I conti pubblici non sono a posto
Il Paese è ripartito? Magari...
Prodi è stato eccessivamente ottimista. La ripresa non è strutturaledi Enrico Cisnetto - 18 maggio 2007
Magari. Magari i conti pubblici fossero a posto, magari la ripresa potesse essere considerata strutturale, magari l’Italia fosse ripartita. Nel consuntivare un anno di governo, anzi di governi visto che questo è il secondo esecutivo dopo le elezioni dell’aprile 2006, Romano Prodi è stato eccessivamente ottimista. E non tanto nel giudicare se stesso e la sua compagine – inutile chiedere all’oste se il vino è buono – quanto nel valutare lo stato di salute del Paese, e in particolare dell’economia. Una valutazione, quella che si potrebbe riassumere nello schema “siamo usciti dal declino”, non solo non vera, ma che potrebbe rivelarsi addirittura pericolosa se si dovesse tradurre in una sorta di narcotico per la consapevolezza, già bassa, che si ha dei problemi nazionali.
Certo, rispetto alla lunga fase della “crescita zero”, la nostra economia ha ritrovato la strada dello sviluppo, e di questo sarebbe sciocco negare l’importanza. Ma allo stesso tempo, non va dimenticato che tanto la crescita dell’1,9% dell’anno scorso quanto quella più o meno analoga prevista per quest’anno ci consentono una velocità nettamente inferiore a quella cui mediamente viaggia l’Europa, a sua volta inferiore a quella americana (salvo nel 2007, che saranno pari) e soprattutto a quella asiatica. Dunque, quello che importa – e questo l’economista Prodi lo sa benissimo – non è tanto il miglioramento su noi stessi, quanto il confronto con i nostri maggiori concorrenti mondiali. Confronto che mostra come il gap aumenti, pericolosamente, di anno in anno. Così come i dati favorevoli per l’export e modesti per i consumi interni dimostrano come la ripresa sia in grande misura l’effetto di trascinamento della crescita – questa sì strutturale – della Germania. D’altra parte, la frenata della produzione industriale e del pil nel primo trimestre 2007 testimonia tutta la fragilità di una crescita solo congiunturale. Conseguenza di un processo di trasformazione del nostro apparato produttivo, lento e parziale, che è stato lasciato solo alla forza di volontà degli imprenditori, privo come è stato di un supporto strategico.
Quanto alla finanza pubblica, la (giusta) prudenza mostrata ieri da Prodi sull’effettiva disponibilità del cosiddetto “tesoretto” e sul suo eventuale utilizzo, avrebbe dovuto indurlo ad evitare di fischiare la fine dell’emergenza. Anche se fosse vero che l’allarme pre e post elettorale del ministro Padoa Schioppa è stato eccessivo, e anche se fosse vero che le maggiori entrate fiscali consentono di sistemare i conti per rispettare le tabelle europee per il prossimo biennio – e in entrambi i casi in parte è così – ciò non toglie che abbiamo il debito ancora superiore al pil, che la spesa pubblica supera la metà del reddito prodotto e che gli investimenti per le infrastrutture (materiali e immateriali) e per “formazione & innovazione” sono del tutto insufficienti. Questo significa che siamo ben lontani non solo dal risanamento, ma anche dalla riqualificazione dei nostri conti dentro un modello di sviluppo, un sistema di welfare e un assetto istituzionale adeguati alle sfide della competizione globale. E che, di conseguenza, dovremmo valutare la questione fiscale in maniera ben più meditata dell’ondivago atteggiamento del governo Prodi, passato in questo anno – di cui c’è davvero poco da celebrare – dalla primigenia logica punitiva all’attuale tentativo di trovare sconti da fare agli italiani (vedi il caso Ici). Ma per abbassare sul serio le tasse, così come per realizzare una vera riforma delle pensioni, per fare politica industriale, o per mettere mano ad un federalismo sciagurato, il nodo era e resta tutto politico. Legato tanto alle contraddizioni del centro-sinistra – apparse in tutta la loro clamorosa evidenza in questo anno prodiano – quanto a quelle del centro-destra, deludente quando è stato al governo dotato di una maggioranza parlamentare senza precedenti e ancor più evanescente come forza di opposizione. Ma, francamente, la mancata riforma del sistema politico, pre-condizione di ogni modernizzazione del Paese, non è imputabile a Prodi: lui non l’ha mai messa in programma.
Pubblicato su Il Mattino del 18 maggio
Certo, rispetto alla lunga fase della “crescita zero”, la nostra economia ha ritrovato la strada dello sviluppo, e di questo sarebbe sciocco negare l’importanza. Ma allo stesso tempo, non va dimenticato che tanto la crescita dell’1,9% dell’anno scorso quanto quella più o meno analoga prevista per quest’anno ci consentono una velocità nettamente inferiore a quella cui mediamente viaggia l’Europa, a sua volta inferiore a quella americana (salvo nel 2007, che saranno pari) e soprattutto a quella asiatica. Dunque, quello che importa – e questo l’economista Prodi lo sa benissimo – non è tanto il miglioramento su noi stessi, quanto il confronto con i nostri maggiori concorrenti mondiali. Confronto che mostra come il gap aumenti, pericolosamente, di anno in anno. Così come i dati favorevoli per l’export e modesti per i consumi interni dimostrano come la ripresa sia in grande misura l’effetto di trascinamento della crescita – questa sì strutturale – della Germania. D’altra parte, la frenata della produzione industriale e del pil nel primo trimestre 2007 testimonia tutta la fragilità di una crescita solo congiunturale. Conseguenza di un processo di trasformazione del nostro apparato produttivo, lento e parziale, che è stato lasciato solo alla forza di volontà degli imprenditori, privo come è stato di un supporto strategico.
Quanto alla finanza pubblica, la (giusta) prudenza mostrata ieri da Prodi sull’effettiva disponibilità del cosiddetto “tesoretto” e sul suo eventuale utilizzo, avrebbe dovuto indurlo ad evitare di fischiare la fine dell’emergenza. Anche se fosse vero che l’allarme pre e post elettorale del ministro Padoa Schioppa è stato eccessivo, e anche se fosse vero che le maggiori entrate fiscali consentono di sistemare i conti per rispettare le tabelle europee per il prossimo biennio – e in entrambi i casi in parte è così – ciò non toglie che abbiamo il debito ancora superiore al pil, che la spesa pubblica supera la metà del reddito prodotto e che gli investimenti per le infrastrutture (materiali e immateriali) e per “formazione & innovazione” sono del tutto insufficienti. Questo significa che siamo ben lontani non solo dal risanamento, ma anche dalla riqualificazione dei nostri conti dentro un modello di sviluppo, un sistema di welfare e un assetto istituzionale adeguati alle sfide della competizione globale. E che, di conseguenza, dovremmo valutare la questione fiscale in maniera ben più meditata dell’ondivago atteggiamento del governo Prodi, passato in questo anno – di cui c’è davvero poco da celebrare – dalla primigenia logica punitiva all’attuale tentativo di trovare sconti da fare agli italiani (vedi il caso Ici). Ma per abbassare sul serio le tasse, così come per realizzare una vera riforma delle pensioni, per fare politica industriale, o per mettere mano ad un federalismo sciagurato, il nodo era e resta tutto politico. Legato tanto alle contraddizioni del centro-sinistra – apparse in tutta la loro clamorosa evidenza in questo anno prodiano – quanto a quelle del centro-destra, deludente quando è stato al governo dotato di una maggioranza parlamentare senza precedenti e ancor più evanescente come forza di opposizione. Ma, francamente, la mancata riforma del sistema politico, pre-condizione di ogni modernizzazione del Paese, non è imputabile a Prodi: lui non l’ha mai messa in programma.
Pubblicato su Il Mattino del 18 maggio
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.