servono né gli anatemi – anche perché questo è un paese che da anni è permeato dalla cultura della denuncia e non da quella della proposta – né le difese d’ufficio.
Serve una riflessione finalmente libera sul paese che abbiamo costruito (o distrutto) negli ultimi vent’anni. Senza che si pronunci il nome di Berlusconi, né di chiunque altro. Proviamoci, almeno.
Che in Italia sia impossibile governare e amministrare senza incorrere in un’ipotesi di reato è assodato, ma la risposta della politica – concordemente, nell’interesse di tutte le parti – avrebbe dovuto essere quella di porre rimedio a questo, non di tentare di aggirare l’ostacolo. Perché così facendo nell’ostacolo ci si finisce per inciampare, senza scampo. Ma anche questa debolezza della politica, che opta per la scorciatoia anziché per la via maestra, è cosa scontata. Oggi come ieri.
E’ caratteristica della Seconda Repubblica. Cioè di quella stagione della storia d’Italia in cui si è scelto di dare al paese un sistema politico di tipo maggioritario e di smantellare i partiti dopo averli demonizzati. Già allora era in atto quel fenomeno che potremmo chiamare “americanizzazione” della politica e vita pubblica più in generale, che cancella il confronto delle idee e lo sostituisce con quello delle persone. Non contano i programmi, la capacità progettuale, ma le biografie e l’immagine.
Un fenomeno che si accentua con la caduta delle ideologie, da noi più forte che altrove per il ruolo egemone che in precedenza avevano avuto le “grandi chiese”. La discesa in campo del “grande venditore” e la contemporanea crisi irrisolta della sinistra hanno fatto il resto, consegnandoci la versione peggiore, patologica e persino farsesca, della “politica spettacolo” importata da altri lidi. Ovvio che se altrove imperava il marketing, da noi avrebbe imperato – come impera sempre più – il “marchetting”.
Si dirà: che c’entra la personalizzazione e teatralizzazione della politica con gli scandali, il prevalere del gossip, l’invasione di campo della magistratura? C’entra eccome, perché nel paese delle trame, vere e presunte, il passaggio dai partiti ai leader (o presunti tali) non poteva che produrre una lotta politica basata sulle contrapposizioni personali, fatta sul proscenio di reciproca delegittimazione e dietro le quinte di dossier, di spie, di registrazioni telefoniche, di foto, di filmati. E in questo contesto, peggio per chi crede di poter manovrare il ventilatore che spande liquami: quando si mette in moto la macchina dello sputtanamento, non c’è nessuno che possa né guidarla né fermarla. C’è solo spazio per il gioco al rialzo, per il dossieraggio sempre più spinto.
Perciò, se gli obiettivi che ci si era dati quando si è passati dalla Prima alla Seconda Repubblica erano da un lato fermare la deriva della corruzione imperante nella politica e nella pubblica amministrazione, e dall’altro sanare lo squilibrio formatosi a suon di forzature tra la magistratura e il potere legislativo ed esecutivo, si può ben dire non solo che quegli obiettivi non sono stati raggiunti, ma anche che si è prodotta una condizione della vita pubblica ben peggiore di quella che si voleva cambiare. Da ciò ne discende che è inutile affrontare le tante sfaccettature di questa situazione – la magistratura, il ruolo dei media, il confine tra privacy e vita pubblica, e così via fino ai compiti e ai poteri della Protezione Civile – se prima non si affronta il tema del sistema politico che ci siamo dati e della cultura politica che lo alimenta. Non servono né gli anatemi – anche perché questo è un paese che da anni è permeato dalla cultura della denuncia e non da quella della proposta – né le difese d’ufficio.
Serve una riflessione finalmente libera sul paese che abbiamo costruito (o distrutto) negli ultimi vent’anni. Senza che si pronunci il nome di Berlusconi, né di chiunque altro. Proviamoci, almeno.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.