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Public Policy

E' ora di metter mano alla cassa

Il governo "tremonta"

Caro Silvio, restano solo due vie percorribili

di Davide Giacalone - 15 giugno 2011

Per reagire ai due sganassoni elettorali si suggerisce al governo di metter mano alla cassa, più sotto la forma dei tagli fiscali che non quella (più tradizionale e dannosa) della spesa usata per placare le proteste. La faccenda è piuttosto complicata, e benché sia sciocco credere che tutto si articoli attorno alla persona di Giulio Tremonti, quasi egli sia la vestale di un tempio ad altri proibito, la visibile differenza di linguaggio e d’impostazione, rispetto ad altri ministri ed all’ancora silente presidente del Consiglio, aiuta a capire quale partita si sta giocando.

Tremonti non mollerà nulla. Chiacchiere quante se ne vuole, riforme a valere sul futuro anche, sebbene con moderazione, ma ciccia punta. Lo ha detto anche ieri alla Confartigianato: le aliquote Irpef basse, e ridotte a tre, vanno benissimo, ma per finanziarle si deve spendere meno in assistenza, togliendo a chi non ha diritto. Vasto programma, perché a chi non ha diritto si dovrebbe togliere comunque, salvo il fatto che non ci si riesce.

Nel tenere duro il ministro dell’economia ha dalla sua l’aritmetica, resa più stringente dalla maestrina europea che è pronta a dar bacchettate e da speculatori che già sbavano all’idea d’addentare un altro debito sovrano. Ma ha anche una rendita di posizione e un ragionamento politico, con i quali il resto del governo, presidente in testa, dovà fare i conti. La rendita è presto descritta: Tremonti ha scoperto che stando fermo e impedendo il movimento altrui è divenuto il garante del debito italiano, per ciò stesso guadagnando spessore politico, interno e internazionale. Lo stesso Silvio Berlusconi ha cercato di limare questa rendita, ma anziché farlo in Consiglio dei ministri, protetto e fortificato dall’articolo 95 della Costituzione, lo ha fatto anche con dichiarazioni pubbliche, ottenendo il singolare risultato di rafforzarla.

Taluno pensa: nel contrasto fra presidente e ministro, ove il secondo non si pieghi dovrà cedere e andarsene. Sbagliato, perché non siamo nel luglio del 2004. Allora Tremonti diede le dimissioni, attaccato da Gianfranco Fini e non coperto da Palazzo Chigi, ma il contesto era del tutto diverso. Il centro destra era giunto al governo nel 2001, quando nei conti pubblici c’era un buco, lasciato dai governi di sinistra. Questi ultimi negarono, ma il governatore della Banca d’Italia confermò. Dal buco si sarebbe potuti partire per fare una politica di tagli e riforme, per cambiare l’Italia, invece Berlusconi scelse una via diversa, rasserenando gli italiani.

In quella stagione, quindi, Tremonti praticò la fantasia di bilancio, cercando di tenere in equilibrio conti e promesse. Finì com’è noto, il che gli ha insegnato a non farsi rimettere in quella condizione. Dimettendosi, però, non accentuò minimamente le critiche, anzi, all’opposto, si trincerò nel silenzio.

Nel tritacarne, intanto, finiva il suo successore, Domenico Siniscalco, che nel settembre 2005 si dimise a sua volta (coincidenza rilevante: Siniscalco non fu sostenuto nel suo scontro con la Banca d’Italia e la posizione del governatore è decisiva ancora adesso, allora per reclamarne le dimissioni, oggi per nominare il successore di Mario Draghi). Caduto Siniscalco fu Tremonti a incassare la cambiale del silenzio, tornando al suo posto. Ma, appunto, non siamo nel 2004 e il futuro del centro destra è decisamente più incerto.

Ciò cambia il ragionamento politico. Se a Tremonti riuscisse il farsi mettere nella condizione di mollare, o di essere mollato, perché attaccato sul rigore, l’effetto immediato sarebbe un aumento del tasso d’interesse sul debito pubblico, ovvero la distanza dai tassi che pagano i tedeschi. Una tragedia, capace, da sola, di bruciare ogni ipotetica risorsa messa al servizio dei tagli fiscali e, con quelli, del recupero politico. Una tragedia per l’Italia, ma non per Tremonti, che vedrebbe moltiplicata la sua rendita politica.

In queste condizioni ci vuole troppa forza, interna e internazionale, per governare una simile rottura (l’unica sponda sembra essere la Francia, ovvero lo stesso Paese che ci ha gettati nell’inferno libico). Non sembra che al governo abbondi. Un Paese in cui il 57% degli elettori vota, su tre temi e quattro quesiti, al 95% contro il governo non ha nulla di normale. Un Paese in cui gli opinionisti reclamano riforme liberali e il plebiscito ne cancella una fra le non molte fatte, non ha nulla di normale.

Senza contare che il potente movimento tellurico si sprigiona nel mentre le zolle tettoniche dei mercati e degli speculatori possono scivolarci addosso. Sicché, alla fine, restano due vie:
a. cercare di recuperare credibilità e consensi senza provocare rotture interne alla coalizione, quindi neanche con Tremonti;
b. oppure gettare la spugna e tornare alle urne, puntando su una ulteriore paura, quella di consegnare l’Italia ad un coacervo d’arrabbiati con idee multicolori.

www.davidegiacalone.it

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