Malumori e malesseri per il costituendo PDL
IL miracolo del predellino: fu vera gloria?
La parabola del PD insegna: partito unico non vuol dire partito unitariodi Elio Di Caprio - 19 gennaio 2009
Il bipartitismo all’italiana elargito dall’alto e calato prima sul PD con il bluff delle primarie con Walter Veltroni candidato quasi unico, e poi sul PDL del miracolo del predellino, sta già mostrando le sue vistose crepe. Ciò però non vuol dire che dovremo assistere in tempi brevi ad una scomposizione e successiva ricomposizione del quadro politico, a meno che non sopraggiungano i nuovi mostri, evocati da Giulio Tremonti, della crisi finanziaria che si aggrava.
E’ probabile, per quanto riguarda il PDL, che i rispuntati malesseri di AN siano destinati a riassorbirsi in nome della real politik di una distribuzione più accorta dei posti di potere nell’ambito di una nomenklatura che sta sempre più radicandosi nel Paese, come ai tempi della vecchia DC. Anche adesso, come allora, poteri forti e poteri deboli hanno trovato un comune denominatore nel forzato o spontaneo consenso a quella che sembra l’unica realtà di governo possibile nelle attuali contingenze storico-politiche. Con l’aggravante che mentre nella Prima Repubblica l’opposizione del PCI, escluso dal potere centrale al pari del MSI, riusciva pur sempre a rappresentare un’altra Italia possibile su cui riversare le passioni di cambiamento degli esclusi, adesso, nella Seconda, il pateracchio del Partito Democratico non riesce neppure a suscitare la speranza che il ceto politico da esso espresso e rappresentato costituisca una valida alternativa al berlusconismo. Il successo protestatario alla Di Pietro è lì a dimostrarlo ampiamente.
E’ ovvio pensare che i travagli del PD e del PDL siano in qualche modo speculari per le fusioni a freddo tra le tante vecchie anime decise e imposte al vertice da Veltroni e Berlusconi nei rispettivi fronti, ma i risultati della semplificazione elettorale (autoritaria?) per ora hanno premiato più il centro destra che la sinistra sconfitta e per giunta amputata in Parlamento della sua ala estrema e antagonista. Ma soprattutto ciò che rende fragile l’attuale opposizione è l’assenza di veri leaders a meno che non si vogliano considerare tali il sempre più sfiorito Walter Veltroni o il sempre rimontante Massimo D’Alema o altri leaders a metà come Francesco Rutelli o lo stesso Ferdinando Casini.
Sono essi i nuovi simboli, i nuovi capi-popolo in grado di suscitare passioni ed offrire soluzioni di ricambio in un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi economiche della sua storia? Sull’altro fronte invece non mancano certo i leaders, da Berlusconi, a Fini, allo stesso Bossi e forse all’emergente Tremonti : è questa la forza e insieme la debolezza della coalizione di maggioranza in cui questi leaders rappresentano e riassumono culture di base molto differenti che possono rompere l’attuale posticcio equilibrio del centro destra e configgere prima o poi tra loro.
Arare sullo stesso terreno dei consensi elettorali indistinti – l’importante è che la sinistra non ritorni al governo- ha premiato finora Berlusconi che per questo si considera, a ragione, il vero leader eletto sul campo. E’ difficile a questo punto per chi come Fini ha accettato la personalizzazione della politica in nome del Cavaliere per vincere le elezioni – lo ha candidamente ammesso nella sua confessione-intervista a Bruno Vespa – ritornare sui suoi passi ed invocare un partito “pesante” a norma di statuto per fare il giusto posto nel PDL alla ex componente di AN, con la riposta speranza che quest’ultima possa prima o poi prevalere.
Gianfranco Fini si smarca dal Cavaliere volendo accreditare una specificità sua e di AN su tutti i temi possibili anche a costo di accarezzare un possibile accordo con Veltroni sulle riforme istituzionali (quali?) e la giustizia , Umberto Bossi aspetta al varco la maggioranza di governo per la riforma federalista e non disdegna anch’egli un accordo trasversale con le opposizioni pur di raggiungere il suo obiettivo. Silvio Berlusconi dal suo canto si destreggia alla meglio dopo aver lanciato la sua opa sulla minoranza di AN e conta di essere il solo marchio riconoscibile del costituendo PDL.
D’altronde chi è mai in grado di sconfessare il PDL che ha avuto un riconoscimento elettorale così ampio ancor prima di costituirsi in partito? Certo si possono ridefinire i rapporti di forza tra le varie componenti del centro destra, compresa la Lega. Ma il costo sarebbe troppo alto se tutto si riducesse ad una mera spartizione di posti e di interessi rappresentati.
Il malessere c’è ed è profondo: An, Forza Italia e Lega, che sono le uniche componenti sopravvissute del centro destra dopo l’esclusione di Casini sono tutti “partiti del Presidente”, ma del loro Presidente, restii ad accettare un unico leader che non sia il loro. E’ questa la sovrana contraddizione che nessuna magia di Silvio Berlusconi riuscirà a nascondere.
E’ probabile, per quanto riguarda il PDL, che i rispuntati malesseri di AN siano destinati a riassorbirsi in nome della real politik di una distribuzione più accorta dei posti di potere nell’ambito di una nomenklatura che sta sempre più radicandosi nel Paese, come ai tempi della vecchia DC. Anche adesso, come allora, poteri forti e poteri deboli hanno trovato un comune denominatore nel forzato o spontaneo consenso a quella che sembra l’unica realtà di governo possibile nelle attuali contingenze storico-politiche. Con l’aggravante che mentre nella Prima Repubblica l’opposizione del PCI, escluso dal potere centrale al pari del MSI, riusciva pur sempre a rappresentare un’altra Italia possibile su cui riversare le passioni di cambiamento degli esclusi, adesso, nella Seconda, il pateracchio del Partito Democratico non riesce neppure a suscitare la speranza che il ceto politico da esso espresso e rappresentato costituisca una valida alternativa al berlusconismo. Il successo protestatario alla Di Pietro è lì a dimostrarlo ampiamente.
E’ ovvio pensare che i travagli del PD e del PDL siano in qualche modo speculari per le fusioni a freddo tra le tante vecchie anime decise e imposte al vertice da Veltroni e Berlusconi nei rispettivi fronti, ma i risultati della semplificazione elettorale (autoritaria?) per ora hanno premiato più il centro destra che la sinistra sconfitta e per giunta amputata in Parlamento della sua ala estrema e antagonista. Ma soprattutto ciò che rende fragile l’attuale opposizione è l’assenza di veri leaders a meno che non si vogliano considerare tali il sempre più sfiorito Walter Veltroni o il sempre rimontante Massimo D’Alema o altri leaders a metà come Francesco Rutelli o lo stesso Ferdinando Casini.
Sono essi i nuovi simboli, i nuovi capi-popolo in grado di suscitare passioni ed offrire soluzioni di ricambio in un Paese che sta affrontando una delle più gravi crisi economiche della sua storia? Sull’altro fronte invece non mancano certo i leaders, da Berlusconi, a Fini, allo stesso Bossi e forse all’emergente Tremonti : è questa la forza e insieme la debolezza della coalizione di maggioranza in cui questi leaders rappresentano e riassumono culture di base molto differenti che possono rompere l’attuale posticcio equilibrio del centro destra e configgere prima o poi tra loro.
Arare sullo stesso terreno dei consensi elettorali indistinti – l’importante è che la sinistra non ritorni al governo- ha premiato finora Berlusconi che per questo si considera, a ragione, il vero leader eletto sul campo. E’ difficile a questo punto per chi come Fini ha accettato la personalizzazione della politica in nome del Cavaliere per vincere le elezioni – lo ha candidamente ammesso nella sua confessione-intervista a Bruno Vespa – ritornare sui suoi passi ed invocare un partito “pesante” a norma di statuto per fare il giusto posto nel PDL alla ex componente di AN, con la riposta speranza che quest’ultima possa prima o poi prevalere.
Gianfranco Fini si smarca dal Cavaliere volendo accreditare una specificità sua e di AN su tutti i temi possibili anche a costo di accarezzare un possibile accordo con Veltroni sulle riforme istituzionali (quali?) e la giustizia , Umberto Bossi aspetta al varco la maggioranza di governo per la riforma federalista e non disdegna anch’egli un accordo trasversale con le opposizioni pur di raggiungere il suo obiettivo. Silvio Berlusconi dal suo canto si destreggia alla meglio dopo aver lanciato la sua opa sulla minoranza di AN e conta di essere il solo marchio riconoscibile del costituendo PDL.
D’altronde chi è mai in grado di sconfessare il PDL che ha avuto un riconoscimento elettorale così ampio ancor prima di costituirsi in partito? Certo si possono ridefinire i rapporti di forza tra le varie componenti del centro destra, compresa la Lega. Ma il costo sarebbe troppo alto se tutto si riducesse ad una mera spartizione di posti e di interessi rappresentati.
Il malessere c’è ed è profondo: An, Forza Italia e Lega, che sono le uniche componenti sopravvissute del centro destra dopo l’esclusione di Casini sono tutti “partiti del Presidente”, ma del loro Presidente, restii ad accettare un unico leader che non sia il loro. E’ questa la sovrana contraddizione che nessuna magia di Silvio Berlusconi riuscirà a nascondere.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.